Donbass (2018) di Sergei Loznitsa
Dopo la proclamazione della Repubblica di Crimea, di fatto federata alla Russia, nel 2014 e gli accordi di Minsk siglati (e mai rispettati) tra Russia e Ucraina nel 2015, l’ondata dei nostalgici dell’URSS finanziata da Mosca ha iniziato a farsi sentire anche nel Donbass (con tanto di dichiarazione di indipendenza e referendum per la secessione). Il regista ucraino Sergei Loznitsa (premio per la regia a Un Certain Regard 2018) canzona la natura corrosiva di questa guerra ibrida, che contrappone i nazionalisti ucraini ai sostenitori della Repubblica popolare russa di Donetsk girando un manuale di sopravvivenza in 12 lezioni, dove la brutalità e le contraddizioni crescono di capitolo in capitolo. Una black comedy in cui il grottesco e il dramma sono intrecciati come la vita e la morte, in un mondo perso nella post-verità e nelle false identità. Una farsa anti-militarista e anti-russa da cui però nessuno esce davvero pulito. E come potrebbe, quando anni di corruzione, umiliazione e manipolazione hanno tirato fuori il peggio da entrambe le parti?
Bad Roads (2021) di Natalya Vorozhbit
Presentato alla Settimana della Critica veneziana nel 2020 e in parte ispirato a testimonianze reali, Bad Roads nasce come pièce teatrale rappresentata anche alla Royal Court di Londra. Come Loznitsa, pure la debuttante (al cinema) Vorozhbit presenta al mondo l’angoscia per la storia recente dell’Ucraina, l’impatto dell’annessione russa della penisola di Crimea e delle ostilità con la Russia. Ma anche qui una sola vicenda non è sufficiente, ne servono almeno quattro per illustrare l’insopportabile clima di paura nella regione e le strategie di sopravvivenza dei civili, tra promesse di una nuova rivolta popolare, povertà e problemi con i rifornimenti, gangsterismo e corruzione. L’idea che il Donbass sia diventato un inferno sulla terra si riflette nella luce che svanisce storia dopo storia. Il luccichio del caldo estivo del primo capitolo su un preside che viene fermato a un posto di blocco per un malinteso si spegne nell’oscurità dell’ultimo, dove una donna investe un pollo e si ferma alla fattoria da cui l’animale proveniva per pagare i danni, solo per imbattersi nell’avidità dei proprietari. Una situazione può improvvisamente passare da ordinaria a pericolosissima in una società in cui sfiducia è diventata la parola d’ordine.
Klondike (2022) di Maryna Er Gorbach
Premio come miglior regia al Sundance di quest’anno, è la storia di una famiglia ucraina che vive al confine con la Russia nel 2014, durante l’inizio del conflitto. Ed è anche la testimonianza che una guerra può essere combattuta in due modi. La strada più ovvia, tradizionalmente maschile, è quella di battezzare una schieramento e imbracciare le armi. Irka, moglie incinta di un contadino, sceglie invece di combattere quella guerra semplicemente resistendo a caos, terrore e retorica, e rifiutandosi di lasciare casa anche se il villaggio viene invaso dalle forze armate. I disordini politici si uniscono a quelli personali senza compromessi nel mostrare il grave impatto del conflitto sulla popolazione della regione: prima, quando un mortaio piazzato nel punto sbagliato dai separatisti antiucraini locali fa un buco nel muro esterno della fattoria; poi, il 17 luglio 2014, quando un volo passeggeri della Malaysia Airlines viene abbattuto da un missile terra-aria nei cieli del Donbass, uccidendo quasi 300 persone e distruggendo gli averi di Irka e del marito.