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Scongelavo i tortelli di nonna, o di quando mi commossi su un piatto di pasta

Ne 'Alla ricerca del tempo perduto', Marcel Proust donava al suo protagonista un metodo molto speciale per viaggiare nel tempo: il cibo. La scienza dice che aveva ragione: ciò che mangiamo si lega alla memoria e al sentimento, e, validando il nostro passato, ci aiuta a costruire il futuro
tortelli

Credits: Edoardo Fornaciari via Getty

La pasta all’uovo di questi tortelli è ormai diventata pallida, ed è così fragile da bucarsi mentre cuoce nell’acqua bollente. Il gusto del loro ripieno è attenuato, appare a tratti, per colpa del periodo che hanno trascorso nel freezer. Non ho fatto in tempo a cucinarli insieme a lei e, anche se la ricetta è annotata su una vecchia agenda, so che sono l’ultima traccia della cucina di Dora, mia nonna. I sentimenti che provo sono quelli della mancanza, c’è il dolore e poi l’affetto. Dentro a questo piatto su cui, invece di mangiarlo, sto piangendo, c’è anche qualcos’altro, e me ne accorgo mentre il suo contenuto scompare. Sto cercando quel sapore che ho sempre conosciuto, ma è un percorso che avviene nella memoria più che sul palato.

È per istinto che il cibo diventa ricordo. È un prodotto, secondo la biologia, della nostra eredità ancestrale. La chiamano “teoria dell’evoluzione del gusto amaro”, indicando il processo evolutivo in cui il senso del gusto ha permesso alle prime specie di distinguere ciò che era edibile da quello che, invece, poteva essere velenoso. È stato un processo di educazione così profondo da rimanere incastonato nel nostro DNA sotto forma di pseudogene, definito così perché ormai incapace di attivarsi, ma rimasto lì, incastonato e silente fra le nostre sequenze nucleotidiche. Oggi, che i rischi probabilmente provengono più da ciò che è dolce, anche il nostro rapporto con questo tipo di memoria gustativa è mutato. Non parla più in termini di una sopravvivenza fisica ma, in qualche modo, sentimentale.

Credits: Camerique via Getty

Parafrasando l’antropologo Jon D. Holtzman, il rapporto fra memoria e cibo può essere considerato come un interruttore in grado di attivare dei processi nostalgici verso il passato. Qualcosa che può addolcire l’infanzia, in direzione di un candore perduto, o diventare un’istruzione su ciò che eviteremmo volentieri di rimangiare. È qualcosa che accade nel corpo attraverso i suoi sensi: non possiamo prevedere che accada ma lo ricerchiamo costantemente. Nell’odore che avvertiamo all’improvviso in un ristorante sconosciuto, o nella comfort zone di un prodotto industriale il cui gusto è lo stesso da decenni. È un sentimento così forte, evidenzia Holtzman, che può superare i confini del singolo ed estendersi per farsi collettivo.

Questo discorso può valere, per esempio, per le comunità in diaspora per ristabilire un contatto gustativo verso la propria terra o, anche, per le famiglie che si riuniscono ogni anno per le feste programmate sedendosi davanti a tavole e menu immutabili. È poi materia narrativa, dalle madeleine di Proust in poi, e un’occasione per reinterpretare la propria vita nei memoir gastronomici di Mary Frances Kennedy (M.F.K.) Fisher, oppure per trasferire un’esperienza di rottura e salvezza negli scritti di Anthony Bourdain (Kitchen Confidential, avete presente?). Tutte queste correlazioni insieme potrebbero spiegare, per esempio, perché tendiamo a recuperare i rituali del passato o ad attaccarci così tanto alle tradizioni. A volte, perfino, a inventarne di nuove per definire la nostra identità.

C’è una relazione sentimentale che stabiliamo con il cibo nel momento in cui si fa conservazione, che modula e forgia i luoghi che viviamo. Jón Þór Pétursson e Matilda Marshall ne parlano in Pantry Memories: Storing Food and Feelings in Swedish Homes, un articolo di fine 2022. I due etnologi, partiti per rintracciare le motivazioni dietro l’utilizzo sempre più comune di termini come “old-fashioned pantry” e “classical root cellars” nelle pubblicità immobiliari svedesi (concetti che legano l’abitare a un idillico e rassicurante senso di “casa”), si sono ritrovati a ragionare su quanto la nostalgia partecipi attivamente nel creare e interpretare le emozioni, rendendola significativa, per non dire determinante, su come ci relazioniamo al presente e agli spazi abitativi.

«La nostra idea di ricerca era quella di creare una sorta di archivio che parlasse di oggi ma potesse essere un documento utile anche alle generazioni future», ci spiega Matilda Marshall quando ne parliamo. «Abbiamo invitato le persone a scrivere i propri ricordi legati a dispense e frigoriferi, su come conservano il cibo oggi e ai ricordi di quando erano più giovani. La maggior parte lo ha fatto in maniera molto dettagliata. Abbiamo, quindi, cominciato a interpretare queste risposte in termini di nostalgia riflessiva, intendendo il modo in cui le persone interagiscono con i propri ricordi mentre scrivono, quindi nel pensare a come ricordare le cose e a utilizzare le parole per descriverle. Abbiamo dedotto quindi che la riflessività consiste nel posizionarsi qui e ora ma, anche, nel guardare indietro, nel ricordare i vecchi tempi, nel pensare a cosa era piacevole. Attraverso queste narrazioni sono emersi i ricordi delle nonne e dei nonni, che erano rappresentati, per la maggior parte, in modo molto positivo».

Nel loro articolo Pétursson e Marshall parlano in termini di nostalgia riflessiva come una forma di conservazione che, nel caso del cibo, connette il tempo agli spazi. Li ricostruisce e li trasforma. Si cristallizza nei vasi impolverati e nelle dispense sempre piene o, in questo caso particolare, nel freezer, diventando spazio di ricordo e di sicurezza contro gli imprevisti. È qualcosa che avverto ripensando a quella casa destinata a essere per sempre vuota, ripensando ai frigoriferi e alle ultime buste di plastica per alimenti che si trovano nella piccola dispensa in fondo al corridoio come a una possibile cella dell’infinito che, rimanendo chiusa, non avrebbe effettivamente sancito la fine della storia, non l’avrebbe trasformata in un ricordo dei pranzi e di una voce che non mi avrebbe parlato più. Per portare questo racconto ancora oltre, infatti, non li ho scongelati tutti. Ripensarli lì, per quanto in via di estinzione naturale, mi tranquillizza.

«Le testimonianze che abbiamo raccolto», prosegue Marshall, «rappresentavano spesso dispense piene, o del cibo preparato dalle nonne. Credo che la dispensa piena fosse un ricordo che gli desse sicurezza perché legato, per esempio, anche alle persone intorno a loro. In questo modo l’idea della dispensa li collegava al passato, come abbiamo discusso io e Jón Þór nella ricerca. Questa particolarità permette, forse, di dare un’idea del fatto che la vita di oggi può essere fatta in modo diverso ma che questi luoghi e questi tipi di conservazione abbiano guadagnato un sentimento di stabilità».

La ricomparsa delle dispense, l’attenzione rinnovata per la conservazione non chiude un capitolo ma ne apre, in realtà, uno nuovo. Perché, anche se queste preparazioni svaniranno nella loro forma fisica, rimarranno in altre, nel ricordo, nella mano invisibile nel momento in cui rifarò quei tortelli, o nel profumo sentito in qualche altra cucina con cui entrerò in contatto. bell hooks scrive, in Tutto sull’amore, che «l’amore ci invita a piangere i morti come rituale del lutto e come commemorazione. Lasciando parlare i nostri cuori nel cordoglio, condividiamo la nostra intima conoscenza dei morti, di chi sono stati e di come hanno vissuto. Ne onoriamo la presenza nominando le eredità che ci lasciano», e a volte questo significa anche lasciare andare e, contemporaneamente, tenere stretto quello che si è ricevuto e condividerlo, forse perché la forma più avanzata di conservazione siamo in fondo noi e la nostra nostalgia. La capacità di ricreare i gusti, o ritrovarli, e dargli un’eredità oltre la perdita.

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