Che cos’è il carisma? Come si dice in cinese “attacca la profondità”? Vincere il Mondiale è l’unica cosa che conta davvero nel calcio? Nel salotto di casa sua, che potrebbe essere quello di un medico o di un ingegnere da poco in pensione, col mare di Viareggio fuori dal balcone, le foto incorniciate e i pochi trofei che contano, Marcello Lippi parla appena di sé e delle sue imprese. Adesso vinco io, il documentario girato da Herbert Simone Paragnani e Paolo Geremei (al cinema solo il 26-27-28 febbraio come evento speciale), sceglie come titolo una sua frase, laconica come il resto. Voleva vincere. Forse per un senso di rivalsa, il calcio giocato in provincia fino a trent’anni. Ha vinto parecchio e quando ha perso ha dato le dimissioni per primo: dalla Juventus, dall’Inter, poi ancora dalla Juve, dalla Nazionale italiana e persino da quella cinese non qualificata ai Mondiali in Qatar. Anche se con lui ha calcato il campo una generazione di campioni assoluti, non si ricorderà per il bel gioco ma per la capacità di risolvere le situazioni, il fiuto dei vecchi giocatori di carte nel sapere quando si mettono i carichi. Ha vinto la semifinale contro la Germania schierando quattro attaccanti di ruolo.
Il “Paul Newman dei poveri” con gli occhi ancora gelidi, che già batteva in fascino tutti i suoi compagni di squadra quando giocava nella Sampdoria, non è cambiato quasi in nulla. Lascia che siano gli altri a ricordare per lui: i collaboratori tecnici, i giocatori della Juve “operaia” anni ’90 che vinse tutto perdendo tre coppe dei campioni in finale, quelli della Nazionale del 2006, la sporca dozzina, dopo Berlino e la notte del più pazzesco rave di massa che si ricordi nel nostro Paese. Ravanelli e Del Piero, Cannavaro e Ciro Ferrara, il dottor Castellacci, Bobo Vieri, Totti del rigore al 91esimo contro l’Australia. Ampia scelta di repertori, molti droni in volo secondo la moda, stadi e manti erbosi piallati come biliardi. C’è posto anche per il rituale di un pranzo assieme ai “vecchi” della Juve con quattro calci al pallone dopo il caffè, reso ancor più malinconico da un toccante messaggio video di Gianluca Vialli malato. Ci resterebbe la curiosità di ascoltare uno dei discorsi di spogliatoio di Lippi che, secondo Del Piero, facevano venire la pelle d’oca. Al contrario, nelle vecchie immagini di repertorio possiamo apprezzare il suo controllo sovrumano dell’espressione: “Sono bravo a non far capire l’emozione che sto provando”, spiega. Fa parte del carisma. L’anticamera della faccia tosta. “Io se fossi il presidente”, disse ai microfoni dopo aver perso 2 a 0 con la Reggina, “manderei subito via l’allenatore e prenderei a calci i giocatori”. Allenava l’Inter. E così fu.
Alla fine Adesso vinco io riesce a mettere insieme tutto ciò che è possibile su uno degli allenatori più pragmatici e meno letterari (a parte il sigaro perennemente acceso), il cui mito sta nei risultati e i risultati sono l’unica mitologia possibile. Certo che giocava da ragazzino nella Stella Rossa di Viareggio e prima di andare alla partite cantava Bella ciao. Certo che quando stava per firmare come allenatore della Juventus andò sulla tomba di suo padre a chiedere perdono. Ma quand’era più giovane, da capitano della Sampdoria aveva sposato la figlia del presidente del Genoa – il calcio mica è una cosa da prendere così sul serio. Certo che il giorno prima della finale mondiale si buttò per scommessa in un fiume e prese un pesce a mani nude. Il problema – questo lo racconta suo figlio Davide – è che il pesce era stato messo lì apposta, e la beffa era la stessa che suo padre aveva già fatto a lui. Una beffa o un lapsus crudele?
Il documentario vale per quel che racconta. E anche per quello che non racconta, confidando nel tempo passato e nella melassa dei ricordi che rammollisce i più duri di cuore. Marcello Lippi è stato uno dei protagonisti del tumultuoso passaggio dall’Italia del boom e delle rotonde sul mare (come si karaoka nei titoli di coda) fin dentro la modernità degli anni ’90. Post-Tangentopoli, ferocissima, berlusconiana. Paese diviso, diseguale, affossato dai suoi privilegi e dai toni di un aziendalismo di maniera. Sua la Juventus del preparatore atletico Ventrone, soprannominato il “marine”, squadra verticale e muscolare che subì un processo per doping dal quale uscì assolta tra molte ombre. Squadra amata da milioni di tifosi di ogni parte di Italia, odiata da tutti gli altri: doping o non doping, arbitri compiacenti o no. Con Luciano Moggi e Zinedine Zidane, il feroce difensore Monteiro e “Pinturicchio” Del Piero. La Juventus del 5 maggio 2002, e fa strano sentire una delle peggiori sciagure della storia nerazzurra raccontata dal punto di vista dei vincitori a distanza.
Della vittoria mondiale, che doveva lavare come un’indulgenza il peccato mortale di Calciopoli, il documentario consegna anche il punto di vista di Davide Lippi. Il figlio, ex calciatore convinto da suo padre a fare il procuratore, si commuove fino alle lacrime nel ricordare che Marcello Lippi vinse il Mondiale e, soprattutto, abbandonò in fretta e furia la sua Nazionale, per proteggerlo da un’indagine che lo riguardava. “Non puoi toccare a un uomo la famiglia”, dice uno dei suoi collaboratori. Nel mezzo dei traffici di arbitri e giocatori svelati da Calciopoli, la società Gea dei “figli di” Moggi, Lippi, Geronzi, De Mita – che uno dopo l’altro uscirono dall’inchiesta con assoluzioni e prescrizioni – simbolicamente rappresentava uno stile inamovibile del potere italiano. E il passaggio di generazioni, l’esordio del calcio ultramoderno dei procuratori e dei social, si scontrava non poco con il carisma dell’allenatore Lippi, le leggende dei suoi manipoli di uomini con in testa una sola direzione e nessun piano B oltre alla sconfitta. Ma tant’è. Dopo aver girato le imprese italiane distribuendo consigli motivazionali, Lippi accettò la proposta di andare ad allenare in Cina: prima il Guangzhou – col quale ha vinto una Champions asiatica – e poi la Nazionale, forse l’ultima spiaggia nelle quali simili imprese militari e muscolari avessero ancora una qualche cittadinanza.