«Sto seguendo l’esempio di San Bonaventura. Nel 1268 i cardinali non riuscivano ad accordarsi su un nuovo Papa, e cosa fa Bonaventura? Li chiude a chiave senza cibo finché non prendono una cazzo di decisione. Tre morirono, ma funzionò». L’aneddoto raccontato dal Primo Ministro britannico Nicol Trowbridge (uno strepitoso Rory Kinnear) nella serie Netflix The Diplomat non è che uno degli innumerevoli esempi, lungo gli otto episodi, della strettissima relazione tra cibo e politica.
La fermezza di San Bonaventura ricorda molto quella di un altro Primo Ministro britannico – stavolta non fittizio –, Margaret Thatcher, che nel 1979 era impegnata in un’estenuante riunione del Consiglio Europeo con l’allora Presidente francese Giscard d’Estaing. Lui, stanchissimo, chiese se si poteva fare una pausa per cena; la Lady di ferro – fedele alla sua nomea – si rifiutò di concludere la sessione prima che venisse presa una decisione. E con l’andare della serata non sorprende che sia riuscita a rendere Giscard d’Estaing più propenso ad accettare sue proposte, perché come spiega la consulente e analista Maria Velez de Berliner «chi controlla l’accesso al cibo controlla la situazione».
Carolyn Steel, autrice di Hungry city. How food shapes our lives, non ha dubbi: qualsiasi grande evento storico – comprese le cospirazioni – è sempre stato concepito, progettato e organizzato attorno a un pasto. Le fa eco Hillary Clinton, che ha definito il cibo «il più antico strumento diplomatico». Sin dall’antichità il cibo viene utilizzato nella speranza di facilitare e migliorare la cooperazione a livello politico. Gli antesignani sono stati i simposi greci, la cui autorevolezza risiedeva nel concetto di condivisione: condividere cibo e bevande significava condividere anche pensiero e condotta diplomatica. L’istituzione della food – o gastro – diplomacy come oggi l’intendiamo si fa però solitamente coincidere con la nascita della moderna diplomazia, ossia quando il Cardinale Richelieu istituì un nuovo sistema di ambasciate estere permanenti su suolo francese.
«La food diplomacy funziona soprattutto in Asia perché la società asiatica ruota attorno al cibo, e ciò si riflette pure nella politica», spiega Giulia Pompili, giornalista de Il Foglio che da diversi anni si occupa dei rapporti con Cina, Giappone, Coree e Taiwan e autrice, insieme a Francesco Radicioni, di Bambù, podcast di Far East Festival e Chora Media che narra gli ultimi venticinque anni di Asia.
«Il cibo politico è uno dei motivi per cui noi giornalisti siamo sempre così ossessionati dai menu delle cene di stato tra leader internazionali. Nel 2017, l’ex Presidente sudcoreano Moon Jae-in inserì nel menu della cena di stato organizzata in onore del Presidente americano Donald Trump dei gamberetti. Ma non erano gamberetti normali: erano gamberetti delle Dokdo, delle piccole isole rivendicate dal Giappone che infatti le chiama Takeshima. Morale: si aprì una crisi diplomatica senza precedenti. E c’entra sempre il cibo nelle argomentazioni che il Giappone porta alla Cina per spiegare perché, storicamente, le isole Senkaku, quelle rivendicate da Pechino, in realtà sono giapponesi: è proprio sulle Senkaku che anticamente sono nate le prime aziende di produzione del katsuobushi, il tonnetto essiccato e fermentato, ingrediente fondamentale della cucina giapponese».
E ancora: «quando il Presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol fece la sua prima visita di stato in Giappone, la visita del disgelo, chiese al Primo Ministro Fumio Kishida di andare a mangiare insieme il suo piatto preferito: l’omurice, la famosa omelette di riso giapponese. I media giapponesi diedero molto risalto a questo particolare, perché l’omurice viene considerata parte della cucina yōshoku, ossia la cucina giapponese influenzata dall’occidente. Il significato politico di quella richiesta, insomma, era un’apertura sia al Giappone, sia alla sempre più stretta relazione con l’alleanza occidentale».
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Esistono chiaramente delle regole non scritte che dettano i rapporti tra Paese ospitante e Paese ospitato: «nel 90% dei casi il cerimoniale s’interfaccia con l’ufficio politico del leader in carica per capire qual è il messaggio che intende veicolare. Solitamente, nel caso in cui l’obiettivo sia promuovere i rapporti commerciali, si tende a mettere in mostra ciò che si ha da offrire dal punto di vista agroalimentare, in una sorta di gastro-nazionalismo. Se invece si è in cerca di un rafforzamento dei rapporti diplomatici, si cerca di costruire un menu “fusion” più in linea e compatibili con il palato dell’ospite».
Attraverso il cibo, così come si coopera, allo stesso tempo vengono anche inferti i colpi bassi: «nel 2020, dopo che l’Australia aveva chiesto un’indagine internazionale sull’origine del Coronavirus, la Cina incominciò a boicottare diversi prodotti australiani, tra cui il più importante fu il vino. Di lì a poco, in tutte le cancellerie dei Pesi occidentali presero a circolare – durante pranzi e cene ufficiali – tantissime bottiglie di vini australiani: era un chiaro messaggio di supporto all’economia australiana affinché non risentisse del boicottaggio cinese, al punto che bere vino australiano diventò una vera e propria moda connotata da un forte messaggio politico».
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La food diplomacy, insomma, è una delle leve principali del cosiddetto soft power, cioè l’abilità di un potere politico di comunicare, persuadere, convincere, attrarre e cooptare tramite risorse intangibili: «in tal senso, il Giappone è imbattibile nel suo utilizzo. Si tratta di uno strumento che stanno cercando di utilizzare tanti altri Paesi asiatici, come la Corea del Sud e il Vietnam: l’intento è proprio quello di costruire l’identità di un Paese a livello culturale – più che con le arti visive, o la lingua – tramite il cibo».
Persino se si parla di un Paese come la Corea del Nord, la cui tradizione gastronomica tenta di rivivere grazie ai circa trentamila defectors rifugiatisi in Corea del Sud: «Uno dei ristoranti nordcoreani più famosi a Seoul è il Neungra Bapsang: alle pareti ci sono le fotografie di Hillary Clinton e di Michelle Obama con Lee Ae-ran, fondatrice e proprietaria del locale. Cinquantanove anni, Lee è arrivata dalla Corea del nord a Seul nel 1997 con una figlia di quattro mesi, dopo anni trascorsi in un campo di lavoro a causa dei suoi nonni, considerati dal regime del Nord dei traditori. Lee è la prima nordcoreana ad aver preso un dottorato in Corea del Sud, alla prestigiosa università Ewha in Scienze dell’alimentazione: ha iniziato lavorando nelle assicurazioni, e nel 2009 è riuscita ad aprire il suo ristorante. Oggi assume soltanto rifugiate nordcoreane, e al Neungra Bapsang, dopo i noodles e i bindaetteok, si beve il “caffè Obama”, servito all’ex Presidente degli Stati Uniti quando partecipò al Seoul Nuclear Security Summit».
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«La cucina sudcoreana si è parecchio modernizzata», spiega Pompili, «mentre quella nordcoreana mantiene ancora dei sapori molto semplici e tradizionali: tantissimi nordcoreani residenti al Sud amano andare nei ristoranti nordcoreani per ritrovare le ricette del loro Paese. In questo senso il ristorante di Lee è una sorta di madeleine, e contemporaneamente il cibo servito assume pure un ruolo politico e imprenditoriale».
Proprio Barack Obama è stato uno dei principali protagonisti della food diplomacy «perché è riuscito a cambiare le regole di questa diplomazia molto impettita e molto cerimoniosa andando a mangiare con Anthony Bourdain alla trattoria Huong Lien di Hanoi, capitale del Vietnam, un locale che serve bún chả – un piatto tipico a base di spaghetti di riso – e dove un pasto costa massimo quattro, cinque dollari. Obama si trovava ad Hanoi nel 2016 per la prima visita ufficiale da Presidente allo Stato asiatico, e questa cena – parecchio apprezzata dai vietnamiti – venne letta come un tentativo di ridimensionare l’intoccabilità della politica». Certo, anche Obama non è immune agli scivoloni: durante la cena di stato alla Casa Bianca con il suo omologo francese François Hollande, nel 2014, nel menu era incluso il pregiato caviale dell’Illinois, una presenza che non desta grandi sorprese nelle occasioni più importanti: per Hollande però, il cui governo socialista non desiderava suscitare ulteriore risentimento nei confronti dei cosiddetti Gauche caviar, ciò costituì una bella gatta da pelare al rientro in patria.
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Forse però l’esempio più calzante di food diplomacy arriva dai durissimi venti mesi di negoziazioni per l’accordo nucleare iraniano del 2015: l’ostilità era alle stelle, e i colloqui avevano rischiato di interrompersi almeno cinque volte. I negoziatori avevano sempre mangiato separatamente, ma il 4 luglio, Giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti, gli iraniani invitarono gli americani a pranzo ponendo un’unica condizione: vietato parlare di lavoro. Per la prima volta le due fazioni non si videro come negoziatori, bensì come esseri umani, e nei dieci giorni successivi si raggiunse l’accordo: gli esperti suggeriscono che ciò non sarebbe stato possibile senza il pasto persiano precedentemente condiviso, che aveva contribuito a creare e cementificare un rapporto. «Il cibo umanizza non solo le persone, ma pure gli avversari», sottolinea Velez de Berliner, e spesso, a quanto pare, riesce laddove la tradizionale diplomazia arranca.