È da un po’ che negli Stati Uniti si litiga, fra le tante, anche sul latte. Da una parte, il popolo bue che da sempre beve a garganella, da taniche di plastica appena estratte dal frigo, litri di latte variamente scremato e rigorosamente pastorizzato. Dall’altra, i radical-veg che, in nome della salvezza del pianeta, ingollano analoghe quantità di bevande vegetali ricavate da semi, noci, legumi e compagnia. Fra i due litiganti ecco emergere i nuovi outsider, i pasionari del raw milk, il latte crudo. Quello così come esce dalla mucca, non pastorizzato, ovvero, non sottoposto ai trattamenti termici comunemente usati per abbattere la carica batterica e rendere il latte salubre.
I ribelli del latte intendono sfuggire alla tirannia della Big Dairy degli allevamenti intensivi come a quella delle aziende produttrici dei succedanei vegetali – dalla lista ingredienti lunga, infarcita di sigle e composti oscuri, e costo non esattamente friendly. Lo fanno in nome di un prodotto ritenuto puro, incontaminato, non toccato dalle “mani sporche” dell’industria. Ricostruire come si è passati, negli anni, da una tipologia all’altra fa ripercorrere la storia recente della società americana e, un po’, anche della nostra.
Sono passati tre decenni dal lancio, negli Stati Uniti, dell’iconica campagna marketing Got Milk? e della sua evoluzione Milk What a surprise!, ideate per far fronte a un calo di vendite che, allora, fu dovuto al boom di soft drink e succhi di nuova generazione. L’immagine era semplice ma potente: top model e attrici (da Naomi Campbell a Isabella Rossellini) fotografate da Annie Leibovitz, che sfoggiavano candidi baffi di latte sul labbro superiore. Per fortuna dei creativi, l’allora presidente Bill Clinton non era ancora incappato nell’affaire Monica Lewinsky e l’idea dei milk mustache funzionò talmente bene da risollevare le sorti del mercato lattiero.
Got Milk?, che negli anni successivi avrebbe coinvolto da Britney Spears a Barbie a Super Mario, aveva mosso i primi passi in California. Quella stessa in cui stava iniziando a dilagare il movimento veg che avrebbe sferrato un colpo fatale all’industria del cosiddetto “oro bianco”. In principio fu il latte di soia, padre putativo dei millemila “latti di” che avrebbero invaso gli scaffali dei supermercati, per non andarsene mai più.
Il cambiamento non era solo alimentare ma andava di pari passo con il diffondersi di barbe lunghe, camicie a scacchi, gonnelloni e Birkenstock. E, purtroppo, anche di un volume che avrebbe creato danni al modo di nutrirsi di centinaia di migliaia di esseri umani, ossia il famigerato The China Study – la Bibbia del veganesimo – definito dall’Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, «un ampio studio epidemiologico di dubbia qualità e basso rigore scientifico».
Scritto da un nutrizionista, Colin Campbell, basandosi sulle abitudini di un campione di popolazione cinese, metteva sotto accusa tutta una serie di alimenti di origine animale, ritenuti più che dannosi per la salute. Fra tanti nemici, il latte era additato come uno dei più pericolosi e subdoli. La teoria, stringi, stringi, era che i cinesi non bevono latte e si ammalano meno di alcuni tipi di tumore. Dimenticando, forse, che le popolazioni asiatiche sono per tradizione e per genetica (poi ci torniamo) poco avvezze al consumo di latte e latticini. In compenso mangiano molti più vegetali e cereali non raffinati, ma tant’è.
Negli stessi anni ci si mise anche la Food and Drug Administration a dire che la soia riduceva il rischio di malattie cardiache. È così che il momento di gloria del legume asiatico è durato per un paio di decenni. Finché le aziende del food americane non hanno fiutato il business delle bevande vegetali coniugandolo con la voglia crescente di sostenibilità, in cui la soia peccava, con le sue colture estensive e i chilometri macinati dai campi ai consumatori. Per tacere degli allevamenti bovini, sotto accusa per le emissioni dannose di azoto e ammoniaca dovute alle deiezioni animali.
Così, se per primo è stato “scoperto” il latte di mandorle (sì, quello che in Salento corregge da sempre il caffè), poi è arrivata la svedese avena, meno impattante della soia e, in fondo, anche delle mandorle che – sembra – vogliono più acqua. La scandinava Oatly (di recente sbarcata anche in Italia), con testimonial come Oprah Winfrey e Jay-Z, è diventata una case history per le sue performance sul mercato finanziario statunitense. Nel tentativo di ottenere il medesimo successo, stabilimenti grandi e piccoli hanno cominciato a spremere ogni genere di frutto, seme, cereale, legume: anacardi, canapa, piselli, quinoa, riso, miglio, eccetera, eccetera, eccetera.
Detto che tutti questi prodotti non sono mammiferi, cavare latte da un granello o dalla polpa di qualcosa non è come dirlo. Estrarlo e, poi, ottenere una giusta texture e un corretto profilo nutrizionale comporta un processo industriale complesso e una serie di aggiunte (oli, vitamine, zuccheri, emulsionanti). Rendendo le bevande veg tutto fuorché “naturali”.
È così che arriviamo, infine, alla ribellione del latte crudo. La nuova moda si porta appresso un bagaglio ideologico che ruota attorno al “come eravamo”. «Cinquecento anni fa, gli umani bevevano latte crudo. Non avevano impianti di lavorazione che lo riscaldassero, quindi in un certo senso si tratta di fare un passo indietro e chiedersi «Cosa abbiamo fatto per arrivare fin qui?», si domanda Kale Hyder, analista di Morgan Stanley e fan del raw milk, intervistato da Suzy Weiss su The Free Press.
Quello che abbiamo fatto, oggettivamente, è stato toglierci di torno un bel po’ di disturbi intestinali, quando non proprio gravi infezioni: il latte, prima di uscire dalla mucca (o dalla capra, o dalla pecora, o dalla madre) è incontaminato. Però nei dotti e sulle mammelle della vacca, sulle mani dell’addetto alla mungitura o, più realisticamente, sui “prendi capezzoli” del macchinario adottato nelle stalle moderne, magari non perfettamente igienizzati, potrebbero trovarsi batteri nocivi che passavano di lì. E trovandosi a contatto con un liquido tiepidino e ricco di zuccheri, ecco che Escherichia coli, Salmonella, Campylobacter e Listeria hanno il substrato perfetto per crescere e moltiplicarsi.
La questione igienica non sembra impaurire più di tanto i paladini del latte non trattato, emblema di un’era felice, «prima che tutto venisse rovinato e riempito di gomma di xantano, fosfati e oli di semi», scrive ancora TFP. Che sottolinea il non secondario fascino del proibito: «Dato che il latte crudo non è pastorizzato, è anche un po’ pericoloso: è un po’ come una sfida». Questo vale nella maggior parte degli Stati americani che lo vietano per legge, alimentando traffici semiclandestini e viaggi in cerca del nuovo oro bianco, che gli adepti si procurano in remote fattorie e sperdute comunità Amish.
Americani!, vien da dire. Tranne poi scoprire che noi non siamo da meno e che, nel nostro piccolo, non solo abbiamo cavalcato l’onda delle bevande green, ma abbiamo addirittura anticipato la moda del raw milk. Erano i primi anni Duemila quando in Italia, nei pressi di aziende agricole e piccoli caseifici, sono comparsi distributori automatici che, per pochi spiccioli, erogavano latte fresco appena munto e non pastorizzato. In seguito a casi di intossicazione finiti sui giornali, il successo iniziale è stato ridimensionato. Ma ancora oggi esiste una rete di “case del latte” con una sua nicchia di appassionati consumatori. Se in America il fondatore del sito web GetRawMilk, che mappa i venditori di latte crudo, non svela la sua identità per motivi di privacy un po’ carbonari, da noi MilkMaps continua a segnalare decine di punti vendita sparsi sul territorio nazionale, da Bolzano ad Agrigento.
Volendo verificare la situazione sul campo, ho individuato due piazze di spaccio. La prima nella periferia sud milanese, Cascina Campazzo, una vera fattoria a cinque minuti a piedi dalla fermata della metropolitana Abbiategrasso, al limitare del Parco agricolo del Ticinello. Qui, il distributore è accanto alla stalla e mentre prendi il latte, con la tua brava bottiglia portata da casa, il muso mansueto di una mucca sbuca da una finestrella lì accanto, gli occhioni che ti fissano svagati. Insieme a me, è arrivata una famigliola un po’ fricchettona e il barbuto papà ha dichiarato che lui, con il latte crudo, ci fa il formaggio. Sfortuna ha voluto che fosse sabato pomeriggio e il carico del mattino per la giornata già sold out. Sia io che l’improvvisato casaro ce ne siamo andati mesti, con le bottiglie vuote.
Ho trovato un altro distributore a Brescia città, nei pressi della stazione, prediletto – mi è sembrato – da famiglie di stranieri con tanti bambini. Il latte a un euro e venti centesimi al litro, nelle vicinanze non ho visto mucche vere (solo i treni che amerebbero guardare) ma una vacca in resina con livrea tricolore e lo slogan “latte onesto”. A colpirmi, più del velato richiamo alimentar-sovran-populista, sono state le scritte sul distributore, in particolare quelle che intimano di conservare il latte tassativamente in frigorifero, consumarlo solo dopo bollitura e comunque entro tre giorni.
Rientrando a casa con il prezioso bottino, ho fatto una telefonata ad Annalisa Sivilia, dietista a Ferrara, per capire che rischi correvo. Le domande da farle erano tante, tutte individuate girellando in rete tra blog e forum di fan e detrattori: è vero che è più buono e più nutriente? È vero che per renderlo sicuro basta tenerlo quindici secondi a 72° (temperatura e tempo della pastorizzazione industriale)? O devo bollirlo per forza? E in caso lo faccia bollire, oltre ai batteri cosa perdo?
«Io sono piuttosto scettica sui sistemi casalinghi e sul latte non pastorizzato», ha esordito Sivilia. «Oggettivamente è di sapore più buono, ma il gioco non vale la candela. Anche perché a casa non puoi sapere se il latte che stai scaldando sta raggiungendo effettivamente i gradi necessari in tutti i suoi punti». Mi ha spiegato che nelle Centrali del latte la pastorizzazione avviene facendolo scorrere su lastre riscaldate, in uno strato così sottile che garantisce che il calore lo pervada in modo uniforme, uccidendo rapidamente quel che c’è da uccidere. Inoltre, l’industria lo centrifuga, omogeneizzandolo, ovvero frazionando i grassi in particelle più piccole e rendendolo, così, più digeribile del latte crudo. Se per questo aspetto a casa non c’è tecnica che tenga, quello che possiamo fare è non interrompere la catena del freddo e, soprattutto, bollirlo, unico sistema per togliere di mezzo i batteri e levarsi il pensiero delle eventuali spore tossiche che potrebbero produrre. «Così, però, si disperdono i nutrienti e si sviluppa il tipico sapore di latte cotto, non proprio gradevole».
La nutrizionista, insomma, ha bocciato il raw milk per come lo intendono i puristi da questa e dall’altra parte dell’Oceano. Tuttavia io, per dovere di cronaca, ho deciso di correre il rischio colite per fare un esperimento: blind test di latte crudo, scaldato a 72° per i fatidici quindici secondi e bollito. Quello a 72°, misurati con un comune termometro digitale da cucina, l’ho portato in temperatura rimescolandolo continuamente e inserendo il termometro senza toccare fondo e pareti del pentolino. Quello bollito l’ho spento un istante prima che traboccasse (il termometro segnava 97°). Entrambi li ho raffreddati velocemente utilizzando un abbattitore e quindi assaggiati alla cieca, insieme a un bicchiere crudo, appena tolto dal frigo.
Che era dannatamente buono, dolce, corposo, denso, profumato, con un aroma di zucchero e vaniglia, direi. Profumo che si volatilizzava con l’alzarsi della temperatura: quello bollito al naso risultava praticamente inodore. All’assaggio, la dolcezza non andava del tutto perduta ma il sapore diventava via via più “piatto”, quasi acquoso. Dei nutrienti compromessi con la cottura, naturalmente, non so dirvi. Mal di pancia non pervenuto, per fortuna. Giornalista uno (a proposito, li ho azzeccati al primo assaggio), latte crudo zero. Che, sia ben chiaro, non è un invito a replicare l’esperimento: don’t try this at home e, se proprio volete il latte della mucca Carolina, bollitelo. Avrete comunque un prodotto più buono di molti dei latti standard del supermercato. Beninteso, sempre parlando di latte fresco intero: quello a lunga conservazione UHT è portato, seppure per tempi brevissimi, fino a 140-150°, con le immaginabili conseguenze sul profilo organolettico. E taccio sul gusto degli scremati.
Tuttavia, anche i produttori tradizionali strizzano ormai sempre più spesso l’occhio ai fan della “naturalità” con prodotti bio che più bio non si può e latti “strillati” di cascina e di montagna. Nel mio super di riferimento spicca quello denominato “fieno”, Stg (specialità tradizionale garantita certificata dall’Unione Europea), munto da mucche felici che pascolano nei verdi prati dell’Alto Adige. Di contro, vedo espandersi continuamente il reparto delle bevande vegetali: c’è persino chi stampa sul cartone di una specialità a base di avena «Questo non è LATTE». Un escamotage grafico per aggirare il divieto vigente in tutta Europa di chiamare latte quello non di origine animale.
LatteTrento condivide la soddisfazione per il rilascio del riconoscimento da parte di #CSQA per l’attestazione ai nostri soci in qualità di produttori e alla latteria in qualità di “trasformatore” relativa al #LatteFieno #STG specialità tradizionale garantita#QualitàTrentino pic.twitter.com/rRVIE4Vw7F
— Latte Trento (@latteTrento) March 27, 2018
Una normativa analoga esiste anche negli Stati Uniti ma, sarà forse merito della sempre più potente lobby green, la Food and Drug Administration ha proprio in questi giorni avanzato una proposta per permettere l’utilizzo della parola latte per le bevande vegetali. Sebbene «una mandorla non allatti», come nota il commissario FDA Scott Gottlieb, «i prodotti a base vegetale non fingono di essere latte e non ingannano i consumatori», è scritto nelle motivazioni della proposta.
L’unica cosa certa è che l’argomento resta scottante e sul latte ognuno può dire la sua. L’ho potuto verificare durante una cena quando, in un momento di stallo della conversazione, ho buttato lì: «Ehi, devo scrivere un pezzo sul latte cru…». Neanche il tempo di finire la frase che tutti sono partiti con la loro. La mia ospite: «Mi hanno diagnosticato l’intolleranza al lattosio ma oggi, prima di andare a mangiare la pizza, ho preso la lattasi (l’enzima che serve a digerire il lattosio, Nda). Qualcuno vuole altra mozzarella?». L’amica di Shangai: «In Cina stanno dando ai bambini il latte a scuola così un giorno potranno mangiare anche loro i formaggi». L’amico catanese: «Io sono stato cresciuto a latte d’asina». Mentre il padrone di casa si ricordava di aver letto in Buono da mangiare, saggio gastro-antropologico di Marvin Harris, di quella volta che gli americani, in un programma di aiuto alimentare, avevano inviato in Brasile 88 milioni di libbre di latte in polvere causando un boom di disturbi intestinali: i brasiliani erano carenti di lattasi.
Di tutte, mi ha colpito la storia del latte d’asina. Da una ricerca veloce, ho appurato che, per composizione, è il più affine al latte materno, tradizionalmente dato ai neonati di mamme che non potevano allattare. In passato un’abitudine rurale, oggi è forse un’alternativa “ribelle” alle multinazionali del latte in polvere. Sebbene a costi esorbitanti, sui venti euro al litro.
Insomma, intorno al latte di fermento ce n’è tanto. È di questi giorni l’ascesa politica nei Paesi Bassi del BBB, il Boer Burger Beweging, “movimento civico dei contadini”, partito degli allevatori guidato dalla carismatica Caroline var der Plas. La leader si batte contro le politiche del governo di Mark Rutte che, per abbattere le emissioni, prevedono la riduzione di un terzo di tutti i capi allevati nel paese, quasi sei per abitante. In seguito al recente successo elettorale, van der Plas ha dichiarato che «I Paesi Bassi sono stufi di queste politiche ambientali». Anche da quelle parti il latte crudo va per la maggiore e sta abbandonando (alla chetichella) la logica fricchettona per entrare in un’ottica industriale. Lo dimostra il successo di aziende come Raw Milk Company, family company olandese che distribuisce nelle principali catene bio del Paese i suoi prodotti a marchio RauwPower, dal kefir al Cow Beetcha, un latte fermentato ispirato al kombucha.
Da noi, la trasformazione di questa materia prima ha ancora un côté artigianale, romantico e, soprattutto, di rottura, garantito dai piccoli se non piccolissimi produttori di formaggi a latte crudo. Non stiamo parlando dei “grandi” (sono a latte crudo, tra gli altri, Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Fontina) ma delle specialità di nicchia come i formaggi di malga, lavorati direttamente in alta quota. A promuoverli e proteggerli, in prima linea c’è Slow Food con Cheese, la manifestazione organizzata ogni anno a Bra. Durante la quale, negli anni passati, è stato assegnato anche il Premio Resistenza Casearia «a quei pastori e a quei casari artigiani che rifiutano le scorciatoie della modernità e che testardamente continuano a produrre formaggi e alimenti rispettando naturalità, tradizione, gusto».
L’ultimo a vincerlo è stato il valtellinese Paolo Ciapparelli, artefice dello Storico Ribelle, ex Bitto storico, formaggio alpino che ha assunto la nuova denominazione dopo aver deciso di non sottostare al disciplinare del Bitto Dop, che allargava l’area di produzione e prevedeva l’utilizzo di mangimi nell’alimentazione delle vacche e fermenti durante la caseificazione. Per completezza c’è da sottolineare che questo tipo di lavorazioni casearie, che pure partono da latte crudo, adottano tutta una serie di buone pratiche che garantiscono la sicurezza igienica. Non ultime, alcune fasi a caldo e la stessa stagionatura. Di contro, garantiscono una complessità aromatica che poco ha a che fare con l’omologazione delle produzioni di massa. Ed ecco che si ritorna ai concetti di “naturalità” e di contrapposizione all’industrializzazione cari ai sostenitori del raw milk.
Potere al latte, dunque. Il latte crudo esiste, e lotta con noi. Hasta la victoria siempre. Leche o muerte. Se la prossima volta in cascina mi imbatterò ancora nel papà alternativo, ne parlerò con lui. E gli chiederò la sua ricetta per fare in casa il formaggio.