In M – Il figlio del secolo, la serie appena partita su Sky e NOW, la musica di Tom Rowlands non è solo un accompagnamento. È un elemento viscerale, che penetra nella narrazione e scava nei meandri di un periodo storico violento, sospeso tra passato e futuro. La colonna sonora della serie, fondendosi con l’estetica operistica di Joe Wright, non si limita a tradurre l’intensità del libro di Antonio Scurati, ma ne diventa un’estensione, un linguaggio autonomo che racconta la brutalità del fascismo in chiave universale e senza tempo. Il compositore britannico, noto per il suo lavoro con i Chemical Brothers, ha saputo incanalare la violenza politica della storia e l’ascesa di Mussolini dando vita a un suono che fonde elettronica, orchestrazione classica e riferimenti futuristi. La scelta di un linguaggio sonoro contemporaneo e sperimentale, distante da facili anacronismi, riecheggia gli ideali futuristi, dove la musica si fa rumore, tensione e potere.
Un sound che non esprime solo l’immagine del Duce, ma ne incarna la violenza fiutata da colui che sa comprendere il tempo che avanza, portando lo spettatore a rivivere una tensione palpabile, un’irruenza sonora che taglia la scena come una lama. In questa intervista, Rowlands ci racconta il processo creativo che lo ha portato a costruire una partitura sospesa tra l’intensità del passato e le previsioni di un futuro disturbante. Un lavoro che, come fece il fascismo stesso, usa la musica come strumento di persuasione, di controllo e di violenza.
La colonna sonora di M non si limita ad accompagnare le immagini, ma sembra veicolare perfettamente il modo in cui Scurati definisce il tempo di Mussolini. Quali sono state le indicazioni che ti ha fornito Joe Wright e come hai lavorato per trasformare il suono in un linguaggio narrativo e anche politico?
È stata sicuramente una sfida molto interessante, soprattutto perché si trattava di lavorare a qualcosa di molto distante da ciò che avevo realizzato fin ad ora come compositore. Quando Joe mi ha parlato per la prima volta del progetto mi ha inviato il libro di Scurati ed era veramente mastodontico. Nonostante abbia studiato Storia all’università e in generale mi sia sempre interessato a certe tematiche, si trattava di trasporre un’opera molto impegnativa soprattutto per il periodo storico e per il personaggio che analizza. Durante le conversazioni con Wright, ho compreso che potevo veramente discostarmi dalla mia forma mentis musicale e intraprendere una nuova sfida in un modo completamente differente. Da quando mi è stato inviato il libro fino all’arrivo degli script definitivi ho iniziato a lavorare su degli aspetti che si potevano adattare perfettamente all’intensità e al ritmo dell’opera stessa. Penso che M – Il figlio del secolo sia un libro molto impegnativo da leggere, già di per sé ricco di informazioni molto dettagliate, e anche nella serie ci sono molti concetti da analizzare e molti temi significativi da musicare. Per questo la colonna sonora non doveva rimarcare per forza il periodo storico raccontato, ma doveva essere un elemento sospeso e di congiunzione all’interno di una realtà aliena che potrebbe tranquillamente ripresentarsi. La scelta di orientarmi verso una composizione elettronica era il modo per mettere in scena come tutto questo sia fortemente attuale. Oltretutto la scelta di fondere l’elettronica con elementi acustici e orchestrali appartenenti al passato si è dimostrata essere il twist perfetto per elaborare nuove sonorità da congiungere perfettamente alla realtà contemporanea. Era lì che volevo portare lo spettatore.
Hai creato una partitura che incarna una violenza quasi disturbante, anche rispetto al modo in cui Mussolini dialoga con il pubblico. Come hai bilanciato questi elementi affinché il suono non sopraffacesse la narrazione ma ne dettasse il ritmo e l’evolversi della storia? Vedendo la serie, si può osservare come la musica detti effettivamente il ritmo della storia, ma anche l’evolversi del movimento fascista attraverso la violenza.
È stato senz’altro un periodo storico molto violento, e lavorarci mi ha davvero colpito. Era scioccante, e credo che fosse proprio questo l’intento della serie: trasmettere fisicamente e verbalmente quell’impatto brutale. Mentre lavoravo, la mia mente si divideva tra due approcci. Da una parte pensavo: come posso musicare tutto questo? Come posso catturare il dinamismo, il movimento e il ritmo di queste scene? In questo senso, il supporto di Joe e del montatore (Valerio Bonelli) è stato fondamentale. Joe ha un legame fortissimo con la musica, è un maestro in questo senso. È una persona che comprende la musica in profondità: pensa che, ai tempi in cui stavamo esordendo come Chemical Brothers, veniva con noi in tour per aiutarci con le proiezioni e i filmati che utilizzavamo durante i concerti. È uno che ha davvero il ritmo nel sangue, e questa sensibilità si riflette nel modo in cui dirige i suoi film. Spesso capitava che io proponessi un’idea musicale per una scena e poi lui rielaborasse il montaggio seguendo il ritmo scaturito dalla mia composizione. È stato un processo continuo di scambio e affinamento. Dall’altra parte, però, ero veramente scosso dalla violenza inaudita che dovevo rappresentare musicalmente: scene incredibili, brutalità esplicite come teste mozzate… È stata un’esperienza veramente intensa.
Prima hai spiegato come nella colonna sonora di M convivano due anime: quella operistica e quella elettronica. Quanto è stato importante per te, nella costruzione della colonna sonora, stabilire un legame con i princìpi del futurismo che si legava anche agli ideali fascisti? E come hai lavorato per rappresentare, attraverso la tua musica, la violenza della rivoluzione e del fascismo in una maniera universale e senza tempo? E te lo chiedo considerando anche il contesto politico attuale in Europa…
Sicuramente ho cercato di trasportare la mia cifra stilistica all’interno di questo mondo. La musica che ho creato era ovviamente pensata per raccontare questa storia. Doveva essere parte integrante di questo progetto, di questa visione. È stato senza dubbio un compito molto difficile, una sfida come dicevo prima. Volevo mettere in evidenza e far comprendere al pubblico come il populismo sia ancora oggi una realtà della nostra società, e come il modo in cui si manifesta sia sostanzialmente lo stesso. È sicuramente un tema complesso da affrontare. Ho lavorato molto su questo aspetto della serie, e sentivo che c’era una certa importanza e significato in quello che stavo facendo. Come hai detto, la musica cerca di trasmettere qualcosa, ma è sempre al servizio di ciò che Antonio (Scurati) e Joe hanno creato con il libro e il suo adattamento. Ovviamente c’era un motivo preciso per cui questo libro doveva essere scritto. E per me è stato interessante quando sono arrivato in Italia, alla fine dell’estate, e l’ho visto nelle vetrine delle librerie, posto in primo piano. Questo libro, che è intellettualmente impegnativo, con tutte quelle informazioni così dense, era lì, al centro del dibattito in Italia. L’ho trovato un fatto interessante, perché la gente sembrava essere coinvolta con questa storia. Il libro, alla fine, ci mostra come i leader populisti riescano a salire al potere utilizzando effettivamente ogni mezzo a loro disposizione.
Penso che la tua musica e in particolare l’uso che fai della techno all’interno della serie sia importante non solo a livello estetico, ma possa anche mettere in risalto come un certo suono possa essere sia un elemento, diciamo così, rivoluzionario che di controllo.
Ricordo di aver letto del manifesto del compositore e pittore futurista Luigi Russolo, L’arte dei rumori (1913), e di come si proponeva di rivoluzionare la composizione musicale proprio attraverso l’inserimento di elementi urbani e tecnologici in modo da condizionare l’orecchio a pensare in quel determinato modo. Penso di averne sentito parlare per la prima volta proprio attraverso i pezzi dell’omonima band britannica (Art of Noise), che si ispirava alle teorie enunciate da Russolo, e mi sono sempre chiesto da dove provenissero. Per me è stato un momento di rivelazione, un’idea incredibile: il rumore, la musica, possono essere un caos organizzato, e questa cosa mi ha davvero colpito. Non conoscevo la storia, non sapevo da dove venisse, ma come concetto mi ha lasciato realmente a bocca aperta, soprattutto per come si coniugava perfettamente con il nostro processo. In un certo senso, si collega in modo strano alla cultura del campionamento e a tutte quelle teorie secondo cui se trovi la giusta disposizione di suoni, diventa musica. Adoro quest’idea, è un concetto che sta al cuore del mio approccio compositivo. E quindi, sì: sicuramente ho sentito che c’era un motivo per cui Joe pensava che fossi la persona giusta per questo lavoro. Vedo questa colonna sonora come una combinazione di tanti elementi che, come dicevi anche tu, fondono l’elettronica con elementi acustici e digitali, e questa è una cosa che c’è sempre stata nella mia musica, e penso si rifletta molto nel lavoro realizzato per la serie. Abbiamo cercato di creare questo mondo storico, ma anche un mondo di strumenti veri, strumenti che puoi associare a quell’epoca come i violini, addirittura le campane. Ma poi li abbiamo messi nel mio mondo, o nel mondo di oggi, insieme all’elettronica e alle tecniche più moderne. Perché questo libro è un libro storico, ma è anche un libro sul presente, ed è per questo che esiste adesso.
Alcuni momenti sembrano trasformarsi in veri e propri atti musicali, come se ci si trovasse di fronte a un’opera musicale. Questo passaggio dal narrativo al coreografico è intenzionale?
Assolutamente, penso che sia proprio una delle caratteristiche principali del cinema di Joe. Se guardi tutti i film che ha realizzato, noterai sempre una sensibilità incredibile per la musica. Ci sono dei momenti in cui solo attraverso di essa ci si riesce a spingere verso un’altra dimensione percettiva, e credo che questo avvenga anche nella serie. Sul perché anche la violenza più esacerbante sia in qualche modo coreografata, dovresti chiederlo direttamente a lui (ride). Ma credo che allo stesso tempo questo aiuti anche la mia musica a muoversi perfettamente nello spazio circostante.
La musica sembra quasi incarnare Mussolini, con un ritmo che si sovrappone ai suoi discorsi, trasformandoli quasi in performance musicali. Qual è stato il tuo approccio per costruire un legame così stretto tra il protagonista e la partitura?
Sicuramente ho provato fin dal principio a far coesistere questi due aspetti legando la mia composizione al corpo dello stesso Mussolini. Ricordo che, ancor prima di vedere Luca Marinelli in scena e basandomi unicamente sul libro e sulla sceneggiatura, ho creato uno dei temi principali della serie che suona letteralmente così: “duh duh duh duh, duh duh duh duh, duh duh“. Dopo l’ho fatto ascoltare a Joe e abbiamo convenuto entrambi che al suo interno ci fosse proprio la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di pericoloso, una minaccia incombente, che era allo stesso tempo figlia del passato e del futuro. Ci sono più elementi compositivi che, credo, comunicano perfettamente quest’idea. Mussolini è sì una persona carismatica, ma è quasi una caricatura di sé stesso. Però non puoi renderlo una figura di puro divertimento, perché subito dopo ti ricordi della violenza terribile e delle cose spaventose che ha fatto per arrivare al potere. Ecco, con quel tema ho cercato di comunicare entrambe le cose. È una melodia accattivante ma allo stesso tempo violenta. Penso che questo sia ciò che la serie cerca di fare in generale: non dipingere Mussolini come una figura che ha fatto anche delle cose buone, ma come colui che ha ottenuto il potere attraverso il sacrificio di molte vite e con la distruzione della democrazia. Leggendo il libro, tutto questo diventa chiaro, e sono stato fortunato a parlarne con l’autore: è stata un’opportunità per avere un’idea chiara e reale di come Mussolini sia arrivato effettivamente al potere.
Quando hai iniziato a lavorare su questa colonna sonora, hai notato delle differenze rispetto al lavoro che fai solitamente con i Chemical Brothers? Pensi che ci sia una differenza importante, ad esempio, tra la musica che veniva composta per i film in passato, per esempio a Hollywood, e quella di oggi? E per te, queste differenze sono rilevanti?
Sì, certamente. È come se la musica fosse sempre connessa. La musica dei Chemical Brothers rappresenta il mio modo di vedere le cose, ciò che amo della musica, il mio approccio nel crearla e il modo in cui i suoni si manifestano. Non posso distruggere il mio Dna, il modo in cui percepisco le cose e come penso che dovrebbero suonare. Ovviamente questo progetto era molto diverso rispetto al modo in cui lavoro tutti i giorni nel mio studio, ma è anche ciò che più mi piace del creare colonne sonore. Ad esempio, proprio per M poterla seguire fin dalla sua genesi mi ha permesso di comprendere come poter comunicare con la musica ciò che il pubblico avrebbe potuto vivere sensorialmente, e credo che non ci sia cosa più liberatoria di questa. Creare musica per immagini è una forma d’arte a sé stante. Quando mi siedo a fare musica in studio con i Chemical Brothers, o per un live come quello a Glastonbury, penso: “Può essere qualsiasi cosa”, e si apre un mondo intero di idee. Mentre con una colonna sonora è tutto molto specifico: devi comunicare un’emozione precisa in un momento preciso. E questo mi piace, perché a volte, nel mio modo di comporre per la band, tutto è possibile e può diventare quasi travolgente. Quando si tratta di lavorare su una colonna sonora, mi piace molto questo processo inverso, questo cercare di catturare emozioni molto specifiche. E su questo progetto è stato qualcosa che non avevo mai fatto prima. Non mi ero mai confrontato con un mondo così violento.
Pensi che rispetto all’industria discografica nella musica per immagini ci sia più libertà di sperimentare?
Sinceramente non saprei, anche perché con i Chemical Brothers ho sempre potuto fare tutto ciò che volevo. Ma apprezzo anche il cambiamento. A volte, però, troppa libertà può essere quasi paralizzante. Perciò ti ritrovi sempre a mettere in dubbio cosa poter fare dopo. Mentre, per quanto riguarda le colonne sonore, è liberatorio. Mi piace la collaborazione che si viene a creare tra i vari reparti, e adoro lavorare con i registi. Il mio ruolo in questo caso era cercare di realizzare la visione di Joe, e poterlo fare attraverso la mia musica è la parte che mi ossessiona e che amo di più. Ma sai, fai comunque parte di qualcosa di più grande. Mentre nei Chemical Brothers è il nostro progetto. E siamo noi a decidere ogni elemento. Tutto è sotto il nostro controllo.
Il rapporto tra musica e potere è centrale nella serie. Come hai reso la musica un veicolo di tensione, controllo e persuasione evitando l’effetto didascalico?
Penso che le tre parole che hai usato per descrivere la musica in M siano perfette. Come dicevo prima, c’è un bilanciamento tra il carisma e l’essere trascinati in un’idea, un’idea che la musica riesce a veicolare con una potenza simile. Ti fa entrare in questo flusso e poi, all’improvviso, ti svegli, come se ti fossi sorpreso di dove sei arrivato. Come dici, c’è una violenza coreografata in tutto ciò: guardi la scena e la musica ti porta, ti trascina, e poi, mentre ci lavori sopra, ti accorgi che ti stai concentrando tanto sugli aspetti tecnici, su come tutto scorre, e poi ti rendi conto: “Tutto questo è successo davvero questo”. È quasi come se il progetto ti colpisse di sorpresa. L’idea centrale del libro e della serie è quella di ricordarti continuamente che quello che stai vivendo non è un periodo immaginario, ma qualcosa di incredibilmente e drammaticamente reale. Le parole pronunciate dai personaggi non sono inventate, ma autentiche. Come dici, bisogna bilanciare tutto questo, quella tensione costante, perché il mondo che viene descritto è oscuro, claustrofobico, denso, intenso. Non si tratta di una visione facile, ma di un’esperienza complessa, e con la musica ho cercato di amplificare questa sensazione. Il nostro obiettivo era proprio quello di far avanzare il pubblico nella storia, in modo simile a come fa il libro. Ma, allo stesso tempo, speriamo che la musica faccia lo stesso: trascinare avanti lo spettatore, come dici tu, quasi come una coreografia in cui ti lasci coinvolgere ma poi, all’improvviso, ti fermi e ti chiedi: “Cosa sto guardando veramente?”. Ti ritrovi a guardare qualcosa di affascinante, ma anche disgustoso. Ed è proprio lì che entra in gioco la musica, perché riesce a gestire quella tensione e a guidare le emozioni. È stato un progetto davvero interessante dal punto di vista musicale, non mi era mai capitato di affrontare una sfida simile. Comunicare emozioni così intense attraverso la musica non è mai facile. E sì, è stato un percorso complesso, a volte ho avuto dubbi, soprattutto quando ci siamo trovati con otto episodi da affrontare. Ero quasi certo che non ce l’avrei fatta. Ma alla fine sono felice di aver continuato. È stato importante, ed è anche stimolante pensare che questa connessione musicale possa parlare a una nuova generazione. Non solo al passato, ma forse anche al futuro, aiutando chi ascolta a comprendere tutto ciò avvenne in quel momento nerissimo della Storia.