Le cucine, storicamente, sono luoghi di fatica, maleodoranti e pericolosi, perché ci si taglia e ci si brucia; perché le rigide norme igieniche sono un ritrovato piuttosto recente; e perché, nei seminterrati asfissianti dove di solito si cucinava, le esalazioni del carbone spesso condannavano i cuochi a morte prematura. Il cuoco, storicamente, è un lavoro per persone di estrazione umile disposte a sostenere sforzi prolungati e soprusi di vario genere, prima per mano dei padroni di casa (in ordine cronologico: reali, nobili, alto borghesi), poi per mano dei padroni dei ristoranti. A tutto questo aggiungiamo una generosa dose di privazione del sonno, perché già tutti mangiano almeno tre volte al giorno, dalla prima mattina alla tarda sera, se poi chi mangia diventa esigente e richiede preparazioni sofisticate, il turno di lavoro di chi cucina si avvicina alle ventiquattrore.
E infatti, in uno celebre trattato del ‘500 sul mestiere (Il maestro di Casa di Cesare Evitascandali), quando si descrive il bravo cuoco, non si parla tanto di estro e di gusto, quanto invece di cose più pratiche, atte alla mera sopravvivenza di chi cucina e di chi mangia. Il cuoco, si legge, deve essere più giovane che vecchio «et sopra tutto sia netto di mani […] che non habbia rogna sopra esse, nè male alle gambe. […] Et sopra il tutto che non s’imbriachi, che questo è il maggior vitio di tutti». L’attenzione così insistita sull’igiene era forse condizionata dal fatto che il libro fu scritto a Venezia durante la peste del 1576, ma anche senza peste il cuoco, prima di tutto, doveva essere giovane, pulito e abbastanza forte da sopportare la fatica e la frustrazione senza rifugiarsi nell’alcool. Poi veniva il resto. Da qui agli chef che conosciamo oggi, così popolari da essere delle celebrità, se non dei veri e propri divi, come ci siamo arrivati?
Associamo la celebrità dei cuochi alla televisione. A partire dal secondo dopo guerra, prima in Inghilterra poi negli Stati Uniti e in Francia, e pian piano nel resto del mondo, sono nati i programmi di cucina, un po’ per insegnare a cucinare alle famiglie che vivevano un nuovo benessere e un po’ per riempire le trasmissioni con programmi che costavano il giusto. Poi, questi programmi hanno preso sempre più piede, essenzialmente per due motivi: perché tutti dobbiamo mangiare tre volte al giorno, perciò non ci stancheremo mai di veder comporre piatti, anche se li abbiamo già mangiati quasi uguali altre cento volte; e perché vedere qualcuno che cucina per noi crea un legame, o almeno un’atmosfera, di intimità, anche se quel qualcuno è dentro uno schermo.
Ma se fosse solo questo, una volta finito di mangiare penseremmo ad altro. Invece i cuochi rimangono nei nostri pensieri anche tra i pasti: ci fanno leggere libri, risparmiare e viaggiare per andare a conoscerli, piangere e ridere per il loro carattere e le loro alterne vicende biografiche, comprare i loro utensili o, nei casi più estremi, le magliette bianche che indossano (come quella di Carmy Berzatto in The Bear, e non è neanche un cuoco reale). Se la televisione ha permesso una popolarità senza precedenti, i cuochi sono però celebri da molto prima — meno di oggi, ovviamente, una frazione infinitesimale di quelli che sono famosi oggi — ed erano già abbastanza celebri da pubblicare libri, fare scuola ed essere contesi dalle cucine di mezzo mondo. È difficile stabilire quando nasce questa celebrità degli chef, ma possiamo azzardare tre ipotesi: con il Satyricon di Petronio nel I sec. d.C., con i due Bartolomeo del Rinascimento italiano o con Maria Antonietta a Versailles nella seconda metà del ‘700. Sono tutte ipotesi più suggestive che scientifiche, anche perché le indagini retrospettive su concetti astratti, come appunto la celebrità, si reggono più sulla persuasione che sui dati, ma hanno in comune alcuni dei tratti che sembrano fondamentali per la nostra indagine: la ricchezza, lo spettacolo e il tormento interiore.
«“Maria Antonietta è Lady D!”. Sul set dove sua figlia Sofia stava girando il film sulla regina francese, Francis Ford Coppola rimase colpito dal parallelismo tra i destini delle due donne». Inizia così il libro di Antoine Lilt, L’invenzione della celebrità, e prosegue spiegando come Maria Antonietta si possa considerare una celebrità ante litteram, costretta a vivere ogni momento sotto gli occhi di tutti, privata di ogni privacy, insofferente al rigido cerimoniale di corte, ostacolata nella sua ricerca di una comunicazione autentica con i suoi contemporanei e il cui ruolo storico, almeno nel film della Coppola, si riduce a un susseguirsi di feste e banchetti. Versailles all’ennesima potenza, insomma. Il palazzo lontano dagli occhi del popolo dove ci si inventava di tutto per riempire l’infinito tempo libero e dove, forse nel modo più chiaro e vistoso della storia, i cuochi dovevano trovare modi stravaganti per far mangiare persone che avevano tutto tranne che fame. Ricchezza, spettacolo e tormento interiore per Maria Antonietta. Che tra l’altro è famosa proprio per una frase sagace (spettacolo) e fintamente ingenua (tormento interiore) sulle brioche. Frase che, va ricordato, non è nemmeno sua.
L’insofferenza di Maria Antonietta fa da modello e tutti cominciano a spostarsi verso Parigi, dove ci sono i giornali, gli spettacoli, la moda e si sviluppa un vero e proprio mercato del tempo libero. Anche i cuochi si spostano in città, seguendo la domanda di mercato e portando le tecniche più raffinate fuori dalle corti. Si assiste così a un primo mescolamento delle classi sociali che fa scattare processi di ammirazione e imitazione che pongono le basi della celebrità in senso moderno. Crolla insomma il sistema che con tanto impegno aveva costruito un secolo prima Luigi XIV, il Re Sole, che ancora riusciva a tenere tutti a bada a Versailles e se veniva a sapere di un bravo cuoco faceva di tutto per accaparrarselo. Come fu per Vatel, l’inventore, presunto, della crema Chantilly.
François Vatel era il cuoco del sovrintendente alle finanze del Regno di Francia, un uomo così ricco (il sovrintendente, non il cuoco) da mettere in imbarazzo Luigi XIV, che decise così di liberarsi di lui facendolo arrestare per corruzione. Vatel, per paura di essere coinvolto nella persecuzione, scappò in Inghilterra e tornò solo dopo che gli fu garantito che non solo non sarebbe stato arrestato, ma che l’avrebbero impiegato a Versailles. Qui venne assegnato al Castello di Chantilly, donde: la crema. C’è anche un film su Vatel che racconta di un suo memorabile banchetto. Film nominato agli Oscar, con Gérard Depardieu e Uma Thurman (Vatel, diretto da Roland Joffé), a conferma che i francesi si sanno, ancora oggi, raccontare meglio, nonostante, per esempio, la crema Chantilly non fosse granché diversa da quella che nei ricettari rinascimentali italiani veniva chiamata neve di latte. In particolare, la neve di latte si trova nel ricettario di Bartolomeo Scappi, dal quale la prese Caterina de’ Medici per portarsela in Francia, insieme a quella più famosa dell’anatra all’arancia, quando sposò Enrico II. La leggenda è nota: Caterina era insoddisfatta della cucina che trovò a Parigi e chiamò i suoi cuochi da Firenze. Quindi, ecco, la cucina francese sarebbe solo una propaggine della nostra. Il gioco dell’origine delle ricette è divertente ma rimane, appunto, un gioco. Ciò che conta, sia per il gusto che per il mercato, è chi lavora meglio con quelle ricette e continua a sperimentare e impara a valorizzarsi. Per dire, la crema sarà anche nostra, ma intanto loro un film su Vatel l’hanno fatto, noi su Bartolomeo Scappi no. Ne abbiamo fatto uno che si intitola Anatra all’arancia, quello sì, ma è una commedia che non c’entra niente con la cucina.
Eppure, di cuochi celebri nella nostra storia ce ne sono parecchi, tre dei quali si chiamano Bartolomeo. Scappi, nato a Dumenza nel 1500, è il riferimento più alto per tutti quelli che sono venuti dopo. Ha servito Carlo V, diversi cardinali e le cucine vaticane sotto due Papi. Il suo trattato contiene più di mille ricette, la prima raffigurazione di una forchetta, descrive preparazioni con le materie prime appena arrivate dall’America e ricette con ingredienti che molti di noi, ancora oggi, guardano con scetticismo, come le zanche di locuste, con cui faceva i ravioli: «Piglinosi le zanche alessate in acqua, mondisino, et pestisino nel mortaro con pignoli che siano stati in molle et datteri freschi et pasta di marzapane; et d’ogni cosa si farà una compositione con zuccaro, uove fresche, menta, maiorana, et pimpinella battute minute et un poco di mostacciolo fatto in polvere, cannella fina pesta, e butiro fresco, mescolata ogni cosa insieme; et d’essa compositione […] se ne potranno fare ravioli». Del gusto delle zampe di locusta rimane ben poco sotto tutte quelle spezie, ma nel Rinascimento si mangiava così e anche lo zucchero era considerato una spezia. Mangiavano così i ricchi, si intende.
Pioniere dei nuovi ingredienti e precursore di tutta la cucina europea, come scrive Pierangelo Frigerio in un saggio dedicato all’aspetto esotico della sua cucina, Scappi «non immaginava che la cucina francese avrebbe nell’Ottocento predominato, volgendo i suoi “consumato”, “pottaggio”, “lista” in consommé, potage e menu, generando inoltre ibridi come il milanese vitèl tonné. A suo modo lo avrebbe vendicato un altro figlio di Dumenza, Vincenzo Peruggia, rubando al Louvre la Gioconda».
Gli altri due Bartolomeo erano: Bartolomeo Sacchi, che rielaborò le ricette di Maestro Martino, il più importante cuoco europeo del XV secolo, nel libro De honesta voluptate et valetudine, poi andato a ruba nelle corti europee; e Bartolomeo Stefani, uno dei maggiori cuochi secenteschi, che scrisse L’arte di ben cucinare e istruire i men periti in questa lodevole professione, in cui per la prima volta compaiono indicazioni su come preparare un vitto ordinario, per dare la possibilità di mangiar bene anche ai ceti sociali più bassi, quelli, per capirci, che non misuravano la loro ricchezza con la quantità di spezie che riuscivano a mettere su una singola zampa di insetto.
Ma se dovessimo scegliere un cuoco della nostra storia su cui varrebbe la pena fare un film come quello su Vatel, probabilmente sceglieremmo Cristoforo di Messisbugo. Cuoco di fiducia di Isabella d’Este, fautore di quello che viene ricordato come il banchetto delle meraviglie che ebbe inizio a Ferrara nel pomeriggio di domenica 24 gennaio 1529, e autore di due libri che godettero di moltissime ristampe, in uno dei quali raccontò, a imperitura memoria, proprio quel banchetto con minuzia di particolari: dalle ricette, alla disposizione dei commensali, fino alle salviette, «con alcuni fiori d’oro e di Seta per cadauna di varij colori profumati». A leggere la lista (il menu) c’è da spaventarsi per le dosi, fuori da ogni proporzione accettabile. Ma i banchetti non erano fatti per nutrirsi, erano una spettacolare esibizione di magnificenza, ostentazione di lusso, ricercatezza e sofisticazione. E infatti c’erano poche pietanze comuni ma sovrabbondanza di prelibatezze pregiate ed eccentriche: ostriche, storioni, gru, quaglie, pavoni e, va da sé, un’infinità di spezie. Messisbugo, e questo nel film va messo, conobbe anche personalmente Carlo V, sposò una nobile e, come Vatel, ha un dolce che gli viene attribuito: la torta delle rose, a quanto pare realizzata come omaggio all’irresistibile bellezza dell’allora sedicenne Isabella D’Este, nel giorno del suo matrimonio. Insomma, abbiamo tutti i nostri ingredienti per la celebrità: la ricchezza e lo spettacolo. Manca forse il tormento, ma ci sono poche informazioni biografiche su Messisbugo quindi qualcosa si potrà inventare, tanto è pur sempre un film.
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Tornando all’epoca di Maria Antonietta, abbiamo altri due cuochi celebri degni di nota. Uno è Francesco Leonardi, autore del libro L’Apicio moderno, che imparò il mestiere a Parigi e poi girò buona parte dell’Europa fino ad arrivare al servizio di Caterina II di Russia, dalla quale però scappò presto perché non sopportava il freddo. La celebrità sì, ma la nostalgia di casa di più: tutto molto italiano. L’altro è Vincenzo Corrado, uno dei più importanti cuochi a cavallo tra ‘700 e ‘800, che si distinse per la sua cultura oltre che per la sua arte. Servì soprattutto a Napoli e scrisse due libri che ebbero un certo successo, Il cuoco galante e Del cibo pitagorico ovvero erbaceo, in cui teorizzava, oltre che illustrarne le ricette, una dieta senza carne. Quest’ultimo scritto nel 1781, diciassette anni dopo che Voltaire, il filosofo più celebre del suo tempo, diventò vegetariano. Purtroppo, non c’è relazione tra questi due avvenimenti, ma per il nostro discorso sulla celebrità, sarebbe davvero perfetto se ci fosse.
Dopo l’800, il resto assomiglia sempre di più a quello che conosciamo. I rotocalchi, la radio, il cinematografo, le stelle Michelin che provano a dare la rassicurazione dell’oggettività, la televisione, Julia Child con la sua voce bizzarra, Ducasse che costruisce un impero, Jaques Pepin che continua per decenni a consigliare per qualche motivo di rompere le uova su una superficie piana, Marco Pierre White che diventa un meme quando usa un panetto di burro dicendo che è poco, Vissani a Uno Mattina, Gordon Ramsey che urla, Gino D’Acampo che dice in diretta TV “if my grandmother had wheels, she would have been a bike”, le pacche di Cannavacciuolo e le ricette quasi ASMR di Max Mariola su TikTok.
C’è uno studio (The Celebrity Chef, Giousmpasoglou et al, 2020), spesso citato, che ha suddiviso i celebrity chefin cinque categorie: il performer (la media star), lo scrittore, l’imprenditore (self brand), il modello di comportamento (fonte di ispirazione) e il ribelle, cioè quello che rifiuta la celebrità nel tentativo di preservare la sua autenticità. Di nuovo, c’è tutto: ricchezza, spettacolo e tormento.
Rimane solo la terza ipotesi, secondo la quale la celebrità dei cuochi nascerebbe nel Satyircon di Petronio. In un passaggio famoso, Trimalcione si imbestialisce perché viene servito alla sua tavola, davanti ai suoi invitati, un porco intero non ancora sventrato. Una mancanza imperdonabile. Fa chiamare il cuoco e lo redarguisce davanti a tutti. Il cuoco però non sembra scosso, ammette la sua colpa e incassa gli improperi rimanendo composto. Poi, al parossismo della rabbia di Trimalcione, il cuoco si decide a porre rimedio, dice che sventrerà il porco sul posto, sfodera i suoi coltelli e squarcia la pancia dell’animale con gesto teatrale facendola esplodere in un tripudio di salsicce, tartufi e colombi che vocano via e ritrovano la libertà. Dal dramma allo spettacolo in un colpo di coltello. Il cuoco viene acclamato da tutti i commensali e dimostra così come il cibo non sia tanto memorabile di per sé, ma sia piuttosto una via d’accesso privilegiata alle emozioni. La celebrità si attribuisce, in fin dei conti, a chi ci fa sognare.
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Tito Livio diceva che Roma cominciò a decadere quando i cuochi cominciarono a essere famosi, loro che fino a poco tempo prima erano considerati al più basso grado della schiavitù. Può anche essere che la decadenza arrivi quando la gente comincia a cercare modi stravaganti di cucinare perché, di fatto, non ha più davvero fame. Ma se esaltarci ed emozionarci con la cucina è più forte di noi e va oltre la nostra volontà, e se goderci lo spettacolo e perderci nel sogno dovesse alla fine costarci il tracollo dell’impero, non è detto che non ne valga la pena. Poi, se qualcuno, quando tutto starà per finire, venisse a ricordarci che ce l’aveva detto, noi diremo quello che Maria Antonietta disse al suo boia dopo avergli pestato un piede per sbaglio mentre saliva al patibolo: «Mi perdoni signore, non l’ho fatto apposta». E questa è davvero sua.