Nella mia famiglia non c’è mai stato un rapporto ideologico e dogmatico con il cibo: la carne brasata con il vino buono fatta cucinare per ore si affiancava alla pizza surgelata, la crostata di mamma con ricotta e cioccolato alle merendine, la salsiccia di fegato ai würstel, le uova della campagna mangiate crude con un po’ di zucchero alle Coppe Malù. Per questo non ho vergogna di ammettere quanto alcuni prodotti o ingredienti industriali siano un rifugio emotivo, al pari delle ricette tradizionalissime delle nonne più conservatrici, proprio quelle che a molti critici, chef e foodblogger farebbero risuonare i ricordi d’infanzia come madeleine.
Tra questi, un posto di rilievo lo hanno le fette di formaggio fuso, note al pubblico con il nome “Sottilette” (anzi: Sottilette®), uno dei prodotti gastronomici più famosi al mondo, reso iconico dalla tv ben prima della scena di Homer Simpson che ne mangia 64 – da solo, di notte, in cucina – mentre il Signor Burns e il Dottor Smithers sono appesi al soffitto con delle ventose nel tentativo di rubare l’orsetto Bobo a Maggie. Ok, forse too much information. Dicevamo.
Dicevamo che la storia delle Sottilette® è anche una storia di marketing, e proprio a partire dal nome. Sottilette è l’antonomasia, identificazione talmente efficace che nel linguaggio comune la parola si associa a qualsiasi fetta di formaggio fuso confezionata singolarmente (non sottile, appunto, ma “sottiletta”, il giusto per far salire la gola): una transizione di significato, da marca a prodotto merceologico, da nome proprio a nome comune, tecnicamente nota come volgarizzazione del marchio. La stessa sorte spettata, per dire, a Scottex, Kway, Scotch (il nastro adesivo, mica il whisky). Il tutto, ovviamente, solo nel linguaggio quotidiano, perché nessun brand può commercializzare un prodotto che si chiama “Sottilette” dato che si tratta di un marchio registrato.
La loro storia inizia con quella dell’invenzione del formaggio a pasta fusa, più comunemente noto come formaggio fuso, quello – per intenderci – anche dei vari formaggini, tondi o a spicchi. L’intuizione è datata 1911 ed è opera di Walter Gerber, che in Svizzera, a Thun, possiede un’azienda casearia. Cinque anni dopo, James Lewis Kraft, che nel mentre ha fondato la Kraft Food a Chicago, brevetta una nuova modalità di produzione del formaggio fuso, adatto alla vendita come pre-affettato, e a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta lancia sul mercato le “Kraft Singles”. Il prodotto incontra alla perfezione il gusto Made in USA per gli hamburger, ed è amore a prima vista. Fun fact: la nuova nata comincia a esser presa tanto sul serio che comincia una battaglia con i produttori di formaggio, che vorrebbero chiamarle “formaggio imbalsamato” proprio per una delle qualità alla base del nuovo prodotto: “conservarsi” più a lungo rispetto a quelli tradizionali.
E in Italia? Da noi arrivano nel 1961, con il nome con cui le conosciamo ancora oggi, e riscuotono subito un successo straordinario. Il merito va alla comodità del prodotto, ma anche, ancora una volta, ad alcune pubblicità molto efficaci. La Kraft sa bene che, per un italiano nel vortice del boom economico, il cibo sta diventando qualcosa di più che mero nutrimento, o sopravvivenza. Così, quando sbarca nello Stivale con le sue singles sostituisce il cheddar del mercato statunitense con i più apprezzati Emmenthal e provolone. Come per tanti prodotti in commercio in Italia, il banco di prova pubblicitario è Carosello: qui vanno in scena i primi spot in cui le Sottilette sono solo un qualcosa da aggiungere al pane per renderli più gustosi. A mettere la faccia in uno dei primi spot è il comico e conduttore Gino Bramieri, che in quegli anni è nel programma tv condotto da Corrado, L’amico del giaguaro. Per Bramieri, le Sottilette sono, ancora, solo qualcosa per rendere più robusto un panino.
La narrazione però cambia pochi mesi dopo, e le fette di formaggio fuso della Kraft diventano un prezioso alleato nelle cucine degli italiani per preparare piatti sempre nuovi e gustosi. Ne è testimone Giorgio Gaber quando, protagonista di uno spot, è invitato a cena da un’italianissima famiglia per bene. Seduto a tavola, rimane folgorato dalla bontà della pasta al forno cucinata dalla padrona di casa. Il segreto, inevitabilmente, è l’uso delle Sottilette®. Sui giornali, intanto, gli annunci non possono fare a meno di notare che “La signora si fida di Kraft”.
Per certi versi, insomma, la storia delle Sottilette® accompagna quella del nostro Paese, e non solo culturale: l’ingresso negli anni Ottanta è anticipato dalla prima espansione di gamma con l’aggiunta di mozzarella che crea l’effetto “fila e fondi”, a cui fanno eco le Piccadolci con il gorgonzola – «Una sottiletta piccante? Piccante ma dolce!». È l’Italia che, buttati alle spalle gli Anni di Piombo, vive una decade ruggente e reaganiana: sono gli anni degli yuppies, dei body fluorescenti da ginnastica aerobica, e le pubblicità delle Sottilette® annunciano spavaldamente che «Tutto può essere arricchito quando il sapore è Sottilette Kraft», mentre mostrano una tavola imbandita con i cibi baroccheggianti di quel periodo. La canzone degli spot tv invece recita «Su un piatto normale o su qualcosa di speciale, per tutti i tuoi pranzi da re o per la cena più veloce che c’è». Sotto, una donna è felicemente intenta a mettere fette di formaggio sopra le uova, sopra alle bruschette, sopra ai pomodori con il riso, e poi le usa per arrotolare gli asparagi, ma anche per creare coni di prosciutto crudo. Eh, gli anni Ottanta. Subito dopo, i Novanta si aprono con il trend light. E in televisione, immolati sull’altare del “benessere”, compaiono i primi avocado.
Giungiamo così al nuovo millennio, che per formaggi e formaggetti industriali significa: “aumento”. Di prodotti (le Sottilette® cremose con ripieno di Philadelphia, quelle senza lattosio, le Burger con il cheddar – circa cinquant’anni dopo), ma anche di toni: nelle pubblicità, le Sottilette® sono «uno sballo», vengono usate per i toast party di «quella scoppiata di mia sorella», e fanno «più parmigiosa la parmigiana» (e noi che ci scandalizzavamo per petaloso). Allo stesso tempo, l’età media dei protagonisti si abbassa e iniziano i paragoni impietosi con le “altre fette”. Nel mentre – nel 2012 – seguendo quanto avviene in Nord America, Kraft Food Italia Srl diventa Mondelez Italia, e il logo Kraft scompare dalle confezioni lasciando spazio al payoff Le Originali.
Ora, io non sono qui a proporvi ricette con il formaggio fuso a fette, né a cercare di farvi passare di mente che una sleppa di pecorino verace, per quanto fonda poco, è sempre meglio che un agglomerato di additivi e tagli di formaggio poco trasparenti. Ma, come dicevo prima, il dogmatismo in cucina va bene come virtù solo se non si è mai passati dalla cucina di una nonna (sì, anche loro) italiana media. Perché, bello cuocere il ragù cinque ore, ma ricordiamoci: l’Italia è una repubblica mangereccia fondata sull’arrangiarsi. E se a un certo punto un prodotto industriale mi semplifica la vita, be’, chi sono io per dire di no.
La Sottiletta®, insomma, oltre che fungere da madeleine (o da trauma, fate voi), per gran parte di noi, è, come il dado da brodo, parte della storia culinaria, e culturale, di un paese che si è ritrovato catapultato nel mondo all’uscita della Seconda Guerra Mondiale. Storia in cui siamo immersi ancora adesso, e a cui ci colleghiamo ogni volta che mangiamo una Sottiletta®, che sia a morsi, ancora fredda di frigo (so che lo avete fatto almeno una volta nella vita), in un toast (infilata a tradimento da un barista pigro) in un hamburger oppure, al prossimo Tupperware party nostalgia a cui sarete invitati, usata per arrotolare la qualunque. L’ennesima “americanata” di cui ci piace dimenticarci? Sì. Però, ammettiamolo: se siete arrivati in fondo a questo articolo, un motivo ci sarà pure.