C’è qualcosa di più folle, per un grande bevitore, di rinunciare all’alcol? Probabilmente no, soprattutto nei mesi afosi di giugno e di luglio, in cui l’aperitivo diventa l’unico modo per sopravvivere al lavoro e alla città mentre gli altri sono già in vacanza, a prendere caldo altrove. Sober curious – interessata cioè alla sobrietà per motivi di salute mentale e fisica –, ho cominciato la sfida con me stessa e con l’obiettivo di non bere inizialmente per un mese, inaugurando il periodo di sacrificio il 22 giugno e potendo dire di essere intanto arrivata alla boa. Una nuotata inizialmente molto salata, spesso minacciata dalle Sirene che continuano a sussurrare nelle mie orecchie “prosecco ghiacciato”, ma ora più sopportabile.
In molti mi hanno detto che invece di essere così tranchant avrei semplicemente potuto optare per la moderazione, oppure rimandare l’impresa al Dry January, il mese senza alcol post feste natalizie lanciato dieci anni fa in Gran Bretagna (anche se ha radici finlandesi più antiche): sopraffatta da eventi e appuntamenti milanesi, sentivo però il bisogno di operare una vera e propria pulizia da questa tossina. Oltre al fatto che, secondo gli ultimi studi pubblicati su The Lancet Public Health dall’Organizzazione mondiale della sanità, nessun consumo di alcol, nemmeno quello moderato, sarebbe consigliabile per la nostra salute. Non sono qui a cercare di fare proseliti: non ho ancora deciso se, completato il mio progetto, tornerò o meno a bere, la risposta più probabile è “sì, responsabilmente”, proseguendo anche i miei studi per diventare sommelier. Approfitto però per ricordare che l’alcol è considerato il terzo fattore di rischio per decessi e invalidità in Europa, dopo il tabacco e l’ipertensione, e che pare non basti bere poco: i rischi per la salute aumentano in modo significativo con appena 25 grammi di alcol al giorno per le donne (meno di due cocktail standard) e 45 per gli uomini (poco più di tre), con conseguenze a carico del sistema nervoso centrale e del fegato.
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Sempre secondo i dati dell’Oms, l’Europa è il continente con il maggior consumo di alcol al mondo, con una media di oltre 9 litri all’anno, e in Italia, secondo i dati dell’Istituto superiore di Sanità, circa il 4% dei decessi per cancro, quindi 20mila vite, è associato al consumo di alcol. Nei tempi più recenti «Il nuovo fronte della lotta all’alcol ha spostato la sua attenzione dagli effetti sociali dell’alcol a quelli sulla salute», dice Tommaso Ciuffoletti, esperto di vino e vignaiolo che aveva ricostruito su Intravino la polemica sulla proposta europea di segnalare la cancerogenicità di vino e altri alcolici in etichetta, come avviene già da anni per le sigarette.
Al netto di tutti questi validi motivi per riconsiderare i propri consumi – oltre a quello economico, visto che acqua e soft drink pesano meno sulle finanze –, ho scoperto grazie al mio esperimento un mondo di alternative nate per soddisfare non solo chi sceglie la sobrietà per questioni legate alla salute o religiose (che è poi il 50% della popolazione mondiale), ma anche tutti i patentati che hanno a cuore la sicurezza stradale e alle temutissime nuove leggi sulla guida, come quella che potrebbe sancire tolleranza zero. Oltre al sempre magico succo di pomodoro condito e alle bibite piene di zuccheri o surrogati – il cui abuso andrebbe altrettanto evitato –, esistono vini, birre e distillati che nella loro formulazione alcol free puntano a non farci sentire la mancanza dei prodotti tradizionali: un ventaglio che nel panorama anglosassone e in tutti i Paesi a maggioranza musulmana era già molto diffuso, e che ora si allarga anche in Italia. A garantire il piacere della birretta ci sono a oggi Moretti Zero, Beck’s Blue, Heineken 0.0, Paulaner Weissbier Non-alcoholic, Forst 0.0 e tante altre – intendendo con birre analcoliche quelle con un volume di alcol tra lo 0,0% e lo 0,5%, e a basso contenuto alcolico quelle con volume tra lo 0,5% e l’1,2% – anche se non è ancora semplicissimo trovarle al supermercato, e pure nel vino sempre più etichette, a volte dedicate, propongono prodotti parzialmente o totalmente dealcolati, nati da vini sottoposti a processi di dealcolazione tramite separazione per osmosi o attraverso la distillazione a freddo sottovuoto. In Italia a oggi sono meno diffusi, ma si prevede un importante aumento di produzione nell’immediato futuro.
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Per quanto riguarda la mixology, ad assaggiare tutto l’assaggiabile e a fornire una guida aggiornata al 2022 dei prodotti destinati ci ha pensato il New York Times, ma non è raro trovare anche nei bar più insospettabili gin più comuni, come il Tanqueray nella sua versione 00, le proposte di Martini per l’aperitivo, i distillati di Seedlip, Undone, MeMento e altri, per concedersi un mocktail, che non potrà sostituire in tutto e per tutto la piacevole sensazione che solo l’alcol sa dare. Come spiega John deBary, fondatore di Proteau e autore di Drink What You Want: The Subjective Guide to Making Objectively Delicious Cocktails, il sapore amaro dell’alcol evoca una risposta fisiologica che ci avvisa che quello che stiamo consumando potrebbe essere velenoso e insieme stimola appetito e digestione. E ha anche una sua precisa consistenza, che si può provare a ricreare con degli addensanti alimentari.
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«A oggi non conosco un modo per compensare davvero l’alcol e quella sensazione di ingerire tossine che hanno un certo effetto su di noi, come accade anche con la caffeina del caffè», sostiene Agostino Galli, bar manager di Lacerba, tra i più noti cocktail bar di Milano. Ciononostante, per venire incontro alla clientela, il 25% della carta dei drink del locale è dedicata alle opzioni low e no alcol, con almeno cinque proposte di ricette completamente analcoliche, come il Panoma, versione alcol free del Paloma, o il Lolita Margarita, che mantengono nomi vicini a quelli del cocktail originale per permettere ai clienti di associarli a un sapore già conosciuto, che viene quanto più possibile replicato.
È d’accordo anche Dario Comini, titolare e gestore del Nottingham Forest: impossibile replicare un cocktail alcolico in tutto e per tutto, mancando la sensazione di calore, che andrebbe compensata con un maggior uso di spezie. Celebre per i suoi cocktail molecolari che uniscono chimica e fervida creatività, il bar milanese, ha da sempre in carta almeno il 40% di opzioni analcoliche, e ha ideato per renderle più gradevoli i cosplay cocktail, in cui alla bevanda viene abbinato un travestimento. Per esempio l’Harry Potter cocktail, in cui a scegliere la composizione del drink, in accordo coi gusti del cliente, è il cappello parlante, secondo la casata a cui lo assegna. Una bacchetta magica permette poi di trasformare l’acqua in ghiaccio, grazie a una tecnica di chimica molecolare chiamata sottoraffreddamento. «Le molecole vengono portate quattro gradi sotto il punto di glaciazione all’interno di un frigorifero particolare montato su molle che isola il prodotto dalla vibrazione: questo fa sì che non dialoghino tra loro e i cristalli non si colleghino a formare il ghiaccio. Questo si crea poi nel momento in cui poi con la bacchetta vengono agitate le molecole dal cliente».
Nel drink Mad Max invece a interagire c’è una piccola pipetta contenente infuso alle erbe naturali a cui viene fornita carica positiva attraverso la sfera al plasma di Tesla – per intenderci quella al cui interno possiamo osservare quei fulmini colorati che seguono i nostri polpastrelli quando la sfioriamo. «Quando la pipetta viene appoggiata sulla punta della lingua, riceve una scarica elettrica che anestetizza alcune papille gustative, fornendo per alcuni minuti una percezione diversa dei sapori».
Consumare soft drink come acqua, succhi di frutta, bibite gassate e non, come detto, è sicuramente più economico. In appena due settimane ho risparmiato nelle mie uscite quasi quotidiane un’ottantina di euro. Ma l’opzione mocktail, che implica materie prime di qualità e alternative a volte più ricercate di quelle tradizionali, non abbatte il costo. «Al Nottingham Forest, – spiega Comini – il prezzo è il medesimo, poiché l’impegno nella ricerca e la fornitura di prodotti e omaggi è pari a quella degli altri cocktail, e i costi dipendono anche dalla necessità di ammortizzare gli investimenti su tutti quei macchinari particolari come infusori a ultrasuoni, rotovapor e così via». Come aggiunge Galli, inoltre «le birre analcoliche, per esempio, costano di più, e così i distillati, per un discorso di economia di scala: negli ultimi anni è aumentata la produzione, ma non eguaglia quella dei prodotti tradizionali e per motivi di marginalizzazione hanno dunque tutti ancora un prezzo molto alto».
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Tra i distillati analcolici c’è MeMento, primato italiano e tra i primi a livello internazionale, nato nel 2017 da un’idea del toscano Eugenio Muraro e dal suo progetto di start-up per la chiusura di un Executive NBA al Politecnico di Milano. «L’intuizione è arrivata nel 2016, – spiega, – vedendo come nel mondo del food si stava sviluppando un movimento healthy con attenzione nei confronti di intolleranze e allergie, prodotti a km0, calorie, nutrienti etc. Nel mondo dei drink, di cui ero un consumatore, non esisteva ancora un’attenzione così delicata, ma sentivo si sarebbe sviluppata». Se prima l’analcolico veniva considerato un cocktail di serie B, e una sorta di croce per il barman medio, Muraro ha voluto puntare a un prodotto che diventasse una base al pari di gin e vodka, con una bella bottiglia, ingredienti di qualità, la proposta di una drink list apposita e l’attenzione per certificazioni come quella vegana, di senza zuccheri e senza glutine, che potesse gratificare esigenze specifiche e il palato. «La mia missione è che il “bere” non significhi solamente “bere alcol” e che l’analcolico non venga considerato figlio di un dio minore, bensì guadagni una propria autonomia e dignità, oltre al costituire una nuova possibilità di libertà». Il risultato, esportato in tutto il mondo, è una miscela di acque aromatiche distillate da erbe italiane e miscelate secondo tre ricette: l’originale, a base di rosmarino, rosa, elicriso e verbena, una versione “green” con elementi più erbacei e infine la “blu”, che a salvia, santoreggia e origano unisce l’acqua di mare dalla Sardegna.
Ad acquistare prodotti come MeMento sono in particolare i consumatori più giovani, che non sentono più la necessità delle generazioni precedenti di bere alcol, stimolato per anni dalla pubblicità. Come riportano i dati dell’app di dating Tinder, la Gen Z, meno incline alle pressioni sociali, sfida l’abitudine di bere alcolici al primo appuntamento, dando vita alla tendenza del “Dry Dating”. Più del 25% dei membri Gen Z dell’app, infatti, afferma di bere meno durante gli appuntamenti rispetto all’anno scorso e il 72% dei “daters” (dati raccolti tra l’18/10/22 e il 28/10/22 in un sondaggio sull’app di Tinder rivolto ai membri di 18-24 anni in Regno Unito Stati Uniti e Australia, Nda) afferma di bere solo occasionalmente o di non bere affatto. Un’altra parte del target dei distillati analcolici è quella dei profili più maturi, tra i trenta e i quarant’anni, che uscendo spesso vorrebbero ridurre l’assunzione di alcolici, ma insieme soddisfare la voglia di bere un buon drink, preservando la linea e la salute.
Il cliente standard che predilige l’opzione senza alcol, spiegano i bar manager, non esiste, ma sicuramente il trend è in crescita. Una decina d’anni fa, intorno al 2012-2015, c’era stata la scomparsa dai radar della miscelazione analcolica, puntualizza Galli, che quest’anno prevede per il suo locale consumi di distillati no alcol per 170 litri, pari ad almeno un ottavo dei consumi totali. «Noi abbiamo sempre conservato delle opzioni, anche negli anni scorsi: tra i vari motivi c’è anche la nostra vicinanza alla clinica Mangiagalli, che fa sì che molte donne in attesa passino di qui, ed è quindi sempre stato un buon business. Negli anni, la proposta è tornata in auge, un po’ come è accaduto nei ristoranti con vegetarianesimo e veganesimo. Se prima due posti su tre come alternativa ti proponevano un’insalata, oggi è buona norma avere ovunque diverse opzioni che soddisfino queste necessità». Continuando il paragone alimentare, Galli spiega che per non bere possono esserci anche, oltre a motivi di salute o religiosi, motivi etici: «Un vero vegano, che lo fa in un’ottica di sostenibilità, non dovrebbe bere nemmeno alcolici, sapendo che per produrre un litro di vodka ne vengono consumati 70 di acqua».
Appurato che possiamo continuare a frequentare i bar senza rinunciare a un po’ di piacere, non dobbiamo dimenticare, come nota Galli, che l’alcol nasce per un motivo medico che si trasforma poi in motivo ludico, e in particolare per abbassare le difese psicologiche. «Mia madre non è mai stata troppo contenta della professione che ho scelto, e mi ha sempre detto che qualcuno si sarà fatto male per colpa mia. Io le ho sempre risposto che sono sicuramente più le persone nate grazie all’alcol che ho somministrato, di quelle morte». Nel gruppo Telegram che ho aperto a tutti coloro che volessero sperimentare insieme a me l’astinenza e cercare supporto, in molti hanno calcato sull’aspetto psicologico e sociale che ci spinge a bere, per sentirci più a nostro agio, disinibiti, parte di qualcosa. Nello stesso tempo, una nuova corrente ci spinge sempre più verso una maggiore attenzione verso la nostra salute e benessere, con la possibilità di essere più lucidi e performanti.
Bere o non bere alcol, quindi? Le motivazioni tra cui giostrarsi per compiere la propria scelta esistono, le alternative per non sentirne troppo la mancanza si stanno moltiplicando. L’importante è non prendere un bicchiere in mano solo per ovviare alla mancanza di qualcos’altro. Per il resto, cin-cin.