Immaginate di essere in aereo, settore economy. “Signore e signori, ritarderemo di 30 minuti la discesa dei passeggeri dall’aereo per permettere al Presidente della Repubblica che ha viaggiato con noi di scendere. Grazie per la comprensione.” Vi guardate intorno e il vostro vicino vi dice che il tipo due file davanti a voi, che nessuno si è filato per otto ore volo, è il Presidente della Repubblica. Veloce check su internet, “presidente del Suriname”, immagini… cavolo, effettivamente gli somiglia. Potrebbe succedervi in Italia, Francia, Messico, Nigeria o dove volete voi? No. In Suriname sì.
L’anonimato che avvolge questo Paese del sud America, situato al confine nord del Brasile, grosso come il Portogallo ma con meno abitanti di Palermo, è comprensibile ma non meritato. In Europa lo conoscono bene solo in Olanda, di cui è stato una colonia fino al 1975 e dove vive una grandissima comunità surinamese ben integrata. Vi ricordate i calciatori olandesi Clarence Seedorf ed Edgar Davids? Entrambi sono originari del Suriname.
Geograficamente e culturalmente è considerato un Paese caraibico, ma è fuori da tutte le rotte turistiche perché a corto di spiagge balneabili. Nonostante questo, detiene un record del mondo. “The most forested country in the world”, come ci tiene a farmi sapere l’enorme striscione che fa bella mostra all’aeroporto della capitale, Paramaribo. Il 93% della superficie del Paese è infatti coperta da foresta pluviale tropicale. La jungla, come si diceva una volta. Per dare delle proporzioni: in Italia la superficie boschiva è il 33%.
Arrivare informati e preparati non è facile: è difficile conoscere qualcuno che sia già stato in Suriname e cercando online si trovano solo le solite informazioni buone per il Trivial Pursuite o articoli scarni e datati. Quello che sapevo è che avrei preso parte ad un tour nella jungla (il motivo del mio viaggio), mangiato carne di piranha, e magari visto un giaguaro e che la lingua ufficiale è l’olandese, retaggio della lunga occupazione coloniale. A corto di altre informazioni, avevo in mente di fare un giro in centro a Paramaribo, “tastare il polso della capitale”, e trovare un ristorante di cucina locale dove gustare un menù genuino non contaminato da manie di globalizzazione. Non è andata così. Di ristoranti di “tipica cucina surinamese” se ne trovano molti più ad Amsterdam che qua, dove nessuno sente il bisogno di sintetizzare troppo le tante culture solo per essere immediatamente comprensibile ai turisti.
Il sabato pomeriggio a Paramaribo è una sfilata di saracinesche abbassate e case di legno in stile coloniale. Di aperto ci sono soltanto piccoli casinò – con ingressi pomposi, altisonanti nomi inglesi e sale deserte – e negozi cinesi simili a quelli delle altre capitali del mondo. Alle loro spalle, l’enorme Suriname River, con l’acqua color caffelatte e le barche dei pescatori ormeggiate a riva. Per quanto riguarda i ristoranti: cinese, indiano, indonesiano, Kentucky Fried Chicken, Louisiana Chicken, McDonald’s. Altro che ristoranti “tipici”. Mi arrendo e mi dirigo verso il locale più alla moda, quello con la pagina Instagram sempre aggiornata.
Il Roline’s De Waag, è a due minuti dal Parlamento, architettura coloniale con corte interna, uno dei pochi che mette i prezzi sia in dollari surinamesi che in dollari statunitensi. Ordino un buonissimo mix di zuppa di fagioli neri e pollo, coriandolo, riso e platano arrostito, e poi chiedo (non ho intenzione di arrendermi) dove potrei trovare ristoranti tipici che propongano piatti di cucina locale. La donna alla cassa sorride benevola: «Ne hai appena mangiato uno». In Suriname non esiste una cucina tradizionale, esistono le cucine portate da chi è immigrato nel paese e quelle che si sono sviluppate quando popolazione locale e immigrati hanno iniziato a mescolarsi. Per farmi intendere l’antifona, mi consiglia un ristorante brasiliano.
Al Casarao Bossa Nova arrivo dopo aver percorso una lunga strada popolate da insegne scritte in cinese e interrotte soltanto da un piccolo tempio induista. Qua mi viene presentata come specialità surinamese la Moqueca, zuppa di pesce (di fiume) con latte di cocco, pomodori, pepe, lime e coriandolo e lische a volontà. In tutto il mondo è conosciuta come ricetta brasiliana, mi spiega una cameriera, ma ormai ho capito che questo non rappresenta una contraddizione. A maggior ragione se si considera che il 10% della popolazione del Suriname ha origini brasiliane: decine di migliaia di persone venute per lavorare nelle miniere d’oro e di bauxite, un tempo diffusissime, e parte del motivo per cui nessuno fa il bagno in mare in Suriname. È lì infatti che finivano tutti gli scarti degli scavi e delle lavorazioni.
La verità è che ogni ristorante racconta un pezzo di Paese. Se ti fermi a mangiare una Pinda Soup, tipico piatto delle principali festività, e hai voglia di fare qualche domanda scopri che è una reinterpretazione della zuppa di arachidi importata dalle decine di migliaia di africani costretti a venire in Suriname come schiavi nel XVII secolo. Gli ingredienti sono stati ovviamente adattati: nella versione surinamese si utilizzano molte più spezie, un diverso tipo di burro di arachidi e di pollo, ma la sostanza è la stessa. Quando la schiavitù fu abolita (solo sulla carta) migliaia di persone dall’isola di Java (Indonesia), dalla Cina e dall’India furono costretti a venire a lavorare in Suriname (i discendenti rappresentano oltre il 27% della popolazione). Oggi ristoranti di cucina cinese, indonesiana o indiana puoi trovarli ovunque a Paramaribo e il Roti chicken, un’antichissima ricetta indiana a base di pollo, fagioli, patate e uova, è tra le più famose ricette surinamesi. E ancora, il piatto tipico dei compleanni è il Pom, una casseruola di carne, pomtajer (una radice tipica del Suriname utilizzata al posto delle patate), pollo, cipolla e spezie è stata portata dalla comunità ebraica in fuga dall’Europa che si è stabilita nel paese durante l’Inquisizione spagnola. Insomma, più che una cucina è un esame di storia e i ristoranti fusion, che da noi spesso sembrano nient’altro che un capriccio culinario, qua sono un compromesso inevitabile.
L’altra tappa obbligata di un’indagine culinaria a Paramaribo non può che essere il mercato centrale. Le raccomandazioni sono quelle che valgono per ogni mercato: andare la mattina presto e non portare troppi soldi. Al piano terra di un enorme capannone con vista fiume sono esposti su banchi di legno tutti i tipi di frutta e verdura coltivati nel Paese. Un inequivocabile odore conduce verso il reparto ittico dove pesci di mare si dividono la scena con quelli (più economici) provenienti dai fiumi. E poi carne più o meno macellata, serpenti (non ho osato chiedere se di terra o mare) e riso a perdita d’occhio, cacao, zucchero, salse, stoviglie e granchi vivi. Ai margini, appartate, piccole tavole calde composte da cucina e bancone.
Il terzo giorno è quello della partenza per la jungla, che è l’attrazione principale del Paese (forse l’unica), una vera e propria porta d’ingresso della foresta amazzonica. Le guide sono di etnia Maroon, discendenti degli africani costretti a lavorare come schiavi nelle piantagioni nel XVII secolo e poi fuggiti e stabilitisi nell’interno del Paese. In molti oggi si occupano di organizzare i tour nella foresta. I miei compagni di viaggio, invece, sono tutti olandesi: la famiglia con tre figlie, due coppie, una giovanissima e l’altra appena pensionata e tre viaggiatori solitari. La strada non è cosa per animi impazienti. Cinque ore di bus su una strada color rosso Roland Garros, rovesci d’acqua ogni due ore e ai margini della carreggiata un’interminabile parete verde che ho fissato per ore. Dopo 35 minuti infatti ogni connessione ad internet o possibilità di chiamata era svanita per i successivi quattro giorni.
Prima di salire su una canoa a motore per le successive quattro ore di viaggio sul fiume Coppename, il pranzo è un mix di foresta e città: roll di pollo al curry accompagnato da ananas a chilometro zero. Sulle rive del fiume si danno da fare lontre pelosissime, sopra le nostre teste si ricorrono tucani. Quando la nostra guida, Alex, pronuncia la parola piranha mi riprendo dallo stordimento dell’interminabile navigazione. Il fiume, basta seguire la direzione indicata dal suo dito, ne è letteralmente pieno. Sembra il preludio di racconti sanguinosi e conferme di radicatissime paure occidentali, ma poi la narrazione prende una piega soft: i piranha sono molto meno spaventosi di come vengono raccontati. Ci si può fare “tranquillamente” il bagno insieme, purché non si stia sanguinando: ho visto con i miei occhi tre sorelle olandesi in acqua mentre venivano pescati piranha a 10 metri di distanza con brandelli di pollo come amo. Si narra di alcuni rami della famiglia dei piranha diventati addirittura vegetariani (tutto il mondo è paese). Se proprio ci si tiene a pescarli – non è un pesce propriamente gustoso, né sfidante da catturare – la ricetta (Maroon) da seguire per gustarli prevede disquamazione, salatura ed essiccamento. A questo punto, il piranha essiccato può durare anche un paio di mesi, se tenuto all’ombra, e quando si decide di mangiarlo è sufficiente ravvivarlo con dell’acqua bollente, liberarsi delle lische e gustarsi la pelle, che a quel punto è l’unica carne rimasta (o degna di essere ingerita). Sapore? Salato.
Il nostro alloggio è a Fungu Island – un’isoletta fluviale in mezzo alla foresta dove è stato edificato un lodge, qualche casetta e dove sei persone vivono per tutto l’anno. Le white-faced monkeys si aggirano indisturbate per tutto il villaggio mentre a terra non è raro vedere un armadillo gigante. L’elettricità c’è solo per qualche ora al giorno e il gas si usa per cucinare. Il cibo raccolto in loco, oltre ai piranha, è la frutta, che infatti non manca in nessun pasto: cocco, ananas, acai, mango, pompelmo della foresta amazzonica (molto più dolce di quello che si trova nei nostri supermercati) e guanabana. Il menù varia – comprendendo una zuppa di acciughe a colazione che risveglierebbe un morto – ma quello che non manca mai è il pollo. Fatto a pezzi a colpi di mannaia dalla cuoca locale, sta all’ospite premurarsi di non ingoiarne ossa e frattaglie.
Parlando con Alex, la guida, scopro con sorpresa che anche da quelle parti il turismo ha vissuto giorni migliori: c’è stato un tempo in cui i turisti arrivavano direttamente in aereo, ed è quello che la racconta la pista di atterraggio abbandonata dell’isola il cui spazio la foresta si è già ripresa. “Con l’aereo era un viaggio di un’ora da Paramaribo” mi spiega Alex. “Poi il governo ci ha tagliato i fondi e la pandemia ha fatto il resto”. Oggi quella che era la casetta da cui si gestiva la pista di atterraggio è abbandonata. L’unica ragione per avvicinarsi e dare un’occhiata sono le tarantole che la infestano. Ma non è il caso di perderci sopra il buonumore, perché qualcosa di buono può succedere da un giorno all’altro.
Non ci sarebbe da stupirsene in un Paese dove, passate le crudeltà coloniali, chiunque sia arrivato ha portato un pezzo di sé e chi è venuto dopo, o già c’era, non s’è preso la briga di buttarlo giù solo per sostituirlo con qualcosa di suo. Per questo a pochi metri di distanza, a Paramaribo, convivono la chiesa cattolica in legno più grande al mondo, la moschea più capiente del Sud America, una sinagoga e un tempio induista; il piatto tipico dei compleanni è ebraico, quello delle feste indiano e i ristoranti più diffusi sono quelli cinesi. Tante persone così diverse sono arrivate e sono restate, anche se il mare ha il colore del petrolio, la foresta ogni giorno prova a riprendersi il tuo giardino di casa e la gente non naviga certo nell’oro. Il miglior modo per capirci qualcosa è sedersi a tavola e mangiare. Quello che c’è.