Se c’è quella bottiglia di vino, quella famosa, che vorreste assolutamente con voi su un’isola deserta o in un bunker atomico per sfangare la catastrofe nucleare, cominciate a metterla da parte, a regolarle per bene la temperatura intorno, perché gli ultimi torridi tempi non sono un granché, per il vino.
Raccolti dall’esito incerto, maggiori gradazioni alcoliche, modifiche nella struttura organolettica, viticoltura eroica d’altura come necessità e non più moda, costi lievitati. Ill cambiamento climatico è arrivato ad attaccare la produzione vitivinicola da più fronti, diventando un pericolo non solo per la qualità del vino, ma anche per la sua quantità. La minaccia è concreta, e riguarda la sopravvivenza stessa di gran parte dell’attuale produzione, specie quella locata nel Sud Europa e legata alle varietà internazionali. Un quadro di fragilità acuito dai numerosi trattamenti che bisogna fare contro funghi aggressivi come peronospora e oidio, che vengono effettuati a mezzo macchina immettendo un surplus di anidride carbonica nell’atmosfera – il che, a sua volta, contribuisce all’innalzamento delle temperature.
Contrariamente ai film apocalittici, però, uno spiraglio di luce batte su questa finestra. Sono i vitigni Piwi, che ci dimostrano due cose: le abbreviazioni non dovrebbero mai essere fatte dal tedesco (Piwi deriva da pilzwiederstandfähig, aggettivo composto che significa “resistente ai funghi”); dovremmo piantarla di essere preoccupati di perderci di vista le nostre tradizioni, specie alimentari, perché è proprio stando a far niente che si rischia di cadere nel danno.
I vitigni resistenti non esistono in natura, e per questo sono stati spesso additati come “geneticamente modificati”. Un Piwi, infatti, è l’incrocio di due varianti di Vitis: la Vinifera, la nostra vite europea, profumata, aromatica; e una o più tra le varietà di vite asiatiche e americane, resistenti a peronospora, oidio e spesso botrite (altro fungo letale per la vite) ma di qualità al sorso decisamente inferiore. L’ibridazione avviene a mano, e a seguire il processo da vicino si è catapultati alle lezioni di scienze della quarta liceo, Mendel, gameti, ed ereditarietà dei caratteri.
Si tratta, in breve, di controllare l’impollinazione di due varietà di vite, così da guidarne le proporzioni con il bilancino e rendere più veloce un processo che, se spontaneo, sorpasserebbe la nostra sete di parecchi anni. Si agisce su fiori e polline, portatori del materiale genetico delle due piante. I fiori evolveranno in acini d’uva, e da questi si preleveranno i semi di una varietà ibrida, e nuova. Attraverso molteplici passaggi di questo tipo, e con un processo di incrocio e selezione che dura in media dodici anni, si ottiene una nuova varietà di Vitis, raffinata e funzionale. In generale, il DNA della nuova pianta è composto da Vitis Vinifera per il 95% e altra Vitis per la restante percentuale. Il risultato: una pianta capace di produrre uve, e vini, dalle eccellenti caratteristiche organolettiche, e resistenti ai funghi. Piwi, appunto.
Il processo di creazione di una varietà resistente non ha nulla a che vedere con l’ingegneria genetica degli OGM, a meno di non voler classificare anche le comuni carote arancioni – in origine prevalentemente viola, poi selezionate e incrociate per ottenere una varietà più dolce e piacevole all’occhio – come OGM. Anche perché, in realtà, praticamente tutti i vitigni a noi conosciuti non sono presenti in natura. Il conosciutissimo Cabernet Sauvignon, per esempio, è figlio dell’incrocio tra Cabernet Franc e Sauvignon Blanc. Decade così il principale appunto a sfavore dei Piwi e della loro coltivazione, spesso mosso da produttori di varietà tradizionali di grande valore. No, non berremo a breve tutti solo vino geneticamente modificato, semplicemente perché i Piwi non lo sono. Quello che è vero, però, è che presto i vini resistenti potrebbero uscire dalle tavole degli appassionati, conquistando anche i bicchieri dei bevitori occasionali.
«Le opportunità che le varietà resistenti offrono alla viticoltura sono fondamentali per il periodo storico in cui ci troviamo. Ultimamente si è molto parlato delle strade alternative che la viticoltura d’altezza può aprire per le coltivazioni, sempre più sofferenti per le temperature elevate e la presenza di organismi dannosi impossibilitati a sopravvivere sotto certe temperature. È di sicuro una strada che, nel breve periodo, potrebbe dare i suoi frutti. Ma la contraddizione sta proprio qui: quando si parla di viticoltura, non esiste il “breve periodo”. E soprattutto, anche a voler pensare a lungo termine, bisogna sempre ricordarsi che la viticoltura ad alta quota rende molto, molto meno che quella di pianura, per la difficoltà di lavorazione, i diversi tempi di maturazione e la minor disponibilità di terreno coltivabile».
Nicola Biasi è enologo e produttore di vino, miglior giovane enologo d’Italia per Vinoway, Cult Oenologist 2021 per il Merano Wine Festival ed Enologo dell’Anno 2022 per Food and Travel. La sua relazione con i Piwi è cominciata in tempi non sospetti, quando per piantarli bisognava ancora essere dei mezzi pirati o dei giocolieri tra i vecchi limiti imposti in materia dalla legge italiana. La mossa decisiva è nel 2012, quando Biasi sceglie di espiantare il meleto presente su un terreno di famiglia in Trentino, a oltre 800 metri sul livello del mare, e di sostituirlo con piante di Johanniter, vite resistente a bacca bianca costituita nel 1968 (le nuove varietà Piwi si beccano nomi estrosi: Bronner, Helios, Solaris, Valnosia, Julius, Nermantis, Regent, Ranchella) a partire da un genitore Riesling e un genitore Freiburg 589-54, quest’ultimo a sua volta già ottenuto attraverso vari incroci. Sono i Vin de la Neu, vini della neve, che, alla loro ottava annata (2020), si sono aggiudicati i Tre Bicchieri 2023 del Gambero Rosso, un risultato storico per i vini da vitigni resistenti. Ma c’è di più.
Perché Biasi è il fondatore di Resistenti – Nicola Biasi, un network di produttori di vini resistenti che racchiude otto aziende tra Friuli Venezia-Giulia, Veneto e Trentino – anzi, otto territori: Albafiorita, Ca’ da Roman, Colle Regina, Della Casa, Poggio Pagnan, Vigneti Vinessa, Villa di Modolo, Vin de la Neu – per un totale di 20 vini resistenti proposti. La rete non copre tutti i produttori Piwi italiani: al primo censimento dei produttori Piwi nel nostro Paese, l’indagine ha visto partecipare 138 aziende, alcune interamente Piwi (32 produttori), altri solo in parte (106). Ha, però, un paio di particolarità: la prima è la guida di Biasi, che segue come enologo tutte le realtà coinvolte; la seconda è dirsi chiaramente che la priorità di una produzione resistenti dev’essere, prima ancora che la sostenibilità, la qualità.
«I Piwi non devono diventare l’ennesima bandierina da sventolare per dire che si sta dalla parte della sostenibilità. Se devono davvero essere i vitigni di domani, come appunto sostiene chi si basa sulla loro sostenibilità, allora si deve partire dal verso opposto. Bisogna prima raggiungere una produzione di qualità elevata, capace di misurarsi con i vitigni tradizionali. I vitigni a bacca bianca stanno cominciando a dare risultati straordinari proprio in questi anni, perché si è cominciato prima rispetto ai rossi. Questi ultimi invece sono ancora un po’ indietro, e infatti in alcuni prodotti acerbi a bacca rossa rimane quell’aroma di selvatico che in inglese si chiama foxy ed è tipico delle viti americane, davvero spiacevole al palato. Per me, se il tuo prodotto non è pronto non devi nemmeno metterlo sul mercato. Io dico sempre una cosa: se ti porto ad assaggiare un Piwi che ho curato io come enologo e non ti piace, non devi dire che i Piwi sono cattivi, ma che Nicola Biasi non è capace di fare il vino. Perché i Piwi sono sì frutto di incroci mirati, ma la verità è che sono semplicemente dei vini. E allora dobbiamo trattarli come tali, al pari delle varietà storiche».
D’altronde, a ben guardare anche i vitigni “storici” (Cabernet, Sangiovese, Chardonnay ecc.) si sono spostati attraverso le culture, gli spazi e le epoche, e c’è sempre una prima volta: quella in cui entra la novità, e allora devi imparare come gestirla, come farla sbocciare. E, sempre mettendo sul piatto opposto della bilancia i grandi nomi che tutti conosciamo, Chianti, Barolo e Bordeaux non sono vitigni, ma blend o purezze di certi vitigni coltivati in una certa regione (e poi debitamente protetti da certificazioni di tipicità). Si torna dunque a quanto dice Biasi: l’entrata dei Piwi nell’orizzonte di bevuta del sabato sera riporta in primo piano il luogo, il terroir. Immaginate di essere a cena al ristorante: se vi proponessero un Chianti o un blend di Bronner e Johanniter, che cosa scegliereste? E se invece vi proponessero un bianco fermo del Trentino?
Per fotografare ancora meglio, prendiamo un esempio dalla rete dei Resistenti. Un vino speciale, che unisce i vini delle sei aziende fondatrici (Albafiorita, Della Casa, Ca’ da Roman, Colle Regina, Poggio Pagnan, Vin de la Neu) in un’unica bottiglia, con un blend definito da Nicola a valle del processo produttivo di ogni singolo Resistente: si chiama Renitens, ha imbottigliato appena più di 1000 unità nel 2021 ed è, da etichetta, “vino bianco d’Italia”. Il che farebbe pensare al Tavernello, o a qualsiasi Canterino da due euro buono solo per tirare la sfoglia. E invece.
Invece il Renitens è un vino finissimo, sorprendentemente bilanciato per la differenza di terreni e di processi, con dolci note di frutti e fiori e una sapidità lunga e piacevole, che arriva in fondo, attivando zone diverse della bocca man mano che il sorso permane, proprio come farebbe un vino da grandi escursioni termiche. Come mi disse il Wine Manager di una conosciuta enoteca milanese: «A me va bene che un vino sia complesso, poi però il cliente deve anche finirmi la bottiglia». Ecco, non credo che al Renitens si potrebbe presentare il problema di avere un fondo e non sapere come smaltirlo.
Sempre Biasi: «Molte volte, soprattutto negli anni scorsi, ho visto produttori che usavano i Piwi come vitigni di riempimento. Li mettevano nelle aree più malandate dei loro terreni, li usavano come un’etichetta di sostenibilità senza poi curarsi di vinificarli e seguirli come si deve. Invece sia il Renitens sia le produzioni individuali delle aziende della rete sono la prova che i Piwi non temono competizione. Poi è sempre bene tenere a mente due cose: in primis, che biologico non vuol dire per forza essere sostenibili, e infatti Resistenti non chiede ai suoi membri di convertirsi alla produzione biologica. Alcuni sono certificati, altri no. E poi, se vogliamo parlare di sostenibilità, che i Piwi permettono di emettere il 37,98% di CO2 in meno rispetto a uno stesso territorio coltivato a vitigni storici (il dato è frutto di una ricerca commissionata da Resistenti a Climate Partners, Nda), e, una volta avviati, richiedono meno lavorazioni perché di costituzione sono resistenti ai crittogamici più dannosi. Anche loro hanno bisogno di trattamenti, intendiamoci, però i livelli non sono proprio paragonabili».
Per il futuro, Biasi e la sua rete di Resistenti hanno in programma di espandersi con nuovi soci, sia con terreni italiani che con i primi posizionamenti all’estero. E poi c’è un nuovo Baby Resistente in lavorazione: un vino che sarà un blend dei vini di tutta la rete Resistenti, e non solo dei fondatori. Il nome non esiste ancora, ma nel frattempo la mente di Nicola Biasi continua a macinare a pieni giri: «Sto organizzando una piccola trasformazione per la mia azienda, Vin de la Neu. Vorrei che diventasse un luogo di enoturismo lento e consapevole, con struttura ricettiva e cantina aperta, dando ai visitatori l’opportunità di toccare con mano la produzione di un vino Piwi. Vedremo». E noi non possiamo fare altro che attendere trepidanti.