Poche città al mondo si identificano così tanto in un cibo come Ascoli e le sue olive ripiene e fritte, “ascolane” appunto. Così “ascolane” che in città le chiamano semplicemente “fritte”, come se nulla fosse, come una zucchina o un carciofo qualunque.
Nei decenni si è creata un’identificazione fortissima tra la città e il suo cibo più rappresentativo, forse perché pochi piatti sono così diversi se mangiati nella loro terra d’origine o fuori, se fatti in casa o in modo industriale. Merito di un frutto molto particolare (e poco diffuso) e di una ricetta rigorosa, entrambi con marchio DOP e regolati da un ligio disciplinare. Ovviamente anche ad Ascoli non mancano alcune tollerate versioni spurie o qualche benvista eresia, ma se nella vostra vita avete mangiato solo olive ascolane surgelate in pizzeria, allora siate sicuri di non aver mai mangiato le vere olive fritte.
La storia
La storiografia locale fa risalire la ricetta all’Ottocento, quando i cuochi al servizio dei signori della città dovevano consumare la carne in esubero donata dai mezzadri. Come per l’origine mitica di tanti piatti della tradizione italiana anche alla base di questa storia c’è un furbo cuoco alla corte di un nobiluomo: non sapendo come riproporre l’arrosto al suo signore, decide di farlo diventare il ripieno di un’oliva. Il signore, sconvolto da tanta bontà, non ne può più fare a meno e l’oliva ripiena diventa una moda. Ma lasciando il campo della fiction, nell’Ottocento le olive sono un piatto di recupero in cui finiscono carni diverse e spezie, con la classica sorpresa culinaria – trovare un gustoso ripieno al posto del nocciolo – che sin dal Rinascimento ha fatto gongolare la nobiltà di tutta Italia. La storiografia è piena di personaggi illustri che le hanno assaggiate e ne hanno testimoniato la bontà: su tutti Giacomo Puccini e Gioacchino Rossini. Il 25 gennaio del 1849 furono una delle portate della cena che accolse Garibaldi in città. Da piatto per pochi, con il boom economico degli anni Sessanta le olive fritte diventano il piatto delle grandi occasioni e della domenica.
Il disciplinare: il frutto, la ricetta e le variazioni sul tema
Nel 2005 il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali approva il disciplinare per la Produzione della Denominazione di Origine Protetta “Oliva Ascolana del Piceno”. Nell’articolo 1 si legge che «La denominazione d’origine protetta “Oliva Ascolana del Piceno” designa le olive, in salamoia o ripiene, […], ottenute dalla varietà d’olivo “Ascolana Tenera”».
Perché si possa definire ascolana un’oliva fritta deve rispettare quindi un incrocio di parametri: frutto, salamoia, ripieno, preparazione. Il frutto è molto difficile da coltivare e va colto rigorosamente a mano, ma gran parte del gusto del piatto è proprio lì: l’oliva è tenera, meno coriacea ad esempio di quelle greche, e si amalgama, sciogliendosi, con il ripieno. È anche molto piccola – il che rende davvero difficile la lavorazione di cui parleremo tra qualche riga – e delicata, un elemento che aggiunge complessità alla produzione. Non è quindi escluso che anche ad Ascoli non tutti usino la tenera. Il suo territorio va oltre la provincia di Ascoli e si estende ai comuni limitrofi del fermano e del teramano.
Le tenere vengono raccolte in autunno, per essere precisi – da disciplinare – tra il 10 settembre e il 20 ottobre. Al massimo 48 ore dopo essere state colte vanno deamarizzate – conciate – con bagni in acqua di soda. Tradizionalmente la concia avveniva con acqua e sale, un procedimento più lento che ancora oggi qualcuno però predilige.
Ma veniamo alla parte più gustosa: il ripieno. È composto da tre diversi tipi di carni: bovino (dal 40% al 70%), suino (dal 30% al 50%) ed è tollerata la presenza di pollo e/o tacchino fino a un massimo del 10% (ma vi sfido a trovare una nonna ascolana che non lo metta). Una volta trovato il giusto bilanciamento tra le diverse tipologie di proteine, le carni vengono rosolate con sedano, carota e cipolla e sfumate con il vino.
Quando sono cotte si triturano (è quindi bene non lasciarle troppo asciutte), si impastano con formaggio stagionato grattugiato e uova, si aggiunge la noce moscata. Per il ripieno il disciplinare ammette qualche variazione: poca salsa di pomodoro per insaporire le carni, buccia di limone, chiodi di garofano. Una volta che il ripieno è fatto si passa al sacro gesto della denocciolatura: l’oliva viene aperta con un movimento ellittico con la punta affilata di un piccolo coltello e il nocciolo estratto, lasciando praticamente intatto il frutto. È un movimento preciso e veloce che si tramanda di generazione in generazione quando nonne, madri, figlie e nipoti si ritrovano davanti alla stessa tavola per, magari sotto Natale, preparare centinaia e centinaia di olive (non è un’iperbole) e con la crescita della seniority aumentano i compiti di responsabilità. Ecco che si compie la magia: al posto del nocciolo viene inserito l’impasto e l’oliva ripiena passata in farina, uovo e pangrattato.
Le olive sono pronte e vanno fritte. In una cucina di Ascoli la precisione di qualsiasi termometro alimentare nello stabilire la giusta temperatura dell’olio viene sacrificata in favore delle bollicine sprigionate da uno stuzzicadenti immerso nella pentola. L’olio deve abbondare perché le olive vanno immerse, affogate. Quando sono pronte? Quando sono dorate. Ed eccoci al primo vero trucco per capire se si ha davanti una vera oliva ascolana: oltre all’avere un forma leggermente allungata, ellittica, e mai e proprio mai perfettamente sferica, deve avere la presenza di aree verdi percettibili che lascino intravedere il frutto nascosto dalla panatura.
Se chiedete a qualsiasi ascolano quali sono le olive più buone, vi risponderà che sono quella della nonna, della madre o – in casi eccezionali – della suocera. Ogni famiglia infatti negli anni ha messo a punto e tramandato la sua ricetta, bilanciando il ripieno – dalla proporzione delle carni, alla predominanza delle spezie, fino alle variazioni sul tema magari con un pizzico di mortadella pur bandito dal disciplinare – sulla base dei gusti dei parenti che si riuniscono a Natale, a Pasqua, per compleanni, comunioni, matrimoni, pranzi della domenica. Momenti celebrati a suon di olive ascolane, mangiate sia come antipasto che come parte nobile del fritto misto.
I primi esperimenti commerciali
In una città piccola come Ascoli Piceno, i fatti hanno spesso un nome e un cognome, a volte anche un soprannome, e se bisogna risalire al successo delle olive all’ascolana il merito va anche a Nazzareno Zè Migliori: «Quando qualcuno ad Ascoli inizia a fare le olive dice: le mie sono meglio di quella di Zè». Il tono con cui mi parla non è tronfio o orgoglioso, ma affettuoso e pacato come quello di chi ne ha viste e sentite parecchie. «Ma ad Ascoli le olive le fanno tutti buone» è il commento successivo, da padre della patria. E in effetti Zè Lu Pollare – epiteto ereditato dalla sua prima attività commerciale, una polleria – è un po’ l’artefice dell’uscita di questo piatto dal sancta sanctorum delle tavole e delle cucine ascolane.
Nel 1985 Zè sta aprendo una nuova rosticceria nella più centrale Piazza Arringo, a pochi passi dal Comune. Gli ambienti sono ancora un cantiere e la città è in fermento per la Quintana, una rievocazione storica medievale che si tiene in estate. Inizia a friggere le olive – ricetta rigorosamente “di mamma” – e a venderle in cartocci da 3.000 lire. Gli ascolani sono al settimo cielo: le olive fritte si possono mangiare sempre, magari camminando, e non necessariamente durante le feste comandate. Così il piatto si trasforma e diventa anche uno streetfood con il suo cartoccio, ormai tipico ma ai tempi neanche immaginabile. Con questa formula Zè attraversa l’Italia e il mondo testando gusti – «a chi mi diceva che le aveva già assaggiate, quelle surgelate da pizzeria, una comunque gliela facevo provare» – e intercettando reazioni dal Giappone agli Stati Uniti: «in Germania pensavo di vendere quintali di olive, ma i tedeschi preferivano la porchetta, meno male che me l’ero portata». È anche uno degli artefici dell’ottenimento della Dop: «iniziammo l’iter nel Novanta, ci abbiamo messo quindici anni con difficoltà di ogni tipo. Eravamo tutti volontari ed è stato stimolante e gratificante».
Al termine della nostra chiacchierata gli chiedo il segreto di una buona oliva all’ascolana: «Se il frutto è bbono, la carne è bbona e il cacio è bbono, la ‘liva è bbona».
Un souvenir da friggere
In città non esiste bar, ristorante o pizzeria che non proponga le sue olive rigorosamente fatte in casa quindi al netto dei gusti personali è difficile incappare in un piatto di olive all’ascolana che non sia fatto con tutti i crismi.
Un buon modo però per portare con sé l’indelebile ricordo della città è sicuramente quello di acquistare olive da friggere: una vaschetta da uno o due chili da divorare una volta fatto ritorno a casa. Che si possono pure congelare e friggere appena tolte dal freezer.
Ecco qualche dritta su dove acquistarle – Dop e non – rigorosamente non in ordine di classifica:
• Migliori Olive Ascolane, piazza Arringo 2
• Pasta all’Uovo Castelli Giovanni, corso V. Emanuele 41
• L’opificio della tradizione, via J.F. Kennedy 32
• La bottega dell’Oliva Ascolana, via di Solestà 15
• Pasta Fresca Cava, via Erasmo Mari 16/T
• Pasta all’uovo La Madia, via Napoli 35
• Mister OK, via Gaetano Spalvieri 1
• 180, piazza del Popolo 39
• Eccellenze ascolane, via dei Cappuccini 36/38
• La Bottega di Bruno, via di Tolignano 76/84
• Agorà Olive Ascolane, piazza Arringo 49
• Caffè Lorenz, piazza del Popolo 5