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La mia estate per un ghiacciolo artigianale

In principio furono quelli industriali tutti sciroppi, coloranti e additivi vari: oggi si chiamano fruttini, sono fatti con la frutta fresca e vivono una seconda giovinezza dopo lunghe stagioni di immeritata panchina. Mica male, per un’invenzione nata esattamente cent’anni fa

Foto: Instagram/basilicorosa

Non c’è bibita, energy drink o mocktail che tenga: quando la colonnina del mercurio schizza verso l’alto, il refrigerio garantito da un ghiacciolo è insuperabile. Morso dopo morso, il più basic dei dolci frozen è il classico uovo di Colombo per vincere in un sol colpo sete e calura, idea semplice quanto geniale destinata, sin dagli albori, a spopolare.

A dispetto del fatto che già Greci e Romani si rinfrescassero con neve aromatizzata da frutta e miele, e che i gelati sembra siano stati creati nel Cinquecento alla corte di Caterina de’ Medici, la storia “ufficiale” dei ghiaccioli è made in Usa. Si racconta che il dessert da passeggio sottozero sia nato per caso, nel 1905, dall’intuizione di un undicenne di San Francisco, Frank Epperson. Lasciato sul davanzale della finestra, in una notte d’inverno, un bicchiere di soda con infilato il bastoncino usato per miscelarla, il ragazzino lo ritrovò la mattina dopo congelato. Proprio come un “icicle”, un ghiacciolo appunto (di quelli che si formano in montagna, per intenderci): lo “sgusciò” e, trovandolo simile a un lollypop, iniziò a succhiarlo. Rendendosi conto di aver creato una vera delizia.

Con tutta l’intraprendenza della sua verde età, battezzò l’invenzione nientemeno che Ep-sicle e inizio a spacciare i primi ghiaccioli della storia anche tra gli entusiasti compagni di scuola. Negli anni successivi ci rimuginò su, finché nel 1923, a Oakland, il giovane Epperson brevettò il prodotto con il nome Popsicle (ideato dai suoi figli), fondando l’azienda che ancora oggi, negli States, è sinonimo di ghiacciolo. Da noi, l’associazione d’idee più immediata è l’oratorio “con tanto sole, tanti anni fa, quelle domeniche da solo, in un cortile, a passeggiar”, come cantava Celentano. Ore d’afa mitigate dagli stick ghiacciati che si sceglievano più per il colore che per il sapore: la bianca orzata, la verde menta, l’azzurro anice, la rossa fragola, la cola marrone, il limone giallino, l’arancia arancione e lui, il più ambito, l’arcobaleno quattro gusti.

L’ultimo sussulto di popolarità fu verso la metà degli anni Ottanta con la diffusione del Calippo, che rinunciava allo stecco in favore del suo lungo involucro conico che prometteva (con scarso successo) di salvare le dita dai gocciolamenti. La fine del millennio è sembrata coincidere con il tramonto dei nostri in favore di gelati, confezionati e non, sempre più ricettati e goduriosi. Ma, forse, sempre meno rifrescanti e dissetanti, con tutte quelle panne, glasse, granelle, cialde e compagnia. Più dessert che spezzafame, peccato di gola più che semplice sollievo dall’arsura. Forse anche per questo, facendo un balzo temporale di alcuni decenni, i ghiaccioli sembrano oggi vivere una seconda giovinezza dopo lunghe stagioni di immeritata panchina. In un cerchio che si chiude, il successo del revival va anche alla gelateria artigianale che li ha riscoperti e li propone, spesso con il nome di “fruttini”, puntando proprio sulla frutta fresca che caratterizza le migliori ricette.

Chiariamoci, esistono ancora i ghiaccioli-ghiaccioli: tutti sciroppi, coloranti e additivi vari, solo in pochi casi (per esempio, i Polaretti da schiaffare in freezer) hanno una percentuale di succo di frutta, per il resto sono “al gusto di” grazie ad aromi più o meno naturali. E certo hanno ancora i loro nostalgici estimatori. Ma il gradimento dei consumatori odierni sembra orientato su prodotti più ricercati: ghiacciofighetti, si potrebbe dire.

Così, ci si sono misurati anche grandi nomi. Fra i primi (era il 2010) Simone Bonini, gelataio fiorentino che nel suo Carapina proponeva simil-Calippo, naturalmente simili solo nella forma, invero frutto della ricerca su materia prima e lavorazioni che caratterizza la sua attività. Oggi, che non ha più una gelateria ma è passato a occuparsi di prodotto (ha creato “Il piacere di farlo a casa”, basi fresche di alta qualità, da arricchire a piacimento, che spopolano tra gli appassionati, così come in molti fine dining), riflette sulle difficoltà insite nel ghiacciolo artigianale, se ben fatto. Che non sono scogli tecnici, ma economici.

«Sulla carta il ghiacciolo sarebbe il mezzo ideale per sdoganare il gelato “healthy”, perché è senza grasso, garantisce un immediato sollievo termico, dopo uno sforzo fisico può aiutare a reintegrare i sali», elenca Bonini. Però, c’è un però: «Se si vuole fare senza chimica, ovvero senza usare addensanti, leganti e coloranti vari, diventa merceologicamente affine a un gelato vero e proprio. E costa di conseguenza. Se pensi che il prezzo medio (sottolineo medio) di una coppetta di gelato in Italia è 2,50 euro, e la gente se ne lamenta, capisci che il consumatore si aspetta di pagare un ghiacciolo non più di 1-1,50 euro». Sì, ci sentiamo ancora all’oratorio: le 50 lire degli anni Settanta, i 50 centesimi di vent’anni fa, restano per molti un prezzo di riferimento difficile da superare. Resistono solo nelle confezioni famiglia al super, spesso maggiori persino al bar del circolino, per ghiaccioli dalla lista di ingredienti – come si diceva – alquanto artefatta.

C’è, naturalmente, chi scommette sulla qualità al giusto prezzo. E anzi se ne fa un fiore all’occhiello. «I nostri gelati, fruttini compresi, sono tutti senza glutine, senza lattosio, senza zucchero bianco, dolcificati con zucchero del cocco, sciroppo d’agave o di acero, per la maggior parte con materie prime di origine bio», raccontano Flavio Sears e la nutrizionista Valeria Agnelutto di AMA[ti!], pasticceria milanese “healthy&raw”, ovvero salutista, crudista e pure plant based, che ha lanciato lo spin off Out of The Box: due gelaterie in città e diverse partnership, tra cui quella con Erbert, catena meneghina di gastronomie e delivery di impronta salutistica.

La formula dei loro stecchi (la foggia è quella di un gelato Magnum) è un classico sorbetto dove la frutta è semplicemente frullata, senza aggiunta d’acqua, e dolcificata, mai sottoposta a cottura per rispettare i dettami crudisti che ispirano l’attività. «Gli ingredienti sono lavorati il meno possibile – specifica Sears – per non alterare sapore e nutrienti». Quattro i gusti: lampone, fragola, mango e limone (anche questo in purezza, interessante sferzata di acidità). 3 euro il prezzo in gelateria, dove i fruttini sono venduti sfusi o confezionati per l’asporto in scatoline di cartone e/o bustine di cellophane. Il prezzo, evidentemente, è giudicato giusto da una clientela che pare apprezzare, tanto che da OOTB i ghiaccioli hanno un tale smercio da essere preparati quasi quotidianamente, sebbene la shelf life per il confezionato sia di quattro mesi: piuttosto lunga anche senza additivi di sorta, visto che sono le temperature di congelamento esse stesse garanzia di conservabilità.

Per chi, tuttavia, trovasse eccessivo il costo dell’icicle artigianale, c’è anche l’opzione casalinga. Del resto, «i ghiaccioli oggettivamente, sono una stupidaggine da fare!» come ebbe a dirmi – in un’intervista di qualche anno fa per DissaporePaolo Brunelli, pluripremiato guru della gelateria (e della cioccolateria) in quel di Senigallia. Grazie alle sue dritte, potei preparare ghiaccioli home made che furono un ristoro per le (poche) persone che frequentavano la mia casa nell’estate della pandemia. Così recita la sua formula base: «Per un ghiacciolo classico, fresco e dissetante, su 100 grammi di prodotto calcola circa il 15-18% di zucchero. Il resto è acqua (circa il 60%) e polpa di frutta frullata per il restante 22-25%». Le oscillazioni, mi spiegò, dipendono dal tipo di frutta: più zucchero con quella acida, che finisce a zero se, per esempio, si usano qualità già dolcissime di loro, come il fico.

Segue (inconsapevolmente?) più o meno le stesse regole, preparando i ghiaccioli tutti i giorni, anche Gladys, cuoca di Bien Taypà, localino peruviano a Milano in piazza Costantino, sul naviglio della Martesana. «In Perù i marcianos, o chupetin, sono una vera tradizione. Qui prepariamo i quattro gusti tipici: maracuja, cocco, lucuma e chicha». La lucuma è un frutto simile nella forma a un avocado, con polpa arancione che ricorda zucca, albicocca e mango. Più curioso il ghiacciolo alla chicha, viola scuro, preparato con un particolare mais purpureo (nel paese Sudamericano si contano più di trecento varietà di granturco), fatto bollire con ananas, frullato e mescolato con zucchero e un po’ di limone.

Nelle ricette della cuoca peruviana non ci sono coloranti, edulcoranti, aromi artificiali né altre diavolerie. Tutt’al più l’acqua, aggiunta alla frutta e alle altre basi (tra cui il cacao crudo in polvere per i ghiaccioli al cioccolato), profumata da cannella e chiodi di garofano. Gli ingredienti arrivano quando possibile dal Paese di origine («Oggi anche a Milano si trovano tutti i nostri prodotti tipici») e i ghiaccioli sono imbustati in sacchetti cilindrici (tipo “polarettoni”, per capirci) e fatti gelare nel freezer della piccola cucina sul retro. Gladys racconta che alla sera, finito il lavoro, i suoi connazionali che passano a mangiare una cosa sono capaci di divorarsene anche cinque o sei. Piccolo rito della sera che, probabilmente, allevia un po’ la nostalgia di casa. Al costo pop di un euro al pezzo.

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