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Ricordi l’avocado? Ne mangiamo sempre di più, ed è un problema

Sembrava una moda come tante, invece il frutto burroso che gli aztechi chiamavano "testicolo" è rimasto con noi. Navigando l'hype del salutismo, e creando non pochi problemi di sostenibilità, umana e ambientale
avocado

Credits: Tom Kelley via Getty

C’era una volta un frutto verde e burroso che faceva fatica a farsi strada nelle cucine domestiche. Oggi, quel frutto dalla forma di pera e dal gusto insolito, una miscela di noce ed erba, è entrato a far parte del paniere Istat degli italiani, godendo di un successo di consumo senza precedenti.

Sì, stiamo parlando proprio di lui: l’avocado, che potrà anche essere meno al centro dell’attenzione collettiva (quand’è l’ultima volta che l’avete notato sul vostro feed Instagram?), ma non per questo è sparito dai piatti, quelli privati, che non condividiamo agli sguardi dell’internet. Che cos’è successo? Abbiamo finalmente superato il contrappasso della legge dell’hype?

Purtroppo, assolutamente no: l’avocado ci sembra “sceso” solo perché, dopo la mania che lo ebbe protagonista negli anni Dieci del nuovo millennio, il consumo di questo frutto francamente impossibile da pelare si è radicato in profondità nelle abitudini di gran parte del mondo occidentale e asiatico. In altre parole, avremo anche superato le assurdità come i locali a tema avocado, l’Avolatte e l’Ecovado (ma a guardar bene, poi, chissà che qualche rimasuglio non compaia dalla polvere), ma siamo diventati molto più voraci di questa drupa (non è una parolaccia, ma la famiglia di frutti a cui appartiene il fratello avocado), complice anche il proliferare a macchia d’olio di pokérie, responsabili del boom delle importazioni, più che raddoppiate (+120%) dal 2018. Un fenomeno che, francamente, ha qualche aspetto preoccupante da considerare.

Innanzitutto, perché la storia dell’avocado è quella di un frutto anacronistico – abbiate pazienza, tornerà tutto. La sua relazione con le bocche umane va piuttosto indietro nel tempo e non fu senza alti e bassi, basti pensare che gli Aztechi lo avevano battezzato “testicolo”. Per arrivare a diventare simbolo degli eccessi dei nostri Millennial, insomma, alla faccia se ne ha fatta di strada, soprattutto in termini di marketing, questo cosetto verde e rugoso. Per essere una bacca quasi insapore, viscida e cara come l’oro, all’avocado va veramente riconosciuto un merito di cui si tiene ben conto di questi tempi: aver perculato mezzo mondo.

Ma, appunto, partiamo da un presupposto: evolutivamente, l’avocado non dovrebbe nemmeno più essere tra noi. La sua sopravvivenza dipendeva da mammut preistorici, estintisi circa 13.000 anni fa, che consumavano il frutto intero e diffondevano i semi con la defecazione. Questo “anacronismo evolutivo” ha sollevato parecchi interrogativi, perché nessuno è sicuro di come gli avocado non si siano estinti fino a quando gli esseri umani hanno iniziato a piantarli. Come un calabrone che vola a discapito di sé stesso, l’avocado, invece, è più presente che mai.

Lasciamo dunque che il viaggio continui: nel libro Avocado: A Global History (Jeff Miller, Reaktion Books, 2020) si spiega che il nome attuale del frutto deriva da āhuacatl, termine di lingua Nahuatl (idioma originario della popolazione azteca), che, come dicevamo, significa “testicolo”. Per questo, e per il gioco di associazioni tipico delle culture ancestrali, secondo cui il simile chiama il simile, l’avocado veniva consumato allo scopo di conferire vigore sessuale. Dopo Maya e Aztechi, gli europei furono tra i primi a provarlo, e lo descrissero come un frutto dall’alto contenuto nutritivo, ideale (to’ guarda) per sfamare gli schiavi delle loro colonie.

Il nome corrente e occidentale di questo vegetale priapesco transita invece per l’inglese, dove la parola avocadocomparve per la prima volta nel 1696 grazie a Sir Hans Sloane e a una relazione pubblicata nel 1696 sulle tipologie di piante presenti in Giamaica. Nome che fu “ufficializzato” solo negli anni ’20 del Novecento, quando la California Avocado Society inserì annunci pubblicitari sul New Yorker e Vogue lodando la nostra drupa come “aristocratico tra i frutti da insalata”. Questo il passo che segnò l’inizio dell’ormai familiare aura di superiorità che circonda l’avocado. Da lì, è storia recente: con l’avvento del clean eating e della ricetta per l’avocado toast di Gwyneth Paltrow (siamo nel 2013, anche se alcuni fanno risalire la paternità dell’idea più indietro, e in Australia), gli antichi āhuacatl hanno conquistato i Millennial, diventando sinonimo di cibo nutriente ma healthy (non azzardatevi a dire: “salutare”), perdendo, nel contempo, la loro accessibilità: per questo, alcuni hanno associato la crescita dei consumi di avocado (o meglio, di avo toast) a un’altra piaga silenziosa delle stessa generazione, la gentrificazione. Esempio ne fu l’Avocaderia, locale a tema avocado aperto nel 2017 da due italiani nell’ex-quartiere latino di Industry City a New York. I titolari furono accusati di aver speculato su un cibo strappato dalle sue radici umili, elevando il target e avendo come conseguenza indiretta l’aumento dei prezzi delle case. Quando si dice “effetto farfalla”.

E in Italia? Dalle nostre parti, complice forse l’ossessione per il mangiar “sano” che ci ha inculcato quella mezza bufala della dieta mediterranea, l’equazione avocado uguale superfood (anche qui, ce ne sarebbe da dire sul termine) non è mai stata così forte. Infatti, anche la conclusione del decennio che l’ha visto protagonista, l’avocado continua a essere osannato come panacea di misteriosi mali, e la sua diffusione è sempre più ampia. Per farsi una fotografia: una famiglia su quattro nel corso del 2023 ha acquistato almeno un avocado, per un totale di circa 40.000 tonnellate di avocado consumate (che ci fanno guadagnare un sesto posto europeo in materia). Perché l’avocado non piace solo ai Millennial salutisti, che, disposti per questo a spendere di più, innalzano il prezzo medio dei cibi salutari. Questo piccolo “dio verde” piace anche alla GenZ, che ha imparato ad amarlo nelle pokérie, forse per il suo colore vibrante e per il fatto che il suo costo aggiuntivo conferisce un valore percepito più elevato, richiamando l’aura elitaria che lo ha promosso sul mercato americano un secolo fa.

E Ok, ammettiamolo: è vero che, se consumato moderatamente, l’avocado offre benefici per la salute, è ricco di calcio, potassio, fibre e grassi monoinsaturi utili contro il diabete. Questo lusso da occidentali, però, presenta l’annoso rovescio della medaglia che arriva con molti generi “globalizzati”: le coltivazioni di avocado(soprattutto in Messico), divenute intensive per soddisfare una filiera internazionale con un boom di richieste contribuiscono alla deforestazione, allo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche, all’inquinamento dovuto all’uso di sostanze chimiche nelle piantagioni. Ad aggravare le conseguenze dei consumi fuori scala, la filiera messicana dell’avocado è sotto il controllo dei cartelli, che estorcono denaro ai piccoli produttori e impongono la legge nei campi, talvolta richiedendo l’intervento dell’esercito o di soldati privati per proteggere le piantagioni di questo “oro” (il Guardian, per descrivere la situazione, ha rinominato l’avocado “conflict commodity”).

Dovremmo quindi rinunciare tout court all’avocado? Non sarebbe possibile, anche volendolo: i consumi esprimono chiaramente dove si stanno orientando le preferenze alimentari delle persone, e probabilmente è giusto che questo frutto consolidi la propria presenza nel reparto ortofrutta dei supermercati o nei menù di qualche ristorante. Una strada percorribile, però, forse c’è, ed è fatta da due carreggiate. Una consiste nello sganciare l’avocado dal simbolo di frutto buono-per-antonomasia, ricordandoci che possiamo ottenere gli stessi benefici anche mangiando verdure a foglia, frutta secca, tuorlo d’uovo e olio extravergine d’oliva, ingredienti di cui la cucina italiana tradizionale è ricca. L’altra richiede, ahinoi, un piccolo sforzo: e cioè decidere di mangiare meno avocado, solo quando è di stagione (fra ottobre e maggio), e scegliendo quello prodotto in Europa o ancor meglio in Italia (è realtà, fatevi un giro in Sicilia). Magari scegliendo altri ingredienti quando componete quella bowl di poké. O, dài, facciamo che lasciate perdere pure il poké.

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