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Alla fine la Disney è inciampata: come la stanno prendendo i fan?

Sembrava che l'azienda che ha codificato la "magia" moderna non potesse sbagliare. Poi ha iniziato a puntare più sulla quantità che sulla qualità. E il Covid ha dato il colpo di grazia
(da USA) disney

Immagine: Griffin Lotz

Qualche anno fa stavo parlando con il conduttore di un popolare podcast a tema Disney, quando inevitabilmente la conversazione è arrivata dove arriva sempre tra due adulti appassionati di Disney: perché la amiamo così tanto, quando sembra che faccia di tutto per farci arrabbiare?

Era il 2022, nel pieno di una guerra di pubbliche relazioni particolarmente brutale scatenata dal cosiddetto disegno di legge “Don’t Say Gay”, la legislazione del governatore della Florida Ron DeSantis che vietava alle scuole pubbliche di includere nei programmi materiali sulle identità LGBTQ+. Molti dipendenti Disney erano indignati per il disegno di legge e, dato che il parco a tema più grande dell’azienda si trova proprio in Florida, c’era una forte pressione interna sul CEO di allora, Bob Chapek, affinché prendesse posizione contro la legge. Ma Chapek fece l’opposto, spiegando in un memo che opporsi pubblicamente al “Don’t Say Gay” avrebbe fatto «ben poco per cambiare risultati o opinioni» e avrebbe solo «ulteriormente diviso e infiammato» la situazione.

Alla fine, dopo giorni di cattiva stampa, Chapek rilasciò un comunicato scusandosi per non essersi opposto pubblicamente alla legge. Ma il danno era ormai fatto: sia i progressisti che i conservatori erano indignati e, nel mezzo delle critiche, la Disney rifiutò di estendere il contratto di Chapek, portando al suo licenziamento pochi mesi dopo. Secondo un reportage del New York Times, Chapek avrebbe poi confidato ad alcune persone di sentirsi ingiustamente preso di mira, poiché la sua gestione della questione (o meglio, la sua mancanza di gestione) era stata supportata dal consiglio di amministrazione fin dall’inizio.

L’approccio della Disney sembrava a molti, me compresa, l’apice dell’incompetenza aziendale. Sembrava che l’azienda stesse inviando un messaggio chiaro: sebbene fosse felice di accettare soldi dai membri della comunità LGBTQ+, ciò non equivaleva a riconoscerne il diritto di esistere. E, da fan Disney queer, quel messaggio non mi piaceva affatto. Così chiesi a questo conduttore di podcast: come conciliava i suoi princìpi con l’amore per la Disney? Si sentiva in colpa per questo? Non dovette pensarci due volte prima di rispondere.

«Non proprio», rispose. «Continuano a produrre cose che mi piacciono. Sì, è una grande azienda senz’anima. E sì, la amo comunque. Perché fanno cose che mi emozionano».

All’epoca, pensai che fosse una scusa ridicola. Ci sono molti marchi che fanno cose che emozionano le persone. Io, per esempio, mi emoziono per i panini al pollo fritto, l’acqua gassata e le sneakers di tela da 10 dollari. Eppure evito di comprare da Chick-fil-A, SodaStream o Shein, perché ci sono aspetti delle loro pratiche aziendali che non mi emozionano affatto, che anzi trovo ripugnanti. E sebbene possa essere momentaneamente soddisfacente scrivere un post tagliente su Twitter criticando la violenza colonialista o l’omofobia cristiana evangelica, usare il mio portafoglio come strumento di protesta è di gran lunga la mia forma di resistenza più efficace. Quindi, perché non farlo, anche se significa rinunciare a guardare I Simpson su Disney+ o comprare il nuovo secchiello per popcorn ispirato al camioncino di Pizza Planet? È davvero un sacrificio così grande per cercare di ottenere qualche piccolo cambiamento concreto nel mondo?

A quanto pare, per me, la risposta è sì. Perché poche settimane – neanche pochi mesi – dopo la débâcle del “Don’t Say Gay“, ho prenotato un viaggio a Disney World. Ne ho fatti almeno altri due da allora; in realtà, sono appena tornata da un altro viaggio due settimane fa. Non ho smesso di comprare vestiti e giocattoli Disney per i miei figli. Non ho nemmeno cancellato Disney+. La spiegazione più semplice del perché lo faccio è che sono un’ipocrita senza integrità. Ma temo che la vera spiegazione sia molto più complessa.

Faccio parte di un gruppo di persone che si autoidentificano come “adulti Disney“. Sebbene sia facile definire questo gruppo come “fan adulti della Disney”, è un po’ come dire che La bella e la bestia è un film su una ragazza attraente che legge molto e poi sviluppa la sindrome di Stoccolma; tecnicamente vero, ma manca il punto centrale. A differenza degli Swifties, dei Trekkies o dei tifosi delle squadre di Philadelphia, gli adulti Disney non possono essere definiti da uno o più tratti demografici specifici; non si può dire che siano in prevalenza bianchi e donne, di mezza età e nerd, o inclini a lanci di oggetti sotto l’effetto dell’alcol, perché possono essere tutto questo e altro ancora. Sono uniti da un solo fattore: la convinzione incrollabile che tutto ciò che Disney produce, dalle sue serie in streaming alle attrazioni dei parchi a tema, dalle crociere ai film d’animazione, sia superiore a quello dei suoi concorrenti, perché intriso di un ethos specifico che può essere riassunto solo come “magia Disney”.

La magia Disney è un termine ancora più difficile da definire rispetto ad “adulto Disney”. A livello di servizio clienti, si riferisce ai piccoli dettagli che rendono il soggiorno di un ospite nel parco più memorabile: un dessert gratis qui, 30 secondi in più di interazione con Cip e Ciop lì. È quel tipo di attenzione ai dettagli che dovrebbe farti dimenticare che stai spendendo migliaia di dollari per una vacanza, perché quella in un parco Disney non dovrebbe sembrare una vacanza normale. Dovrebbe sembrare una versione potenziata della realtà, dove le persone sono più gentili, le strade più pulite e il cibo ha (marginalmente) un sapore migliore.

Ma c’è un altro aspetto della “magia Disney”, più ineffabile. È il modo in cui un uomo adulto si ritrova a trattenere il respiro quando vede un’attrice che interpreta Cenerentola in tutto il suo splendore. È l’inconfondibile profumo floreale di cloro che si diffonde dalle acque dell’attrazione a tema Pirati dei Caraibi (così amato che su Etsy vendono candele ispirate a quell’odore), o il modo in cui senti automaticamente il clip-clop degli zoccoli quando 76 tromboni suona attraverso gli altoparlanti di Main Street USA. È una sensazione che gli esperti di marketing probabilmente attribuirebbero a decenni e decenni di una multinazionale che costruisce fedeltà al marchio attraverso le generazioni, ma che una persona meno cinica ascriverebbe all’apoteosi dell’ideologia promulgata dallo stesso Walt Disney, l’idea che Disney esisterà «finché ci sarà immaginazione nel mondo». La magia Disney può essere meglio riassunta come una testimonianza dell’infinita capacità umana di immaginare, che si tratti di un bambino che guarda in su verso il castello della Bella Addormentata o di un dirigente che cerca di capire come massimizzare i guadagni trimestrali del merchandising di Frozen.

Da bambina, andavo ai parchi Disney con la mia famiglia probabilmente un anno sì e uno no, perché erano l’unico posto in cui le nostre conversazioni non finivano in urla e lacrime. Passavo ore a scrivere nel mio diario delle vacanze che cosa avevamo fatto mesi prima, documentando ogni piccolo dettaglio, come e dove avevamo mangiato o delle altre famiglie che avevamo incontrato in hotel. Rileggevo queste pagine più e più volte, perché mi ricordavano che esisteva un posto in cui potevo essere più felice di quanto non fossi a casa o a scuola, dove tutti i bambini pensavano che fossi una tipa stramba con i denti storti che leggeva il dizionario per divertimento (avevano ragione, ma questo non è rilevante). Quindi, per me, la magia Disney era la capacità di immaginare un mondo in cui le persone erano più gentili di quanto lo fossimo noi l’uno con l’altro, o di quanto la mia famiglia lo fosse con se stessa.

Disney, ovviamente, non è solo i suoi parchi: è un intero universo di marchi, che comprende prodotti di consumo, editoria, reti mediatiche (ESPN, ABC, FX), studi cinematografici (Pixar, Lucasfilm, Marvel, 20th Century Studios) e operazioni internazionali. Ha un tale controllo sulla cultura popolare che, secondo un sondaggio, Topolino ha un livello di riconoscimento del nome superiore a quello di Babbo Natale. Intere generazioni sono cresciute con una dieta costante di prodotti Disney, una lista che si è solo ampliata con le acquisizioni di Marvel, Lucasfilm, Pixar e 20th Century Fox negli ultimi due decenni. In teoria, si potrebbe passare un intero ciclo di vita umano consumando esclusivamente prodotti Disney, dall’essere avvolti in un pannolino Huggies con il marchio di Topolino fino a scambiarsi le promesse di matrimonio di fronte al Castello della Bella Addormentata. E mentre non esiste ancora una nascita o un funerale a marchio Disney, scommetterei la mia pensione che l’idea sia stata ventilata nelle sale riunioni.

Negli ultimi anni, tuttavia, si è avvertita una chiara sensazione che Disney stia perdendo la capacità di offrire costantemente ai consumatori la sua magia caratteristica. Anche se il 2023, il centenario dell’azienda, era previsto come un anno di svolta, l’ultimo film d’animazione, Wish, è stato un flop al botteghino, così come Elemental della Pixar; le sue produzioni Marvel, The Marvels e Ant-Man and the Wasp: Quantumania, non sono andate molto meglio. Nel maggio 2024, il CEO Bob Iger ha rivelato in una conferenza con gli investitori che Disney+, il servizio di streaming lanciato nel 2019, stava operando con una perdita di 4 miliardi di dollari, principalmente a causa di quello che ha definito un’enfasi sulla «quantità e non sulla qualità», secondo The Hollywood Reporter. Anche la divisione parchi, tipicamente la più redditizia tra i settori Disney, sta arrancando, con un calo del 3% dei profitti operativi nell’ultimo trimestre, a causa di quella che il CFO Hugh F. Johnston ha definito «moderazione della domanda dei consumatori». I prezzi delle azioni sono crollati.

Negli ultimi mesi ho parlato con diverse figure all’interno della vasta orbita Disney. A seconda di chi ascolti, la perdita della magia può essere attribuita a una vasta gamma di fattori: molti puntano il dito contro Bob Chapek, l’ex capo dei parchi diventato CEO che, alla fine del suo breve mandato, era così ampiamente disprezzato da essere letteralmente mandato via dal palco a suon di fischi durante l’expo D23 dedicato ai fan. Secondo un’indagine del New York Times di settembre, Chapek era stato sostanzialmente fatto fuori dal suo predecessore Bob Iger, che ha ricoperto il ruolo di CEO per 16 anni prima di ritirarsi nel 2021. Amato all’interno dell’azienda per anni, Iger si era sentito frustrato dalla cattiva gestione di Chapek nei confronti dei creativi Disney, come riporta il Times, orchestrando la sua rimozione nonostante lo avesse personalmente scelto come suo successore.

Altri hanno indicato fattori esterni come il devastante impatto della pandemia di Covid-19, che ha portato alla chiusura temporanea dei parchi, al licenziamento di decine di migliaia di dipendenti e a una perdita di 4,7 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2020. L’instabilità economica causata dalla pandemia «è stata negativa per tutte le aziende, ma soprattutto per Disney, perché dipendono così tanto dai parchi» per le entrate, afferma Scott Gustin, un reporter che si occupa di parchi tematici. «E non penso che le cose siano state stabili [nell’azienda] da allora».

In generale, tuttavia, quasi tutti quelli con cui ho parlato concordano sul fatto che, nel corso degli ultimi decenni, attraverso una serie di decisioni motivate da una combinazione di avidità e compiacenza, Disney sia in serio pericolo di perdere la sua posizione di gigante culturale. «Disney non ha mai nascosto il fatto che vogliono solo i tuoi soldi», mi ha detto un ex dipendente aziendale di medio livello. «Ma hanno anche offerto intrattenimento ed esperienze di alto valore. Direi che ora l’azienda si è spostata verso una politica di risparmio e non sta più offrendo intrattenimento ed esperienze di alta qualità come prima» (Disney non ha risposto alle richieste di interviste o commenti).

Queste conversazioni hanno dipinto il ritratto di una corporazione in modalità pilota automatico, che opera guidata dalla convinzione che sia semplicemente troppo grande per fallire. Queste fonti sostengono che, sebbene questo possa essere stato vero per Disney a un certo punto, l’azienda ha sprecato abbastanza buona volontà tra i consumatori da non esserlo più. «C’è la sensazione che, se l’azienda non è attenta e non corregge la rotta, arriverà un momento in cui la gente non la vedrà più come leader», dice un ex dipendente. Inoltre, le stesse fonti riflettono su una compagnia che è indifferente, se non addirittura sprezzante, nei confronti dei suoi fan più fedeli. Secondo due ex dipendenti aziendali, l’azienda evita di assumere quelli che uno ha definito «superfan», considerando l’amore per il marchio come «un enorme punto a sfavore». «A me sembra controproducente, perché penso che invece vorresti assumere proprio le persone che conoscono meglio il marchio, così possono proteggerlo», ha detto la persona. «Alcuni dei tuoi più grandi sostenitori saranno proprio queste persone».

I fan dei parchi a tema, in particolare, hanno espresso una crescente frustrazione per l’aumento dei prezzi dei biglietti, l’eliminazione di vari servizi e la percepita diminuzione della qualità complessiva dell’esperienza.

Molte delle fonti con cui ho parlato per questo articolo mi hanno detto che, negli ultimi anni, il personale dei parchi è stato un problema, portando alla chiusura di attrazioni e a dipendenti sin burnout che offrono un servizio clienti scadente. Alcuni hanno presentato reclami direttamente all’azienda, ma tali feedback sono rimasti inascoltati. «Diciamo che i fan li sopportano», mi ha detto l’ex dipendente aziendale. «Prendono i loro soldi. Ma ho la sensazione che i fan, i blogger e gli influencer li infastidiscano anche. Dal mio punto di vista, non fanno marketing rivolto a loro, che sono i loro più grandi generatori di guadagno».

In perfetto stile adulto Disney, molte delle persone con cui ho parlato tendevano a personificare questi fallimenti, vedendoli non come il risultato di una multinazionale da miliardi di dollari soggetta a mercati e tendenze in cambiamento, ma come l’azione di un individuo le cui scelte causano delusioni personali. Una fonte ha paragonato l’azienda a un ex fidanzato tossico da cui torni sempre contro ogni buon senso; un’altra persona, a una mean girl del liceo. Ora, dicono, il marchio sta affrontando le conseguenze. «La gente si sta ribellando contro Disney», ha detto un ex dirigente. «Sono stanchi del bullo nella stanza».

A dire la verità, Disney si è trovata in situazioni altrettanto difficili in passato. Nei primi anni ’80, l’azienda aveva perso la sua posizione di leader nei mercati cinematografici e dell’animazione, producendo film dimenticabili come Red e Toby nemiciamici ed Elliott, il drago invisibile. Tra il 1982 e il 1984, il suo reddito netto calò del 25%, rendendola vulnerabile a tentativi di acquisizione da parte di speculatori aziendali. Con la nomina di Michael Eisner come CEO nel 1984, le sorti di Disney cambiarono, inaugurando la cosiddetta età dell’oro dell’animazione Disney con film come La sirenetta, La bella e la bestia e Aladdin; ampliando drasticamente i parchi, tra cui l’Animal Kingdom e gli Hollywood Studios di Walt Disney World e Disneyland Paris; e acquisendo la ABC nel 1995, inclusa ESPN. Eisner introdusse anche la brillante strategia di marketing di capitalizzare sulle proprietà intellettuali esistenti vendendo VHS in edizione limitata dei classici Disney, rilasciandole solo per brevi periodi di tempo. Questa strategia permise a milioni di appartenenti alla Gen X e ai Millennial di iniettare direttamente nelle loro vene l’iconografia disneyana – le principesse, i castelli, le canzoni e, ovviamente, i topi non scopabili.

Nel 2005, dopo una serie di insuccessi clamorosi al botteghino e conflitti pubblici con l’ex dirigente dell’animazione Disney Jeffrey Katzenberg, il consiglio di amministrazione fece pressione su Eisner affinché si dimettesse da CEO, portandolo a passare il testimone all’allora presidente Bob Iger. Come documenta nel suo libro, The Ride of a Lifetime, Iger si trovò a ereditare un’azienda in difficoltà, proprio come nel 1984: la recessione economica post-11 settembre aveva fatto crollare il prezzo delle azioni di Disney, il dipartimento di animazione era alla deriva e l’avvento della pirateria online aveva ridotto i profitti dell’azienda. «Quasi ogni compagnia di media tradizionali, mentre cercava di capire il proprio posto in questo mondo che cambiava, operava con paura anziché con coraggio», scrive Iger, «cercando ostinatamente di costruire una barriera per proteggere modelli vecchi che non avrebbero mai potuto sopravvivere al cambiamento in corso».

In sintesi, era un clima molto simile a quello dell’attuale panorama dei media, e Iger riuscì a visualizzare chiaramente un percorso per Disney che non si basava sui modelli mediatici tradizionali. Prevedendo l’imminente declino della televisione via cavo, divenne un sostenitore delle piattaforme di streaming mobile-first; guidò anche l’acquisizione di Pixar, che stava superando Disney in termini di creatività e ingegnosità, rinvigorendo con successo il team di animazione.

Entrambe queste decisioni furono ampiamente derise e molto costose: «In sostanza», scrive Iger del lancio di Disney+, il servizio di streaming in abbonamento dell’azienda, «stavamo accelerando la distruzione del nostro stesso business, e le perdite a breve termine sarebbero state significative». Ma Iger era ben consapevole che tali perdite a breve termine erano essenziali per preservare l’integrità del marchio e la qualità del prodotto. «Devi guardare oltre qualsiasi perdita commerciale e lasciarti guidare, ancora una volta, dalla semplice regola che non c’è nulla di più importante della qualità e dell’integrità delle tue persone e del tuo prodotto», scrive.

Sotto la guida di Iger, Disney è diventata un mega-conglomerato con un’enorme portata globale, aprendo parchi a Shanghai e Hong Kong e ampliando la sua vasta libreria di proprietà intellettuali con l’acquisizione di Marvel, Lucasfilm e 20th Century Fox. E sebbene questa rapidissima crescita abbia contribuito a stabilire la supremazia dell’azienda sul mercato globale, ha anche comportato i suoi inevitabili dolori di crescita, in particolare dopo la fusione con 20th Century Fox nel 2019, secondo diversi ex dipendenti aziendali con cui ho parlato. Un tempo Studio cinematografico leggendario dell’età dell’oro, che aveva prodotto classici come Tutti insieme appassionatamente, Star Wars e Titanic, l’azienda con l’acquisizione di Disney si è trovata essenzialmente «inghiottita», e Disney ha «sputato fuori ciò che non voleva», secondo una fonte. «Quello è stato un punto molto basso», dice la fonte. «È stato brutto. È stato spietato». L’accordo è stato accompagnato da più turni di licenziamenti e da un crescente senso di compiacenza che ha reso la vita difficile a molti dipendenti. Un ex dipendente riassume l’atteggiamento nei seguenti termini: «Sei fortunato a lavorare qui, perché puoi lavorare sui contenuti migliori, sui film migliori, sulle serie migliori del mondo. Se non ti trovi bene, non abbiamo bisogno di te».

In un certo senso, questo atteggiamento è sempre esistito all’interno del marchio Disney. Eppure, coloro con cui ho parlato hanno detto che era più giustificabile prima della fusione e del lancio di Disney+ nel 2019. Quell’anno, l’azienda ha raggiunto un picco sia creativo che commerciale: grazie all’uscita di successi al botteghino come Frozen II, Toy Story 4, Avengers: Endgame e Star Wars – L’ascesa di Skywalker, l’azienda ha incassato la cifra record di 13 miliardi di dollari a livello globale, rappresentando quasi il 40% del botteghino mondiale.

Tuttavia, qualcosa è cambiato. Più fonti mi hanno riferito che i dipendenti sentivano di essere sotto talmente tanta pressione per aumentare la produzione per la piattaforma, e per renderla un concorrente valido di Netflix e Amazon, che è diventato impossibile mantenere il ritmo.

«C’è un calo piuttosto evidente della qualità a partire dal 2019», mi dice un ex dirigente aziendale. «The Mandalorian del 2019 è l’unica cosa su Disney+ che è stata trattata con lo stesso livello di attenzione con cui avevano trattato le uscite precedenti. La pressione era davvero notevole, la richiesta era produrre il maggior numero possibile di contenuti».

Il risultato finale è stata una serie di franchise di supereroi anemici (The Marvels), serie in streaming sopravvalutate (la appena cancellata The Acolyte – La seguace), reboot di franchise “gonfiati” (Indiana Jones e il quadrante del destino), remake live-action con risultati sotto le aspettative (Mulan, Pinocchio) e film d’animazione poco ispirati, che in passato erano stati la spina dorsale della divisione intrattenimento Disney (Onward – Oltre la magia, Strange World – Un mondo misterioso, Elemental). Anche se ci sono stati alcuni successi negli ultimi anni – WandaVision del 2021 è stata acclamata dalla critica, mentre Encanto degli Studios di animazione Disney ha ottenuto un grande successo grazie alla sua colonna sonora che è diventata virale sui social media – gran parte della produzione è stata deludente. E mentre alcuni di questi fallimenti potrebbero essere spiegati dall’impatto della pandemia, con le persone che non sono tornate nei cinema con i numeri pre-2020, questa spiegazione ha dei limiti. Una fonte con cui ho parlato ha ipotizzato che la pandemia abbia solo messo in evidenza quanto poco la Disney stesse dando importanza alla qualità delle sue offerte di intrattenimento, operando con l’assunzione che le persone fossero annoiate a casa e avrebbero guardato qualsiasi cosa messa in onda sotto il marchio Disney – un’assunzione che si è rivelata errata con il fallimento di quelli che consideravano film “inferiori” come Soul e Luca. «Il Covid ha messo Disney in ginocchio», mi ha detto una persona. «E il problema è che Disney non pensava che potesse essere messa in ginocchio. Ora deve farci i conti».

Nel settore dei parchi, che un tempo era il principale motore di entrate di Disney, l’azienda ha particolarmente faticato. «C’è un grande dibattito sulla rapida crescita di Disney, e con essa sulla sua percepita avidità e sul profondo declino della qualità dei suoi film e dei suoi parchi», afferma Jenny Nicholson, una youtuber ed ex membro del cast Disney. Nella primavera del 2024, Nicholson ha pubblicato un video sferzante di quattro ore che racconta uno dei fallimenti più noti dei parchi, l’hotel immersivo Galactic Starcruiser di Walt Disney World, che costava migliaia di dollari a notte ed è stato aperto per appena 14 mesi prima di chiudere.

Il video di Nicholson che condanna il progetto come una mossa mal concepita per fare soldi ha raccolto oltre 10 milioni di visualizzazioni, apparentemente grazie alla sua capacità di toccare le crescenti «frustrazioni» che i fan hanno nei confronti dei parchi, dice lei. Queste frustrazioni possono essere riassunte come il sentimento generale che gli ospiti stiano venendo truffati. Dalla chiusura temporanea dei parchi nel 2020, l’azienda ha lentamente eliminato servizi amati come le ore di ingresso anticipato per gli ospiti degli hotel, il trasporto gratuito dall’aeroporto agli hotel Disney o i modi in cui i fan potevano saltare le code gratuitamente, aumentando al contempo i prezzi dei biglietti. «Sembra esserci molta più spinta verso i profitti a breve termine rispetto alla longevità complessiva e alla reputazione dell’azienda», afferma Nicholson.

A causa dei prezzi alle stelle, gli ospiti stanno sempre più evitando i parchi. Durante una call sugli utili dell’agosto 2024, il CFO Hugh Johnston ha indicato che c’era stato un calo del tre percento, o «una leggera frenata», nei guadagni dei parchi americani durante il terzo trimestre. Ha aggiunto che l’azienda prevedeva un calo simile nei guadagni nei trimestri futuri, minimizzandolo come «una leggera moderazione della domanda». Una simile ammissione deve essere particolarmente fastidiosa per l’azienda, alla luce del suo principale rivale, Universal Studios, che sta costruendo una massiccia espansione del parco a tema chiamata Epic Universe a solo poche miglia da Kissimmee, in Florida, dove si trovano i parchi e i resort di Walt Disney World.

Un giornalista specializzato in parchi tematici mi ha detto che nell’ultimo decennio la divisione Imagineering di Disney – il dipartimento che si occupa di creare nuove attrazioni e giostre nei parchi a tema – si è concentrata troppo sul capitalizzare IP redditizie, come i franchise di Star Wars e Marvel, e meno sulla creatività. «Dove si trovano [i consumatori], nel 2024? Siamo solo alla ricerca di chi sta innovando, chi ci sta dando emozioni e facendo spendere soldi», ha detto il giornalista. «E tutto quello, di gran lunga, è Universal».

L’eccessiva dipendenza di Disney dalle IP esistenti è stata una fonte di frustrazione per i fan per quasi un decennio, e se si guarda alla lista delle prossime uscite, non sembra che abbiano intenzione di cambiare rotta a breve. Durante la call sugli utili dell’agosto 2024, Johnston ha osservato che le tendenze negative nei parchi sarebbero probabilmente compensate dalla divisione intrattenimento, inclusi i prossimi film molto attesi come il prequel in animazione CGI del Re leone, Mufasa, e Oceania 2. Citare questi due esempi è significativo: Entrambi si basano su IP già esistenti di Disney, il che semplicemente sottolinea che l’azienda è diventata eccessivamente dipendente dall’adattamento di materiale preesistente, piuttosto che generare idee nuove e fresche. «Disney ha pochi assi nella manica quando si tratta di portare la gente al cinema», mi ha detto un ex dipendente. «C’è solo un certo numero di film d’animazione che possono essere trasformati in live action. C’è solo un certo numero di giostre che possono essere trasformate in film». La qualità, ha detto l’ex dipendente, «non c’è più».

In definitiva, però, parlando con vari fan e insider, il declino di Disney può essere ridotto a un fattore cruciale: l’arroganza. Dopo aver raggiunto il primato sul mercato per così tanto tempo, e aver ottenuto una fanbase devota e demograficamente molto ampia, c’è il senso schiacciante che Disney non possa fare nulla per perdere il suo controllo sull’immaginario collettivo. Per adattare una famosa affermazione di Trump dell’era elettorale del 2016, se Bob Iger si mettesse in mezzo a Main Street e sparasse a Topolino in pieno giorno, probabilmente l’azienda perderebbe qualche fan – ma di certo non tutti. Il suo ethos-guida sembra essere rafforzato dal senso che sia semplicemente troppo grande per fallire in modo significativo. Ma se la serie di fallimenti recenti è un indicatore, per una delle poche volte nella storia dell’azienda potrebbe non avere ragione.

Una volta, quando avevo appena superato i vent’anni, ero in vacanza con la mia famiglia e abbiamo litigato. Non ricordo nemmeno per che cosa, ma ero abbastanza distrutta da sentire il bisogno di non stare con loro in quel momento. Così mi sono allontanata, singhiozzando e tremando, ignorando le telefonate, alla ricerca di un posto dove mi fossi sempre sentita al sicuro. E alla fine sono finita sulla giostra It’s a Small World.

Mentre la mia Friendship Boat dondolava dolcemente sull’acqua, il profumo inebriante del cloro che si mescolava a quello della pizza riscaldata del Pinocchio’s Village Haus accanto e i kiwi animatronici, i pesci volanti e le ragazze can-can che mi ammiccavano dalle rive plasticose, mi è improvvisamente venuto in mente quanto fosse tutto pazzesco. In un momento di turbolenza emotiva, non ero ricorsa alla meditazione, né alle droghe, né all’alcol, né alla terapia cognitivo-comportamentale o a tutte le altre strategie a mia disposizione. Ero invece andata dritta, come per istinto mammifero, come un elefante morente che attraversa la savana, verso una mostra dell’Esposizione Universale del 1965 sponsorizzata dalla Pepsi. Perché l’avevo fatto? Cosa mi avrebbe offerto tutto questo? Come mi avrebbe fatto sentire meglio?

Ci sono circa un milione di motivi per cui It’s a Small World non dovrebbe essere emotivamente efficace. È un’attrazione lunga. È noiosa. È costruita attorno a una concezione di unità globale che non celebra le differenze culturali e politiche, ma le cancella completamente, come rappresentato nell’ultimo tableau della giostra, dove tutti i bambini del mondo indossano gli stessi abiti bianchi generici, cantano e si tengono per mano, assomigliando a una pubblicità della Benetton concepita dagli Hare Krishna. La sua principale progettista, Mary Blair, era una geniale artista i cui talenti furono sminuiti dal sessismo della Disney, portandola a una vita di ambizioni frustrate e alla morte precoce per demenza correlata all’alcolismo. E naturalmente c’è la canzone, due melodie incessantemente allegre suonate sulle stesse sequenze di accordi, scritte dal duo di compositori Sherman Brothers, che hanno scritto anche la musica per Il cowboy con il velo da sposa, Mary Poppins e Il libro della giungla. È spesso votata come una delle giostre più fastidiose della Storia, anche se probabilmente lo è meno della proposta originale di Walt, che era quella di far cantare a tutti i bambini del mondo l’inno nazionale nelle loro lingue native contemporaneamente.

Ma non importa quanti motivi possa trovare per cui It’s a Small World non dovrebbe commuovermi, non importa quanto mi faccia rabbrividire pensare a me stessa piangere su una giostra circondata da bambini animatronici, un fatto resta: io mi commuovo. L’idea che un gruppo di persone disparate provenienti da vari background – una brillante ma frustrata alcolista, fratelli ebrei russi immigrati, un acceso anticomunista e probabilmente antisemita – potesse unirsi e presentare una visione così semplice e unificata dei bambini come forza di pace, mi commuove profondamente. L’idea che Walt Disney – un uomo che ha venduto una visione di ottimismo e progressismo, ma che disprezzava tanto il diritto dei suoi dipendenti a sindacalizzarsi da testimoniare contro di loro nelle audizioni HUAC del 1947, arrivando persino a licenziare l’animatore che aveva creato Pippo; l’uomo che forse è più responsabile per il disprezzo verso il piccolo uomo che è stato integrato nel DNA della Disney – possa mettere da parte la sua politica velenosa per presentare una visione di un mondo migliore per i bambini, ecco, mi commuove profondamente.

Il promemoria che tutti noi siamo stati bambini, che tutti noi abbiamo iniziato credendo in un mondo migliore, sottende tanto del miglior lavoro della Disney. Sto pensando alla scena finale di Mary Poppins, quando il padre banchiere ossessionato dalla ricchezza e dallo status finalmente consegna ai suoi figli l’aquilone che lo avevano implorato di riparare; o al momento in Biancaneve e i sette nani quando la protagonista, orfana, ha appena scampato una morte violenta, ed è spaventata e sola nella foresta finché non incontra una banda di creature del bosco, mentre l’orchestra accompagna allegra con la canzone Con un canto nel cuor. “Non ha senso brontolare quando le gocce di pioggia cadono / Ricorda che sei tu quello che può riempire il mondo di sole“, canta, mentre i conigli scodinzolano, gli scoiattoli strizzano il naso e gli uccelli ammirano la bellezza e la forza dello spirito umano.

Ogni volta che canto queste parole ai miei figli – e intendo ogni volta – non riesco a fare a meno di commuovermi un po’. Perché non è un messaggio di ottimismo cieco o di stupida ignoranza di fronte alla disperazione o ad altro che le persone amano accusare la Disney di promuovere – o che ha effettivamente promosso nel suo approccio a questioni come la legislazione “Don’t Say Gay”. È un messaggio di potere. Sei tu quello che può riempire il mondo di sole. Sei tu quello che può usare la propria immaginazione per costruire il mondo come meglio crede. È un messaggio che avrei voluto prendere più a cuore quando ero una bambina ansiosa, triste e spaventata; avrei voluto credere che avrei potuto costruire la mia magia. Francamente, se l’avessi fatto, probabilmente avrebbe risparmiato ai miei genitori un sacco di soldi.

Continuo a dare soldi alla Disney, perché la Disney continua a creare cose che mi commuovono. Credo nella “magia Disney”. Credo nel potere delle persone intelligenti e creative che si uniscono per raccontare storie belle in modi nuovi e interessanti, per insegnarci chi siamo, chi eravamo e chi vorremmo essere; e nella capacità di reinventare il mondo finché c’è ancora immaginazione.

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