Makoto no michi wo mamoru koto: difendi le vie della verità. La frase proviene dal secondo principio del Dojo Kun del karate shotokan, insieme di mantra di perfettibilità per i praticanti della disciplina ed “etichetta” da indossare una volta entrati, appunto, nel dojo. Non sfigurerebbe, però, nemmeno sulle pareti, ben diverse, che ospitano The Night Shift, il ciclo di incontri by Milo Occhipinti, Mario Farulla e Anastasia Artamonova pensato per creare supporto e unione nella bar industry. Che avviene rigorosamente con il favore delle tenebre, rigorosamente con una sola regola – anzi, forse due: what happens at the night shift stays at the night shift; e il rispetto, in ogni sua forma. Quando l’orologio batte le tre del mattino e i banconi staccano il giro della staffa, è lì che comincia il “turno di notte”. Che con l’alcol, però, non ha nulla a che fare. Varcando le porte di Unseen, di fianco alla stazione di Lambrate a Milano, le coordinate è bene lasciarle da parte. E prepararsi, anche oltre il gioco di parole con il nome del locale, a qualcosa di mai visto: bartender seduti attorno a un social table, con qualche pizza presa d’asporto e una tisana calda, per discutere a cuore aperto di tutto ciò che il lavoro obbliga a metter da parte. Ovvero, loro stessi.
Non si pensi a un comizio però, o a un’assemblea disordinata. Parleranno prima gli ospiti, poi la conversazione sarà aperta a tutti i presenti. Perché come un dojo ha le sue regole, così The Night Shift. Non è un caso che Artamonova lo definisca «una terapia di gruppo». La vibrazione è quella, la volontà di essere accettati e di accettare gli altri scorre, si rileva. Complice, anche, la serata tematica, indetta in onore delle contraddizioni e guidata da uno di quelli che la mixology milanese, negli ultimi anni (venti, circa), l’ha ricostruita alle fondamenta: Edoardo Nono di Rita & Cocktails, prima, e (anche) di Rita’s Tiki Room dopo. Non qui in veste di maestro – nessuno, dalle parti del Night Shift, si pone su alcuna cattedra – ma, come se fosse un Ted Talk senza la noiosa regola del minutaggio, di testimone. Di sé, innanzitutto, delle contraddizioni che si porta dentro. E poi di tutta un’industria che, sempre più liquefatta dal contatto con i social, rischia di dimenticarsi il punto in cui tutto comincia: l’estasi per un Gin Zen (rimanendo sui lidi dei Navigli), l’euforia di aver trovato un linguaggio in cui esprimersi, e accorgersi di padroneggiarlo niente male.
Sincerità, dunque, tra i pilastri di questo tempio, via maestra per generare valore umano per sé e per l’ambiente in cui ci si inserisce. E “give back”, restituire quanto si è imparato, spesso a proprie spese. Occhipinti, genitore di Unseen, ne sa qualcosa. Sia perché il suo locale è nato nella sincerità più totale, purezza che alcuni chiamerebbero radicalità: drink list non passibile di modifiche, no bottigiliera, attenzione fuori dal comune per la sostenibilità, messa in campo attraverso fermentazioni degli scarti e un giardino idroponico in house da cui rifornirsi di alcuni degli elementi vegetali presenti nei cocktail. Sia perché «l’idea è partita da me, circa lo scorso novembre. Da un po’ di tempo percepisco una sorta di spaccatura tra la nuova e la vecchia guardia del mestiere, non solo generazionale o di stile, ma più subdola: i giovani idealizzano i professionisti in attività da più tempo di loro, e questo crea una distanza, un distacco non solo tra parti di una stessa industria, ma anche tra il sogno di un mestiere e la sua realtà. Noi, e con questo intendo chi, secondo i più giovani, “ce l’ha fatta”, siamo un percorso di fallimenti. Se non lo vedono si crea una dinamica tossica non solo per loro in quanto persone prima che professionisti, ma per tutta la industry, che non progredisce».
Da lì a eleggere i propri compagni di viaggio, il passo è stato breve. Il romano Farulla, per esempio, proprietario di Dirty Milano e tra i nomi più giustamente noti della mixology italiana, la bar industry l’ha respirata fino alla saturazione. C’è chi se lo ricorderà da Baccano in capitale, con giacca e cravatta; e chi, invece, l’avrà incrociato di recente, libero di un ruolo sociale che era «perfetto» per lui, ma che non gli calzava più. «Allora ho scelto me, nel bene e nel male». Sale sul tatami così, l’attacco è poderoso. «Sono sempre stato un troublemaker, quella è la mia anima, non importa come la ricopra. E per rivelarla, prima a noi stessi che agli altri, dobbiamo astrarci da ciò che ci diciamo voler essere, o diventare, e cominciare a concentrarci su ciò che siamo». Il che significa, per Farulla, tracciare una divisione netta tra lavoro e vita privata. «Il presenzialismo è sterile, soprattutto nel nostro lavoro. Se sei bravo, se hai qualcosa da dire, prima o poi arriva qualcuno a sentirti. Non bisogna agire punzecchiati dall’ansia, specie se è ansia da prestazione, o la voglia di spaccare, di diventare per forza qualcuno». Ecco, parlando appunto di contraddizioni.
Da questa linea, e cioè dalla differenza tra essere e apparire, ambizione e felicità, parla anche l’imprenditrice Artamonova: «Le contraddizioni per noi sono i dissidi, la differenza a volte difficile e dolorosa che percepiamo tra nostro interno ed esterno. A volte insorgono perché percepiamo una parte oscura dentro di noi, che ci porta in una direzione in cui non vorremmo andare. Bisogna accettarla, guardarsi in sincerità. Solo così non saremo abbagliati dai sogni, e capiremo che la felicità può essere racchiusa anche nelle cose semplici, e piccole. È una metafora forte, ma per superare questa contraddizione a volte bisogna solo bruciare la propria casa, nel senso, dimenticarsi della zona di comfort che ci siamo costruiti attorno. E poi ricostruirla, ricominciare».
«Anche perché», si unisce Farulla, parafrasando i principi di questo Dojo, «non conta mai il risultato. Magari parlo solo per noia, perché io certi risultati li ho già raggiunti [le creature nelle sue mani sono finite in 50 Best Bars, Tales of Cocktails e Top 500 Bars, ndr]. Ed è giusto che un professionista, se vuole, possa inseguire quella strada. Guardadomi indietro, io mi faccio solo due domande: ma perché non ero, qualche volta, anche a farmi le vacanze? E perché spendevo tutto quel tempo con persone che alla prima occasione sono spariti dal mio giro di conoscenze?»
La filosofia di questo Dojo comincia a delinearsi. All’affondo, però, ci penserà Edoardo Nono, che esordice senza mezzi (e sincerissimi) termini: «Mi sento molto fortunato ad avere mia moglie con me. Io, però, gliel’ho detto il primo giorno: il lavoro è la mia priorità». E da un grande amore (quello per il bar) derivano grandi volontà. Per esempio la dedizione, «prendiamo un campione come Sinner: arriva lì, certo, ma guardate che lavoro ha dietro. Oggi mi sembra che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca. Se vuoi diventare un nome, invece, il culo te lo devi fare, e a voglia pure. E devi usare bene il tempo, perché una carriera si costruisce con tanti errori ma anche con una bella serie di passi giusti, e gli uni arrivano solo dagli altri, e viceversa».
Ok, forse più che un Dojo, ora The Night Shift ha preso l’aspetto di un Bootcamp, corso accelerato di tips & tricks da portarsi a casa – e in effetti, come sottoliena Occhipinti ai presenti, sfruttatela questa occasione di avere Edo Nono a tavola con voi, e non dietro quell’altro tavolo che si chiama bancone del bar, perché le chiacchiere sono infinitamente diverse. Esempio su tutti? Ragazzi, piano con il jigger, è scolastico, fa perdere la mano, e comunque va a finire che la misura delle parti, nel bicchiere, viene comunque storta.
«C’è molta scolastica nel bartending di oggi, nel senso che tecnicamente puoi essere il più forte, però il bancone si deve vivere. È un equilibrio subdolo, mi spiego: non siamo più nei decenni dei guéridon e dei servizi alla russa, per fare il paragone con la sala di un ristorante. Però non dobbiamo perdere quel fuoco. Porto un altro riferimento pratico: i pre-batch vanno molto di moda, no? Perfetto, possono essere utili, ma rimane il fatto che spesso li segue solo un bartender, e chi è attorno a lui non impara. Ah, e poi lo shaker: che fine ha fatto lo shaker? Perché nessuno lo usa più?»
Domande a cui, per rispondere in sincerità, potrebbe servire tempo. Magari quello che servirà per arrivare al prossimo episodio di The Night Shift, in programma per il 23 aprile, sempre alle 03:00 (quindi, in realtà, il 24), sempre ad Unseen, con nuovi ospiti e nuovi temi. Poi una puntata a maggio, poi si vedrà. Per ora, parola di Occhipinti, l’orizzonte temporale è questo qui. Meno male che il Dojo Kun si pratica tutta la vita, e non solo sul tatami. Meno male che ci sarà tempo di riflettere, fare e disfare. Una volta qualcuno andava in giro a dire che niente di buono può capitare dopo le due del mattino. Finalmente possiamo sconfessarlo: qualcosa capita, ha una location, e si chiama The Night Shift.