«Dove posso andare a mangiare un buon piatto di tagliatelle al ragù?», gli chiede una signora che era nel pubblico dell’incontro che si è appena concluso, in cui si è parlato di come ceneremo tra dieci anni. Sono le 20:05, la domanda è lecita. Lui è Luca Cesari, storico della gastronomia, autore di Storia della pasta in dieci piatti (Il Saggiatore, 2021) e di Storia della pizza. Da Napoli a Hollywood (Il Saggiatore, 2023). Le risponde con un paio di nomi di ristoranti. In uno però forse le tagliatelle le fanno solo a pranzo, riflette ad alta voce, nell’altro si spende un po’ di più ma è una sicurezza. Mi permetto di suggerirne un terzo; lui dice che sì, è di gran livello, ma lì fanno il ragù bianco di cortile e la signora vuole il ragù rosso, con il pomodoro. Mi sento ingenuo. Salutiamo la signora e cominciamo a camminare sotto una pioggia leggera ma freddissima.
«Ho apprezzato molto la tua compostezza prima, durante l’evento, quando hai sentito tutte quelle imprecisioni sulla storia del ragù», esordisco. «Ma sai, alla fine non era tutto sbagliato e poi mi piaceva il modo in cui raccontava le storie l’altro relatore», risponde. Luca Cesari si era definito poco prima un “un notorio fiaccacazzi” quando si tratta di storia della cucina, ma in realtà è comprensivo e affabile. Come tutte le persone che hanno studiato molto può avere qualche vezzo tipico dell’erudizione, ma è più interessato al senso che alla filologia. «Io c’ero», mi dice, «ero lì quando l’Accademia della Cucina Italiana ha scelto la nuova ricetta del ragù e l’ha depositata. Hanno raccolto venticinque ricette e ne hanno scelta una nuova. Ho spinto io perché si aggiornasse quella del ’72». La storia è che nel ’72 fu depositata alla Camera di Commercio, con atto notarile, la ricetta del vero e giusto ragù alla bolognese. Un timbro ufficiale a sancire la misura della tradizione. Solo che poi il gusto cambia, quel ragù comincia a sapere un po’ di vecchio e allora tocca modificare la ricetta. Ma a questo punto, invece di accettare che è il gusto che fa le ricette e non viceversa, e che quindi depositarle non ha nessun senso (se non di innocuo intrattenimento, s’intende), via con un nuovo atto notarile.
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«Quando nasce questa mitologia della tradizione? Perché sembra che faccia più danni che altro», gli chiedo. «Quella mitologia ha contribuito a creare un’identità comune, un senso di appartenenza, e in questo è stata preziosa». Però poi ci siamo incagliati lì, mi spiega. Invece di capire che le tradizioni esistono ma sono in continua evoluzione, è passato il messaggio che la tradizione è la nostra unica ancora identitaria, e quindi se si muove può fare solo danni. O, parafrasando Feuerbach, che noi siamo ciò che mangiavamo come lo faceva mia nonna.
«Sai», continua, «sto preparando un pezzo che uscirà la vigilia di Natale in cui spiego che le tradizioni natalizie a cui siamo abituati sono piuttosto recenti. Non tanto tempo fa per Natale si mangiavano la galantina di pollo, l’insalata russa e gelatine varie». I tortellini, per dire, lungo la storia si sono fatti ripieni di pollo, di tacchino, di pollo arrosto, fritti con lo zucchero, si sono chiamati indistintamente anolini, cappelletti (per la forma) o tortellini (perché sono ripieni come una torta), e il maiale abbiamo cominciato a metterlo nel ripieno solo dal 1871, trecento anni dopo la loro invenzione. Quindi, «se arriva il nipote giovane a casa e chiede un piatto vegetariano, non gridate allo scandalo e fateglielo senza tante storie». Suggeriamo tortellini ripieni di tofu, così da creare ulteriore scompiglio e divertirsi a veder litigare i più anziani. Capisco sempre meglio, con ammirazione, perché era rimasto composto davanti alle ingenuità sul ragù sentite poche ore prima, o a quelle sugli anolini parmensi di Pellegrino Artusi, lette molti anni prima.
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Anche nell’Artusi ci sono esempi di come la classificazione e la codifica delle ricette sia del tutto empirica e arbitraria. Tutta la sua indagine era così: raccoglieva le ricette delle donne di casa di tutta Italia e ne faceva una summa. «Se vai a vedere la ricetta degli anolini parmensi, si capisce che lui non li aveva mai mangiati e nemmeno visti. Li riporta da una lettera ricevuta da un signora di Parma, che glieli descrive come tipico piatto natalizio. Ma era molto probabile che si mangiassero, sì, a Parma, ma davvero solo per le feste. Fu poi il ricettario stesso dell’Artusi che li fece diffondere». Di nuovo, è il gusto che fa la tradizione e non viceversa. E, allo stesso modo, è la ricerca di una combinazione nuova di sapori o di un modo per soddisfare un bisogno che porta a scoprire nuove tecnologie.
C’è una startup pugliese, mi racconta, che ha trovato un modo per fare il gelato con i legumi. Si chiama Celery, usa legumi e altri vegetali a chilometro zero (sempre pugliesi) e attraverso una fermentazione di precisione riesce a ricreare la consistenza e il gusto del gelato. «Al punto che in una degustazione alla cieca del Sherbet Festival 2022, il più importante d’Europa, si sono classificati secondi». È un gelato che può mangiare anche chi è allergico al gelato, ma a differenza degli altri gelati vegetali pare che sia anche buono. La tecnologia, sviluppata in collaborazione con il dipartimento di Biologia de La Sapienza, ha permesso di sviluppare un ingrediente-piattaforma che è poi stato declinato in diversi formati (liquido, polvere, cremoso) e formulazioni (gelato artigianale e industriale, simil-yogurt da cucchiaio e da bere, frullato). Il processo ricorda, in parte, l’invenzione del sorbetto, quando in Sicilia gli arabi combinarono prima il ghiaccio con la frutta, poi capirono che mettendo il sale nel ghiaccio avrebbero abbassato la temperatura a -18°C e così assemblarono una vera e propria proto-sorbettiera. Insomma, dovrebbe funzionare così: abbiamo un gusto, o un bisogno, che ci guida e sfruttiamo la tecnologia per soddisfarlo. Anzi, non è che dovrebbe essere così, è sempre stato così. Invece adesso sembra che abbiamo più paura del solito.
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Si arresta e mi dice «Sei mai stato lì?», indicando una saracinesca chiusa. «No», rispondo, ancor prima di rendermi conto di cosa stesse indicando. «Ecco, vacci, lui è un talebano del gelato e fa cose molto interessanti. Cosa stavamo dicendo?». Stava dicendo, un po’ alla Ungaretti, che conoscere il passato non ci insegna a prevedere il futuro, ma ci può indicare delle direzioni. Dice che è una questione di percezione del tempo che passa: «Ecco, sì, come dicevo prima all’evento, è come fissare un orologio: se continui a fissarlo sembra che le lancette delle ore siano immobili; se invece ti distrai e fai altro, quando torni a guardarle si sono spostate di molto».
Nel frattempo, si sono fatte le 21:00 e noi continuiamo a camminare. L’idea è che la tradizione ti sembra immutabile solo se ti fissi. È come la seconda regola del poker: le carte, se le fissi, non cambiano; puoi solo cambiarle tu o abbandonare la partita. «Sai che cosa hanno visto i fratelli Wright prima di morire? Quelli che hanno volato per la prima volta, nel 1903», mi chiede. «Non saprei». «Lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima. Loro avevano volato per pochi metri e nel giro di qualche decennio un aereo ha sganciato una bomba atomica». Ora mi trovo a pensare che se mai mi ricapiterà di fissare un orologio non so se avrò più il coraggio di distogliere lo sguardo per paura che qualcuno sganci un’atomica da qualche parte. Ma torno lucido e gli dico: «OK, ha senso, ma con la carne coltivata come la mettiamo? È uno strappo forte; è davvero difficile pretendere che la gente non sia disorientata e scettica davanti a una novità così avveniristica». «Sì, è vero, ma le persone più istruite e sensibili non avranno problemi ad accoglierla, e partiremo da lì; da qualche parte bisogna pur partire».
La verità è che la carne coltivata non è così tanto avveniristica: se è vero che la tecnologia sta dando solo ora i suoi frutti (metafora che suona nuova se usata per la carne coltivata), l’idea da cui nasce è vecchia di cento anni. Nel saggio Fifty Years Hence del 1931, Winston Churchill scriveva: «Dovremmo evitare l’assurdità di allevare un pollo intero per mangiarne il petto o l’ala, trovando invece un modo conveniente per coltivare queste sue parti separatamente». Certo, Churchill è un campione molto sopra la media anche nel target delle persone istruite e sensibili, ma conta di più l’anno. Se nel 1931 già si ipotizzava la carne coltivata, pochi anni dopo già si studiava la tecnologia per crearla. Willem Van Eelen, che dedicò la sua vita a creare una carne coltivata sana e sostenibile, pare abbia sviluppato questa fissazione quando fu fatto prigioniero dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale e passò in diversi centri di detenzione in giro per l’Indonesia. Soffrì la fame e sviluppò un’idea forte di solidarietà che guidò i suoi studi successivi. Dopo la guerra, frequentò medicina e fece esperimenti insieme a un gruppo di ricerca che coltivava cellule staminali con l’intento di ricreare la pelle umana per curare le vittime di ustione. A quel punto si chiese se avrebbe potuto usare la stessa tecnologia per il cibo. Il resto sono ottant’anni di tentativi che stanno dando i loro primi risultati commestibili solo di recente.
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«C’è un precedente, nella storia, di questa tremenda paura per un cibo nuovo?», gli chiedo. «Non proprio, perché la carne coltivata, per la prima volta, è un cibo che non è riconducibile alla terra o alle cose che noi siamo abituati a considerare commestibili». Poi trova un’analogia: «Forse, un precedente che può aiutarci è quello della carne di cavallo». Per secoli la carne di cavallo è stata un radicatissimo tabù culturale e religioso (lo è ancora in alcune parti del mondo) e che non solo non pensavamo che si dovesse mangiare, perché il cavallo aveva una funzione molto diversa dal cibo, ma eravamo convinti non si potesse mangiare, perché malsana e pericolosa. Poi, le cose cambiarono per lo stesso motivo per cui cambiano sempre: per qualcuno il bisogno divenne più forte del gusto e della paura. Aprirono la strada i soldati, che rimasti senza nulla sui campi di battaglia cominciarono a mangiare la carne dei cavalli caduti e presto si accorsero che invece di dannarli o farli ammalare li teneva in vita. Poi arrivarono i contadini più poveri, che dopo aver sfinito di lavoro i cavalli cominciarono a mangiarli, sempre perché non avevano molto altro.
«Insomma, non moriva nessuno, e pian piano il grande tabù fu superato. Speriamo solo che non inizieremo a mangiare la carne coltivata solo quando saremo costretti dal bisogno». Ma quindi, ammesso che riusciremo a superare i nuovi tabù, come ceneremo tra dieci anni? «Forse più velocemente, ma non in modo così diverso, credo», mi dice. «Considera che negli Anni ’70 pensavamo che saremmo finiti a nutrirci con le polverine con cui si nutrivano gli astronauti. Invece adesso fanno la pizza sulla stazione spaziale internazionale». L’auspicio è che ci saranno ancora i pasti fatti di pietanze e di ricette e di abbinamenti, e un rituale che accompagnerà la mera ingestione di sostanze nutritive con tutto il suo corollario di condimenti, condivisione e convivialità. La paura è che, se non ci decidiamo ad andare avanti, rimarremo delle macchiette. E in effetti, già adesso, la foto degli astronauti sulla ISS che sorridono con una pizza in mano, più che la celebrazione di un grande traguardo, assomiglia a una foto ricordo di un archeologo che sorride mostrando un fossile di dinosauro o un pezzo di vaso Romano.
«Ma quindi noi italiani siamo solo una macchietta? Siamo già condannati a essere il parco divertimenti d’Occidente, o c’è ancora scampo?», gli chiedo. «Siamo i camerieri del mondo, questo sì», mi dice. Però forse, se ci sbrighiamo a riconoscere la nostra condizione, siamo ancora in tempo per cambiare. «Qual è l’unico destino certo di ogni specie? L’estinzione. Siamo destinati a estinguerci. Stiamo a vedere se saremo in grado di evolverci prima che accada». Come a dire che se non cambiamo anche noi, cambieranno gli altri, non avranno tempo per aspettarci e ci ricorderanno come quelli che un tempo, per qualche decina d’anni, hanno cucinato bene. Foto con fossile di pizza. Direi che ci siamo.
Mi restano solo due curiosità. La prima, che ho in mente dall’inizio della camminata, è che cosa si aspetta da lui la gente che gli chiede suggerimenti su cosa o dove mangiare. «Immagino che tu senta una certa responsabilità quando qualcuno ti chiede dove mangiare le tagliatelle al ragù e che ci sia una grande differenza tra andare a mangiarle con te o senza di te». «Ancor meglio è se ti faccio da mangiare direttamente io», mi risponde. Non ne dubito. Sono le 21:40, camminiamo da quasi due ore, è freddissimo, non ha mai spesso di piovigginare, ho le mani congelate, il cappello zuppo e siamo soli per strada sotto casa sua, in un punto di Bologna dove mai nella mia vita ero arrivato a piedi. Non so bene come ceneremo fra dieci anni, ma sono abbastanza sicuro che anche fra dieci anni, a quest’ora e con questo freddo, avremo fame e voglia di mangiare in compagnia.
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L’ho già trattenuto abbastanza però, non posso auto invitarmi neanche per scherzo, devo rimanere concentrato. La prima regola del poker è lasciare le emozioni fuori dalla porta. Ma prima di congedarmi cerco almeno di rubargli una ricetta. La seconda curiosità: «Va bene, direi che ho tutto, dammi solo una ricetta che ti piace davvero e poi ti lascio», gli dico. «Il ragù dell’Artusi, te la mando domattina». «No, OK, quella ce l’ho. Voglio una ricetta tua, un piatto che mangi tu, che ti fai tu quando vuoi stare bene e nessuno ti vede». «Ah, allora, se ti devo dire qual è una pasta che mi piace moltissimo, sono i tagliolini all’Alfredo». E mi dà la sua ricetta: frullare col mini pimer il parmigiano grattugiato con un po’ d’acqua fino ad ottenere una crema; scolare i tagliolini all’uovo, mescolarli col burro rigorosamente freddo e aggiungere la crema di parmigiano. «Ovviamente», sottolinea, «bisogna avere un Parmigiano Reggiano 30 mesi e un burro della madonna». Ho sorriso molto più di quanto lui si aspettasse, perché ancora non sapeva il nome della rivista. Dopo gliel’ho detto, l’ho ringraziato e me ne sono tornato a casa; sempre a piedi, sperando di trovare un negozio ancora aperto, perché a casa avevo finito il burro.