Drive My Car di Hamaguchi Ryūsuke – Giappone
Un piccolo racconto di Murakami Haruki (contenuto nella raccolta Uomini senza donne) diventa uno dei più grandi film dell’annata. Merito di Hamaguchi Ryūsuke, grande cineasta giapponese finora relegato (detto con tutto il rispetto) nel circuito dei festival e adesso accolto dal mainstream anche hollywoodiano: Drive My Car, già Premio per la sceneggiatura a Cannes 2021 e Golden Globe per il miglior film straniero, è candidato anche tra i migliori film in assoluto, sulla scia del boom di Parasite di due anni fa. Non vincerà in quella categoria, ma di sicuro porterà a casa la statuetta come best international picture, con buona pace del nostro Sorrentino: ci dispiace perché siamo fan della primissima ora di È stata la mano di Dio, ma in fondo è giusto così. Questo nippo-on the road (su una Saab 900 Turbo rossa subito diventata un cult) mischia esistenzialismo, sentimentalismo e anche un certo intellettualismo (i rimandi allo Zio Vanja di Čechov), ma sempre restando accessibile a tutti. È questa la forza principale del regista, che sempre nel 2021 ha firmato anche l’altrettanto notevole Il gioco del destino e della fantasia, Orso d’argento a Berlino: è la sua stagione d’oro, senza se e senza ma.
È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino – Italia
La corsa all’Oscar è iniziata con l’anteprima in concorso a Venezia 78, dove Sorrentino si è portato a casa il Gran premio della giuria e il giovane protagonista Filippo Scotti il Premio Mastroianni al miglior attore emergente. Che Netflix punti fortissimo sul nuovo film del regista napoletano non è certo un segreto, vedi la campagna che è partita praticamente da subito. Anche perché, dopo la statuetta vinta da La grande bellezza nel 2014, È stata la mano di Dio era parecchio atteso. Meno sorrentiniano nello stile, ma più dritto e universale nel contenuto, con un super cast (Toni Servillo perfetto nei panni del padre, Teresa Saponangelo meravigliosa in quelli della madre e, tra gli altri, una Luisa Ranieri in una versione assolutamente inedita). Sorrentino non ha deluso le aspettative, firmando un coming of age autobiografico che fa i conti con la sua storia vera e dolorosa. Per trasfigurarla meravigliosamente in un nuovo inizio. E nel Cinema, quello con la C maiuscola. Che salva; o che, forse, “non serve a niente, però ti distrae dalla realtà”, cit. uno dei numi tutelari del regista (Fellini, ovviamente). Facciamo il tifo per lui, ovviamente, potrebbe superarlo solo Hamaguchi.
Flee di Jonas Poher Rasmussen – Danimarca
Un’opera che è un unicum nel cinema (non solo) recente: e infatti Flee è così inclassificabile da essere contemporaneamente candidato agli Oscar di quest’anno come film internazionale, film d’animazione e documentario. La storia è quella, vera e dolorosissima, di un rifugiato afgano nella Danimarca dei primi anni ’90. E la raccoglie, oggi, il regista Jonas Poher Rasmussen, che è il suo intervistatore sullo schermo. Ma la potenza drammatica del documentario è stemperata in un’animazione che riesce, al tempo stesso, ad esaltare e sintetizzare le fortissime emozioni della sua parabola. Amin (questo è il nome con cui il protagonista decide di farsi chiamare) vuole solo passare per un uomo come tanti, che oggi ha un compagno che lo ama e che ha finalmente trovato la forza di raccontare la sua tragica odissea, ma senza volerla rendere sensazionale. E lo stile di scrittura e regia – nonché la scelta di “nasconderlo” sotto un cartoon – rispecchia il pudore con cui lui si vuole mostrare davanti ai nostri occhi. Tra i documentari è tallonato da Summer of Soul di Questlove, come animazione dovrebbe vincere la solita Disney con Encanto, qui c’è la concorrenza spietata di Drive My Car: ma Flee ha già vinto, anche solo per il fatto che non c’è mai stato – e probabilmente mai ci sarà – nulla che gli assomigli.
Lunana – Il villaggio alla fine del mondo di Pawo Choyning Dorji – Bhutan
Il più debole dei candidati, quantomeno sulla carta, ma rilevante perché segna un curioso primato: è la prima volta che il Bhutan viene candidato agli Oscar. Cinema etnografico con tutti i crismi del caso, ma senza eccessi di retorica: da spettatori, c’è il gusto di scoprire un luogo esotico e finora poco (o mai) ritratto sullo schermo, senza però i cliché tipici di una certa produzione d’essai (perdonate la rima). Il protagonista, aspirante cantante che sogna di andare a vivere in Australia, passa dalla capitale a suo modo rutilante (100mila abitanti) al paesello ad alta quota del titolo (55 anime): fa il maestro nella scuola pubblica, e viene trasferito “nella scuola isolata del mondo”, dove nessuno vuole insegnare. Yak, capi villaggio di buon cuore, canti intonati tra le montagne, piccoli alunni che gli faranno scoprire che la vita vera è lì. O forse no: perché il finale resta volutamente aperto, e anche questa è una bella sorpresa. Prodotto e presentato ai festival di mezzo mondo nel 2019, è arrivato sul “mercato” dei premi USA tre anni più tardi: un diesel che ce l’ha fatta.
La persona peggiore del mondo di Joachim Trier – Norvegia
L’educazione sentimentale di Julie, un’eroina millennial alla ricerca di se stessa libera e imprevedibile, diventa una rom-com dall’ironia nordica, sempre in bilico tra comedy e drama. E che delle rom-com fa a pezzi ogni singolo cliché con una grazia quasi brutale. Il cuore pulsante del film è la splendida protagonista Renate Reinsve, già premiata come miglior attrice a Cannes 2021, su cui il regista norvegese Joachim Trier concentra ogni minuto della storia. In qualunque altra declinazione finiresti per odiarla, o quantomeno biasimarla; qui non puoi fare a meno di capirla. Quando un film d’autore trova in una leggerezza che non diventa mai superficialità o macchiettismo la sua chiave. Per farci ridere e piangere, a volte nello stesso momento. La persona peggiore del mondo non vincerà, ma è un piccolo gioiello.