Belfast di Kenneth Branagh
Con Roma, Alfonso Cuarón pare quasi aver inaugurato un nuovo genere, il memoir-mélo (ma era troppo presto, sia per il marchio Netflix che per i sottotitoli, per centrare la statuetta di miglior film). E, se possibile, Branagh investe ancora di più in quel mix di ironia e dolore nel ricordo dell’infanzia. Il racconto semi-autobiografico dell’autore ripercorre gli anni ’60 nell’Irlanda del Nord, spezzata dagli scontri tra cattolici e protestanti (e anche tra protestanti e protestanti-ma-non-abbastanza). Una sorta di album dei ricordi che evoca un pezzo di Storia, ma in maniera sempre personalissima. Belfast ha tutte le caratteristiche dei film che l’Academy ama premiare. Vedremo.
Don’t Look Up di Adam McKay
Fa sempre piacere vedere le commedie, tra i film candidati all’Oscar (ma quest’anno ce n’è una notevolmente migliore: vedi più avanti). E Adam McKay (già favourite dell’Academy grazie a La grande scommessa e Vice – L’uomo nell’ombra) è, in quel campo, uno specialista indiscusso. La social-satira Don’t Look Up centra (forse in ritardo?) il sentimento del tempo, ma non è il suo capolavoro. Nonostante il super cast che schiera, tra gli altri, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett e Timothée Chalamet. Una quota un po’ forzata, ma è uno dei pochi film che hanno visto davvero in tantissimi (su Netflix): nell’epoca “divano batte poltrona” (delle sale), giusto tenerne conto.
Drive My Car di Hamaguchi Ryūsuke
È la sua stagione d’oro, senza se e senza ma. E, dopo un carriera confinata (per modo di dire) nei festival cinéphile, anche il cosiddetto mainstream s’è accorto di Hamaguchi Ryūsuke. Dopo l’Orso d’argento a Berlino nel 2021 con Il gioco del destino e della fantasia e il Prix du scénario a Cannes dello stesso anno per Drive My Car, adattamento di un racconto di Murakami Haruki, è con questo secondo film che conquista l’America. Seguendo l’onda lunga (no: lo tsunami) sollevata da Bong Joon-ho con Parasite. Vincerà tra i film internazionali (sorry, Sorrentino) e non qua: ma il fatto che ormai sia sempre prevista una quota “global” è segno che qualcosa è davvero cambiato.
Dune di Denis Villeneuve
Che il blockbuster (anzi, evento globale) più atteso di questa stagione (anzi, di diverse stagioni ormai) sia in nomination come miglior film è un segnale che gli Oscar stiano allargando anche al grande pubblico. Ma la portata titanica di Dune non significa che non sia anche un titolo d’autore, e che autore: Denis Villeneuve, probabilmente il miglior regista contemporaneo di sci-fi su piazza. L’unico a essere in grado di adattare il romanzo di Herbert, creando un universo visivo talmente maestoso e immersivo da farti sentire la sabbia di Arrakis in faccia, e rendendo il tutto accessibile anche per i profani. Villeneuve è riuscito a portare sullo schermo qualcosa considerato impossibile da filmare. Difficile pensare a una vittoria, ma il red carpet ringrazia: si accettano scommesse sugli outfit di Timothée Chalamet e Zendaya.
Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green
Poteva mancare un biopic in piena regola, tra i titoli nominati quest’anno come best picture? Certo che no. Tra i tanti prodotti in quest’annata e arrivati agli Academy Award in altre categorie (Spencer, Gli occhi di Tammy Faye, Being the Ricardos), la spunta la storia del padre/mentore delle sorelle Williams; che, al 100%, darà un Oscar a un notevolissimo Will Smith. Il regista Reinaldo Marcus Green è pressoché sconosciuto da noi (e pure in patria), ma fa quello che deve fare: mettersi al servizio di uno star vehicle che fila dritto fino alla fine. La ricostruzione è impeccabile, il ritmo c’è anche a dispetto della durata (2 ore e 24 minuti!), la casella Black Lives Matter (pardon) è spuntata con scolastica professionalità.
La fiera delle illusioni – Nightmare Alley di Guillermo del Toro
Dopo l’exploit agli Oscar di quattro anni fa con La forma dell’acqua, Guillermo del Toro torna sul luogo del delitto con un film cupissimo, bestiale (in tutti i sensi), quasi privo di speranza. E per questo poco capito, soprattutto da parte di un pubblico che, dopo due anni di pandemia, ha rifiutato pressoché ovunque una storia così nera. Sotto le luci di un luna park degli anni ’40 si nasconde un trattato socio-psicologico nerissimo e raffinatissimo, condotto da un Bradley Cooper mai stato così bravo (e con lui tutti gli altri, da Cate Blanchett a Toni Collette). Ma questa per del Toro è anche l’occasione per omaggiare il noir classico, rifatto quasi filologicamente ma secondo la sua visione personalissima. Un capolavoro incompreso.
LicoricePizza di Paul Thomas Anderson
Dicevamo: un’altra commedia. Eccola. Anche se con Paul Thomas Anderson non si può mai parlare di comedy tout-court. La storia di Alana e Gary (gli strepitosi Alana Haim e Cooper Hoffman: soprattutto lei avrebbe meritato una nomination) è insieme dramedy, rom-com, coming of age. È un film di PTA, e basta. Che mescola memorie e memorabilia di (eterna) gioventù per il suo ennesimo inno alla Valley e al cinema. Un capolavoro che non assomiglia a nessuno dei concorrenti, e più in generale al cinema di oggi. Anderson è uno dei più grandi autori americani a non aver mai vinto un Oscar: potrebbe farcela a questo giro con la sceneggiatura, ma nelle categorie film e regia verrà clamorosamente scippato anche stavolta. Maledetti!
Il potere del cane di Jane Campion
Non chiamatelo western, perché western non è: definiamolo un post-western psicologico o un intenso dramma da camera, as you wish. Ci sono gli stessi cowboy che citano i cowboy e l’approccio è opposto a quello del genere, tutto mascolinità e spari. Qui la frontiera, se c’è, è quella del mito machista che intrappola e distrugge. Per Campion l’incontro con il romanzo di Thomas Savage è stato fulminante, e si vede nella grazia purissima delle immagini e nella fermezza con cui mette in scena personaggi complessissimi, grazie anche al super cast composto, oltre che da Cumberbatch, anche da Kirsten Dunst, Jesse Plemons e Kodi Smit-McPhee, tutti (giustamente) nominati nelle categorie attoriali. Metteteci lo score atmosferico di Jonny Greenwood e la statuetta come miglior film potrebbe già essere a casa.
I segni del cuore – CODA di Siân Heder
Il remake americano del campione d’incassi francese La famiglia Bélier è migliore dell’originale. Ed è pure il dark horse, come si dice nel gergo dei bookmaker, che potrebbe sparigliare le carte in tavola: i favoritissimi (da mesi) Belfast e Il potere del cane potrebbero restare azzoppati, di fronte a questo feelgood movie apparentemente semplice ma a cui è impossibile resistere. Merito del cast (il “papà” Troy Kostur dovrebbe trionfare tra i non protagonisti, ma anche la “figlia” Emilia Jones avrebbe meritato almeno una candidatura tra le lead) e di un copione che, nel ritrarre una famiglia prevalentemente non udente, non sceglie mai la strada del pietismo. Nemmeno nella scena finale sulle note di Both Sides Now: impossibile non piangere, ma non lo si fa certo per compassione.
West Side Story di Steven Spielberg
Steven dice che sarà il suo primo e ultimo musical, noi ovviamente speriamo di no. Perché la versione di Spielberg del classico di Robert Wise è allo stesso tempo fedele all’originale ma contemporanea nello spirito: la questione razziale al centro della storia di Tony e Maria, i Romeo e Giulietta “di strada” nella New York degli anni ’50, suona infatti più che mai attualissima nella polarizzazione che gli Stati Uniti vivono oggi. E allora quelle canzoni senza tempo, quei numeri musicali dalle coreografie impeccabili, il ritorno di Rita Moreno (che passa il testimone alla nuova Anita, la nominata – come non protagonista – Ariana DeBose) dicono moltissimo. 18 nomination in carriera, di cui 4 vittorie (per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan, entrambi premiati nelle categorie miglior film e regia): a Spielberg di certo non serviva l’ennesima candidatura, ma a noi serviva questo film.