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Dopo il Leone d’oro a Venezia 77, la regista di Nomadland è in pole position per le sue vedute mozzafiato sul West e il suo ritratto di quei lavoratori proletari americani che hanno deciso di vivere dentro un camper e di cercare occupazioni itineranti. Zhao ha girato un film che si fonda sulla politica e sulle sue brutali ricadute sull’uomo, ma che resta fortemente apolitico. Perché rispetta troppo i suoi personaggi per ridurli a simboli ideologici. Come dice la sua protagonista Frances McDormand, Chloé «traccia con il rasoio il confine tra sentimento e sentimentalismo». E in più è donna (sarebbe la seconda nella storia a vincere dopo Kathryn Bigelow) e asiatica. Sarebbe un win win per l’Academy, per tutti.
Emerald Fennell è la seconda donna in cinquina grazie al suo debutto alla regia con un revenge movie che più MeToo non si può. Furbissimo, giustissimo per questi tempi, fin troppo. Al punto che potrebbe sembrare questo il motivo della candidatura. Nonostante Una donna promettente funzioni alla grande anche grazie alla performance di Carey Mulligan con un ruolo che pare scritto per lei e al fatto che la regista riesca non solo a navigare tra le trappole del genere, ma pure a giocare con le nostre aspettative. È sicuramente l’anno di Emerald (che ha prestato anche il volto a Camilla in The Crown), ma l’Oscar pare un po’ troppo.
Il film sullo sceneggiatore di Quarto potere è stato l’ossessione di David Fincher per quasi trent’anni. E Mank ha finito per portarsi a casa il maggior numero di candidature, 10. Probabilmente è l’opera più personale del regista, e non solo perché nasce da una bozza di copione scritta dal padre, che morì 10 anni prima di vederlo realizzato, ma perché parla della ricerca estenuante e frustrante della perfezione. La regia, l’interpretazione di Gary Oldman, il sontuoso bianco e nero e il décor d’epoca più vero del vero ne fanno una pietra miliare per cinefili, anzi, per feticisti. E nell’annus più horribilis che si ricordi per il cinema non rappresenta il rinnovamento. Alla terza nomination dopo quelle per The Social Network e Il curioso caso di Benjamin Button, probabilmente Fincher non ce la farà nemmeno questa volta. Ma il suo sguardo resta da Oscar.
Nominato anche come miglior film in lingua straniera, Un altro giro è la seconda collaborazione di Thomas Vinterberg con la star nazionale Mads Mikkelsen. Alla base c’è una teoria secondo cui un certo livello di ubriachezza quotidiana può aiutare a gestire la crisi di mezza età. E nel film c'è un disordine intenzionale, un senso di curiosità riguardo alla condizione umana e una mancanza di giudizio che trasforma quella che avrebbe potuto essere una storia sui pericoli dell'eccesso in uno sguardo più sincero che mai. E poi QUELLA scena di danza. Dalla Danimarca con furore (e un po’ a sorpresa), anche se Zhao avrà la meglio.
Foto: Henrik Ohsten
È chiaro che Minari è il dark horse della stagione. Cioè il titolo che ha compiuto la scalata più importante, da “favourite” dei festival a concorrente di peso in campo mainstream. La tenerezza della storia della famiglia coreana nell’America degli anni ’80 non si discute. E anche la mano del regista statunitense (ma anche lui di origine sudcoreana) Lee Isaac Chung è misurata, attenta, elegante. La nomination come miglior regista, però, pare un po’ troppo generosa. E debitrice del dibattito sulle quote. Due registi di origine asiatica nella cinquina (l’altra è Chloé Zhao, in pole position) non si erano mai visti: la storia (anche con la maiuscola) è questa, e anche ciò che motiva – nel bene e nel male – la presenza di Chung.
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