Tutte ce ne parlano. Siamo lì che ancora dobbiamo capire come funziona questa cosa delle mutande post-parto con annessi assorbenti in formato Autostrada del Sole, e già le navigate di turno ci infarciscono la testa con le terribili (e giuste, per carità) previsioni su come sarà avere il neonato in braccio, tra risvegli notturni, colichette (il diminutivo è d’obbligo), rigurgiti sui capelli e comparsa dei primi dentini. Chissà perché a nessuna, o quasi, viene mai in mente di prepararci con il dovuto largo anticipo a una delle cose peggiori che ci aspetterà: lo svezzamento.
Mi sono sempre chiesta come mai ci sia questa sorta di reticenza ad affrontare l’argomento (se non quando ci si è già dentro fino al collo), e l’unica spiegazione che mi sono data è che, sul serio: a chi importa ripercorrere le tappe di un viaggio irto di insidie? Piuttosto che ripensare alle volte in cui si sono ritrovate con in mano un omogeneizzato di orata, le madri-navigate di cui sopra preferiscono tacere o, al contrario, pavoneggiarsi nella decisione di aver mollato tutto in nome del cosiddetto auto-svezzamento (ci torniamo), consapevoli che mai più (mai più!) si ripeteranno gli errori del passato. Tra l’elencare a una povera ignara (io a mio tempo, lei adesso, loro in generale) tutte le fatiche che accompagnano uno dei momenti più nauseanti dei primi mesi, e il parlare di quanto sia brutto e cattivo il mal di pancia che attanaglierà il bambino, è ovvio che la scelta ricada sulle meno drammatiche dolorose puzzette. E considerate le dodici fatiche dello svezzamento, forse è la decisione migliore.
È l’ennesima visita di controllo, con la pediatra che questa volta mi piazza davanti un foglio che sembra una dichiarazione di guerra. «Questo è lo schema per lo svezzamento», dice. Ci butto subito una rapida occhiata e capisco che la prima fatica dell’eroica madre sta tutta in quei 100 g di questo, 40 g dell’altro, 150 ml di brodo, no salsa, no cipolla, no piccante. Per una che ha sposato la causa dell’anarchia in cucina, con dosi e ricette modificate a sentimento («Sono dei biscotti al burro, ma al posto di 200 g, ne ho messi 90»), la prospettiva di dover tirare fuori la bilancia diventa un dramma non indifferente. Ma si deve fare, soprattutto se si è al primo figlio e l’ansia da prestazione è quella cosa che ti fa subito immaginare scenari apocalittici, dove quel tuo primo figlio ha ormai trentacinque anni e ancora si nutre del solo latte delle tue tette.
Così adesso la bilancia è sempre lì sul tavolo; la carota, la zucchina e la patata («Signora, il brodo!») sono parte dell’arredamento; e mo’ non chiedetemi pure di lessare la bistecchina o il fior di nasello Findus, ché l’industrializzazione c’è da quel dì, e il liofilizzato di carne e l’omogeneizzato di pesce li vendono al reparto cinque dell’Esselunga. Ma mi basta vedere quella volta il prezzo del liofilizzato di coniglio e annusare quell’altra (per assaggiare non ho cuore) la pappa con l’omogeneizzato di trota per capire che la prima fatica, rispetto alla seconda, non era niente. Nossignore: di fronte alla combo del conto in banca prosciugato, e di una cucina (seggiolone con infante annesso) che ora puzza come il banco del pesce, non era davvero niente.
«Guarda, figlio, che pasto prelibato! Sollazzo della pancia, nondimeno del palato», reciterebbe a questo punto il glorioso giambo epico (classicisti, state buoni) della madre vittoriosa, cioè, quella tizia che non sono certo io, che sto cercando di trovare una soluzione a questo pastone indecente. In che senso tre cucchiai di crema di mais e tapioca? Troppo brodo (dopo la prima volta è già tornato il dosaggio a sentimento); di cucchiai, adesso s’ha da metterne quattro; no, cinque; no, sei. Finisce con sette, la cazzuola al posto del cucchiaino, una domanda ancora irrisolta: ma perché la tapioca? Me lo sto chiedendo, quando la pappa si raffredda e la consistenza è di nuovo quella di una roba liquida. Che stregoneria è mai questa? La tapioca a quel punto è più che mai una scelta sospetta.
La filastrocca (mica l’elevato giambo) conclude: «E alla terza fatica, la quarta va da sé». A considerare il fetore che accompagna l’improvvisa comparsa di macchie marroni sulla tutina di ciniglia pagata una fortuna, niente è più vero di questa profonda connessione tra drammi: quello della crema di mais e tapioca, e quello della cacca del non-più-solo-lattante. Una volta aperto il pannolino, (me, illusa) ne sono certa: la più tragica esperienza dello svezzamento, sta tutta nell’alimentazione dell’adulto (in divenire), che si combina con l’incapacità di pulirsi da sé dell’infante (in essere). Fortunato Bagheera, a crescere Mowgli allo stato brado nella giungla.
Tanto più procedo nell’eroica impresa, tanto più le fatiche si susseguono. Come il pranzo o la cena fuori, ma dimmi dove (ché il microonde, con la schiscetta immonda, è d’obbligo), e quando (ché la bimba, va da sé, mangia presto), fino a che il tornare a casa è sempre la giusta scelta. O il maxi-rotolo di scottex pronto per raccogliere dal pavimento e dal seggiolone (sempre) sporco, la sabbiolina o le stelline, i fili d’angelo o la tempestina, in quel caos di pastine mignon che hanno tanti nomi e forme carine, quante ambizioni tapioco-sataniche.
E che sarà stato mai per Ercole ripulire in un giorno le stalle di Augia, quando un piatto di pasta al pesto, nella stizza o nel gioco di due minuscole manine, finisce in tutta la sua untuosa bontà sui mobili laccati opaco bianco, sulla testa di capellini appena lavati, sui vestiti che (non si impara mai) erano decisamente troppo puliti? Ma è un caso; è quella volta. Mica come le sacrosante verdure che fanno tanto bene al corpo, sì: ma credetemi, non a quello di una madre che si china 365 giorni l’anno a raccoglierle da terra. E sia chiaro: questo anche quando alla bambina, quei broccoli verdi, piacciono pure tanto.
«Non è che mangia poco?», dice tua madre: e tu aggiungi il sale. «Non è che mangia troppo?», dice tua suocera: e tu togli il sale. Il Maestro Miyagi sarebbe più che fiero di tale duro allenamento; a sopportare i giudizi non richiesti, nondimeno. Come quello dell’amica che ha sposato l’idea del cosiddetto auto-svezzamento. In altri termini: quell’approccio che rende la cucina di lei un posto dove la cena, per tutta la famiglia, è pronta sporcando al massimo un paio di pentole; la mia, quel girone infernale dove un singolo pasto è un’orgia di stoviglie ammassate nel lavello. Perché con l’auto-svezzamento ciò che mangiano i genitori diventa (più o meno) anche ciò che mangia il bambino. E ancora mi chiedo perché non sono mai stata tanto astuta da pronunciare quel ‘sì’.
Ma non temete: il risultato è sempre quello. Ossia che i bambini finiscono inevitabilmente per crescere (in fretta), e per mangiare più o meno di tutto (ma sempre troppo o troppo poco), lasciando che lo svezzamento si perda in quella nube confusa di ricordi tragicomici come il parto, il non dormire, le famose colichette, i vestiti che non si smacchiano neanche coi miracoli, la tizia di turno che, al primo confronto, se ne esce col classico: «Vedrai dopo». E in men che non si dica ci si ritrova al ristorante, con quel piatto di spaghetti alle vongole che, finalmente, ci si può concedere senza il pianto tragico di chi vuole assaggiare, ma ha ancora il veto dei molluschi tanto allergizzanti.
«Vedrai dopo»: l’ultima vongola è accompagnata dall’urlo silenzioso della madre che mi guarda dal tavolo di fianco, dove se ne sta seduta tra due bambini, di cui uno nel seggiolone. Sorrido: perché scambio l’avvertimento per intesa di complicità; perché (me, illusa) ancora non so. Davvero non so cosa mi aspetterà di lì a poco, quando lo svezzamento sarà di nuovo faccenda di casa, e la più eroica delle imprese sarà anche la più grande delle fatiche: evitare che il pane e Nutella della sorella maggiore non finisca di nuovo nella bocca della secondogenita dallo svezzamento ribelle.