Wes Anderson è venuto a Milano a presentare l’attesissimo The French Dispatch (of the Liberty, Kansas Evening Sun), nelle sale italiane da giovedì 11 novembre. Ecco le sue dichiarazioni più gustose.
Sull’ispirazione ‘giornalistica’ del film
«Ho sempre amato il New Yorker, quella è l’ispirazione principale. Lo leggevo da ragazzo, e col tempo mi sono interessato alle persone che ci lavoravano e che ci lavorano, e mi è venuta la voglia di raccontare la realtà dietro la rivista. Sono sempre stato affascinato dai racconti brevi all’inizio del giornale, erano lavori di fantasia che hanno cambiato la narrativa dell’epoca. The French Dispatch è presentato come un film sul giornalismo, ma in realtà è fatto di racconti immaginari come erano quelli del New Yorker. Non è una lettera d’amore nei confronti del giornalismo, anche se continuo a comprare e leggere i quotidiani tutti i giorni: è solo un omaggio a qualcosa e a qualcuno che ammiro, e quell’omaggio è così evidente che lo dichiaro come in una nota a piè di pagina. Rubo sempre qua e là per migliorare i miei film, e stavolta l’ho fatto dal New Yorker e i suoi giornalisti».
Sulla Francia e sulla location
«Un’altra idea alla base di The French Dispatch era che volevo da tempo fare un “film francese”, con un cast principalmente locale. Abbiamo girato in lungo e in largo, io e il mio scenografo Adam Stockhausen, per trovare una città che avesse una storia ma che non fosse troppo grande, in cui poter girare tutto il film. Angoulême (dove è stata ricreata la fittizia Ennui-sur-Blasé, ndr) si è rivelata perfetta. Ha un fascino antico, da vecchi set cinematografici, ma si prestava anche ad essere trasformata: abbiamo cambiato certe strade, certi vicoli, e ricostruito un po’ di ambientazioni. La gente del posto ha partecipato al film: quando abbiamo fatto lì la prima di The French Dispatch, abbiamo riempito due sale solo con i cittadini di Angoulême».
Sulla scelta del bianco e nero
«Il mio primo film, un cortometraggio (Bottle Rocket, che ha poi ispirato il lungometraggio omonimo del 1996, ndr), era in bianco e nero, dunque quell’estetica mi è sempre piaciuta. Di recente ho fatto una chiacchierata con un regista che ha girato una ventina di film, tutti in bianco e nero e in formato 4:3. Per lui è l’unica scelta possibile: dice che è un modo per “semplificare” l’immagine e per garantire sempre una sorta di bellezza. Non è la mia posizione sul tema: anche in The French Dispatch, in cui ho usato principalmente il bianco e nero, passo spesso al colore e cambio continuamente formato. Ma in certi momenti la scelta del bianco e nero è stata obbligata: per il personaggio di Benicio del Toro (l’artista-detenuto Moses Rosenthaler, ndr) avevo in mente Michel Simon, un attore francese che non ho mai visto a colori, ma solo in film in bianco e nero. Quindi non potevo immaginarlo diversamente. E poi il bianco e nero ti porta a riflettere molto di più sulla luce. Ho lavorato molto con il mio direttore della fotografia (Robert Yeoman, ndr): con il bianco e nero bisogna studiare ogni volta la luce giusta perché, per esempio, un oggetto risalti nell’inquadratura. Mi ha dato grande gioia poter utilizzare tutte queste tecniche diverse, lavorare in modo ancora più stretto con il direttore della fotografia, lo scenografo…».
Sulla matrice italiana del film
«Nella colonna sonora ho voluto un brano di Ennio Morricone (L’ultima volta, composto per il documentario I malamondo del 1964, ndr) perché, anche se The French Dispatch voleva appunto essere un film francese, ha origini anche italiane. Un’altra delle ispirazioni è stato L’oro di Napoli di Vittorio De Sica: quando l’ho visto, ho pensato che avrei voluto anch’io fare un film a episodi, che è una tradizione specificamente italiana. Mi piacerebbe girare un altro film in Italia, dopo Le avventure acquatiche di Steve Zissou e un corto che Miuccia Prada ha contribuito a realizzare (Castello Cavalcanti del 2013, ndr). Quando scrivo un film penso sempre: “Come potremmo farlo a Cinecittà?”».
Sul suo metodo di lavoro ‘internazionale’ (e sul suo prossimo, segretissimo, film)
«Ho già girato il mio prossimo film in Spagna, anche se è ambientato negli Stati Uniti. Il mio primo film l’ho girato in Texas, ma oggi difficilmente lavoro negli Stati Uniti. Il vantaggio è che, ovunque vada a fare un film, qualcosa rimane in quello dopo: per il film girato in Spagna avevo un attrezzista indiano, il reparto costumi italiano (anche quelli di The French Dispatch sono di Milena Canonero, premio Oscar per Grand Budapest Hotel, ndr), persino un burattinaio inglese… I miei film sono il risultato dell’adattamento del mio team internazionale ovunque capiti nel mondo. Lavorare in questo modo ti insegna un sacco di cose. Per dire: c’è un attrezzo sui set che, in gergo tecnico, chiamiamo apple box, è una specie di cassetta che serve, ad esempio, a mettere una sedia al giusto livello rispetto all’inquadratura. 75 anni fa il cinema francese ha messo a punto un modello di apple box che è totalmente diverso dal nostro, e che io ho scoperto solo di recente: adesso voglio usare solo quello».