Quando ha iniziato questa avventura che loro chiamano giustamente missione, Valerio Carocci, 31 anni, era solo un ragazzino. Di legge e burocrazia non sapeva niente, e a dirla tutta neanche di cinema, ma a sentirlo parlare oggi si direbbe impossibile. Nessuno sospettava che dall’occupazione di un cinema avrebbero messo in piedi una macchina culturale di questa portata, vinto battaglie legali e subito minacce, che proprio lui sarebbe finito per sei mesi sotto scorta (dopo le aggressioni del 2019 da parte da un gruppo di estrema destra), che avrebbero riempito le piazze di Roma e riportato in vita il Cinema Troisi (non oso fantasticare su come continuerà l’elenco tra qualche anno). Che poi come lo immagini un lavoro così? Mica puoi dire di voler fare l’astronauta da bambino, che titolo gli dai? Forse quello di “frontman dei ragazzi del Cinema America”? «A guardarci in faccia oggi, in effetti, dovremmo smettere a breve di chiamarci “I ragazzi” del Cinema America… (ride) Di quel periodo ricordo che le realtà storiche romane ci dicevano che era impossibile occupare un cinema. Ricordo che era morta nonna da poco, e avevo bisogno di scardinare qualcosa, perché lei ha fatto tanti anni di politica con Argan, Petroselli e Vetere. Ricordo le prime notti al Cinema America, tre calzini e tre mutande, persone che non conoscevo, il terrore di avere delle responsabilità enormi per aver portato un gruppo di ragazzi ad occupare, e poi due anni che non si sono mai interrotti. Non so dove abbiamo trovato le energie. So che c’ho messo il senso di riscatto di un ragazzo che nasceva e cresceva in periferia, ma che voleva comunque avere un luogo d’incontro nel centro storico. E so che come gruppo ci abbiamo messo la volontà di riscrivere il rapporto tra le esperienze sociali e le istituzioni. Perché davvero non capivamo come si fosse potuto bloccare tutto».
Le battaglie
I primi anni in cui iniziavano a prendersi il cuore di Trastevere senza più chiedere permesso («Dopo la riforma Gelmini abbiamo fatto diversi tentativi improntati sulla legalità prima di occupare, ma era impossibile»), io attraversavo Roma per partecipare a più serate possibili. Parliamo di oltre un’ora di mezzi di trasporto dalla provincia verso il centro, anche di notte. Per questo prendo ancora sul personale la loro presentazione: “Dalla periferia siamo partiti e in periferia torniamo. Chi ci è nato e cresciuto, come quasi tutti noi, lo sa. Sa cosa significa macinare chilometri sui mezzi pubblici per raggiungere una libreria, un cinema, un teatro, un museo, o, più banalmente, un posto dove incontrarsi la sera con gli amici”; per questo Emanuele e Simone, tra il pubblico in piazza, mi raccontano che dalla borgata oggi girano le tre arene come fosse un atto di rispetto verso chi il cinema glielo ha portato anche nella piazza di casa. Il fatto è che c’era nell’aria la sensazione, sin da subito, che stesse succedendo qualcosa di diverso. Che al centro del cambiamento ci fossero dei coetanei, dei ragazzi normali che volevano appartenere a un quartiere che di nascita non spettava né a loro né a me né a moltissimi altri. E volevano restituirgli la sua cultura.
«Io sono romana nata a Cinecittà, anzi all’Appio Claudio, sennò mamma s’arrabbia». A parlare è Giulia Flor, 24 anni, membro storico e socio più giovane del Piccolo America, che si occupa dell’ospitalità e dell’organizzazione dell’organico. «Sono qui da sempre. Tramite il movimento studentesco ho conosciuto questi pazzi che avevano la mia stessa esigenza. Così a 15 anni sono andata dai miei e ho detto: “Vogliamo occupare un cinema”, e la loro risposta è stata: “Se ci credi, fallo”. Oggi è diventato il mio lavoro primario». Hanno iniziato come volontari, fino a creare una struttura che stipendia circa 80 ragazzi per l’arena estiva e 40 per il Cinema Troisi. Un grande motore economico per i giovani under 30 e un esempio che contraddice tutto quello che non sta funzionando in Italia. «È stato volontariato per molto tempo, ma è una missione tuttora. Oggi però il guadagno è fondamentale, perché si parla di ragazzi giovanissimi che hanno la possibilità di fare un mestiere che sia realmente formativo e che li arricchisca. Siamo studenti, alcuni fuori sede, e stiamo facendo un lavoro appassionante senza rinunciare alla nostra dignità né al nostro percorso di studi. Siamo vicini a quello che vorremmo fare nella vita». Il più piccolo del gruppo, che nel frattempo si rigenera come è sano che sia, a 18 anni ha già moderato l’incontro con Nicola Piovani e Giorgio Gobbi per la presentazione del Marchese del Grillo.
La prima battaglia è arrivata nel novembre 2012, occupando lo storico Cinema America in Trastevere per bloccarne la demolizione e la riconversione in appartamenti e parcheggi (e per farlo serviva un gruppo di studenti). Poi la riapertura di un forno abbandonato nel rione, da loro trasformato in un piccolo cinema d’essai. Poi le piazze: da San Cosimato nel centro storico di Roma fino alla periferia, portando gli schermi anche a Ostia, Tor Sapienza e Valle Aurelia. Dal 2021, finalmente, l’inaugurazione del Cinema Troisi: uno spazio che in Europa non esiste, aperto ogni giorno dell’anno, ventiquattr’ore su ventiquattro, con un’aula studio che non chiude neppure la notte. Luce sempre accesa, perché in fondo quell’occupazione non è finita mai.
«L’aspetto più complesso è il doversi confrontare con tantissimi interlocutori senza scontentare nessuno né snaturarsi», racconta Carocci, presidente del Piccolo America. «Una delle battaglie più importanti degli ultimi anni è stata combattuta sul Cinema Metropolitan, che stava per essere riconvertito in centro commerciale al 95% sulla destinazione d’uso, quindi si parlava della scomparsa totale della sala. Dopo anni è finalmente arrivato il no della Regione Lazio a quella che era una delibera al tempo della giunta Raggi, che aveva approvato la riconversione da parte del Campidoglio. Quello è stato forse il momento di maggior difficoltà, in cui abbiamo dovuto interagire con tutti gli enti che finanziano questa manifestazione e i lavori del Troisi, ma mantenendo ferma la nostra posizione: ovvero che le sale cinematografiche vanno tutelate. Stessa cosa per quanto riguarda la vertenza Antitrust» (un conflitto legale senza precedenti nel settore, giunto al termine nel 2021 con la sentenza del Tar a vantaggio del Piccolo America, che ha confermato una condotta di boicottaggio contro le arene gratuite, multando di fatto quelle che sono le lobby dell’esercizio cinematografico sul territorio). «Se mi chiedi se stiamo facendo la storia, non oso dirti di sì», e questo è Lorenzo Costa, socio e proiezionista a cui il pubblico è particolarmente affezionato, ora tra i sette gestori del Troisi. «Certo è che l’attenzione della stampa internazionale, l’uscita su testate come Variety, ha iniziato ad allargare gli orizzonti. Ti dico però che la mossa dell’Antitrust è stata una roba davvero fica, dirompente, di frattura. Mettersi contro mezza industria ma con una finalità più alta per tutti».
«Siamo andati a denunciare gli stessi interlocutori con cui parlavamo», continua Carocci, «e abbiamo rinunciato a tanti rapporti costruiti all’interno dell’industria, per giunta alla vigilia dell’apertura del Troisi. Abbiamo scommesso su una battaglia in cui tutto era certo tranne la vittoria, mentre avevamo le ipoteche sulle nostre case. Se prima chiedevamo ai grandi maestri un appello corale per sostenerci, a un certo punto abbiamo deciso che quelle battaglie le dovevamo sostenere da soli. Lì si è creato un rapporto di fiducia ancora più grande con loro e con il pubblico, perché tutti hanno visto che quei ragazzi del Cinema America erano diventati adulti».
La voce del popolo
Vengo a trovarli proprio in piazza, perché qui la storia è come ai concerti: sottopalco al Pit Gold ogni tanto va bene, ma quanto è bello stare in mezzo alla gente? E nel Cinema in Piazza non esiste area vip. Neanche l’ombra, nemmeno per chi è vip davvero. A separare il popolo dall’Olimpo c’è solo il telo proiettore, i big arrivano in mezzo a cinquecento persone senza rispettare alcuna liturgia, poi li vedi sfilare come silhouette dietro le immagini del loro stesso film per andarsene a mangiare in qualche trattoria nei paraggi (mentre scambio due parole con Virzì sul Piccolo America, un anziano del quartiere lo avvicina: «Questo è un regista! Ma che sei Arberto Sordi?», e pure questa è magia). Forse sembra una robetta da poco, per chi naviga tra festival e red carpet. Non è cosa da poco invece per il pubblico. «Qui non c’è più quella barriera tra spettatore e regista, tra il popolare e l’esclusivo, con i 15 metri di distanza e quel momento di silenzio con la platea buia e un’atmosfera sacrale», mi dice Federico Croce, 27 anni, direttore generale e supervisore della macchina logistica, anche lui tra gli storici. «Abbiamo voluto unire l’evento mainstream alla parte d’essai. Mentre proiettiamo Francesco Rosi a Monte Ciocci, alla Cervelletta diamo Il signore degli anelli, soddisfacendo due pubblici differenti che però entrano in contatto. Così chi è in piazza il giovedì a guardare Peter Jackson poi magari torna pure domenica e si trova davanti Kurosawa o Pawlikowski».
Le prime estati, quelle in cui sedevamo tutti a terra sui cuscini e i teli da mare bevendo birre come fosse il picnic del cinema, eravamo una marea umana di studenti. Amanti dei film, chi girava i primi cortometraggi, chi si era trasferito da poco. Oggi ritrovo un pubblico variegato e senza età, pochi cinefili e molti neofiti a riempire le arene ogni sera. Mi viene quasi da ridere, forse ho viaggiato nel tempo e sono finita in un’epoca senza crisi delle sale? «Ho seguito tutto dall’inizio, conosco anche uno dei ragazzi», mi dice la signora Lucia, 78 anni. «Io abito a Monteverde Vecchio, scendo a piedi dalla collina e vengo qui. Loro sono i più tenaci di tutti, hanno creato questa cosa dal nulla. Prima c’era solo Moretti col Nuovo Sacher». Mi imbatto in una coppia adulta, Rosario e Rossana, gli chiedo se sono degli habitué e mi becco una storia pazzesca: «Habitué? Noi ci siamo conosciuti e innamorati qui, davanti a una fiaba: quella sera davano Cenerentola. Prima Piazza San Cosimato non era mica così bella». Emanuele e Simone invece, «trent’anni e passa» ciascuno, vengono dal Prenestino: «In questo modo proviamo ad essere un po’ cinefili pure noi. Frequentiamo parecchio le loro arene, Cervelletta, Monte Ciocci… Venendo dalle borgate è stato bello vederli portare gli schermi anche nelle zone periferiche di Roma, così li sosteniamo. È dai tempi di Natale Del Grande che stamo qua (la via in cui è situato il Cinema America, occupato dai ragazzi nel 2012 per due anni, nda), e poi dalla prima volta che hanno proiettato in piazza. Veniamo anche per mantenere i rapporti umani, che si sono spaccati con il digitale. Per esempio stasera abbiamo parlato mezz’ora con questa signora, che è qui da sola». «Come si faceva un tempo, perché io so’ all’antica», risponde la signora in questione, sulla settantina. «Ma poi lei chi è, scusi?». Mi presento, giustamente, poi le chiedo perché si trova lì: «Perché mi piace stare all’aperto, in mezzo a persone che fanno cose belle. Non sono di zona, ma qui ci vengo anche se al cinema ci andavo più volentieri quand’ero giovane. Questo magari non lo scriva, ché sembra brutto».
Antonio, 40 anni, che evitava le sale dalla pandemia, stasera invece riparte da qui: «Questo posto mi riporta in un’altra dimensione, è come se per qualche ora si tornasse in un’altra epoca. Mi fa pensare a un nuovo drive-in». Individuo un gruppetto che mi ricorda me stessa ai tempi dell’università (che magone, ’sto Cinema in Piazza). Fabiola e Penelope, 23 anni, una dalla Sicilia e l’altra dall’Abruzzo, si sono trasferite a Roma un anno fa e hanno scoperto il Piccolo America grazie alla biblioteca del Cinema Troisi, dove vanno a studiare per gli esami di Comunicazione e Turismo: «Dopo la prima volta siamo tornate subito, perché c’è un’atmosfera incredibile e gente di qualsiasi età. Ci piace il fatto di avere un rapporto così vicino con i registi, gli attori e il pubblico». Visto che ho il dente avvelenato con il trend qualunquista dei giovani che non lavorano, e i ristoranti che non trovano personale, e la cultura che è stata rovinata dalle nuove generazioni, a loro chiedo se magari l’ingresso libero possa averle incentivate giusto un po’: «Tantissimo, in realtà. Un adolescente o un fuorisede non può permettersi di andare tutte le settimane al cinema, se lo concede solo quando c’è un film che vuole veramente vedere, come se fosse un’esperienza di lusso (un indizio: i giovani cresceranno, guadagneranno e diventeranno pubblico pagante, nda). Questa è una realtà che ti avvicina molto al cinema, perché magari stai passeggiando e sei portato a fermarti senza pensarci troppo. Noi per esempio non sappiamo niente del film di stasera, neanche il titolo. Lo scopriremo tra poco».
Quando poco dopo racconto a Francesca Archibugi che in piazza, oltre a Fabiola e Penelope, in molti non conoscono né lei né il suo film, le domando che effetto le faccia sapere che qui in mezzo c’è un pubblico che ancora deve scoprirla: «A me piaceva tantissimo quando i registi stavano dietro. Alla fine, quando la gente andava a vedere un film di George Cukor, perché ci andava? Magari solo perché c’era Gregory Peck. Ecco, questa eccessiva auto-idealizzazione del cinema per certi versi è stata bella perché dirompente, però si è sganciata dal pubblico popolare, a cui in fondo non interessa sapere chi è il regista. Il pubblico vuole vivere la storia, gli attori, un’esperienza». Il punto di tutta la questione inizia ad essere evidente, no? Nel dubbio lascio un altro indizio di Federico Croce: «Se mille persone passano due mesi a vedere film, saranno poi più invogliate ad andare al cinema, perché diventa un’abitudine. Invece il settore rispondeva che così stavamo solo abituando il pubblico a vedere gratuitamente i film. Da questa grande polemica è arrivato il nostro Troisi: oggi è il primo monosala d’Italia per incassi, anche rispetto al risultato pre-pandemia del 2019. Se tu metti qualcuno nelle condizioni di affezionarsi a un tipo di cultura e di intrattenimento, poi è più facile che torni in sala. Mentre parliamo abbiamo mille persone in piazza a guardare un film del 2009 e dall’altra parte un film di Rosi che ha quarant’anni. Nel frattempo al Troisi stanno strappando altri biglietti. Ecco, questo mi sembra un dato evidente».
Lav Diaz collettivo
Mentre il pubblico aspetta che Archibugi, Virzì e Ramazzotti arrivino a presentare Questione di cuore, cerco di capire come sia possibile che centinaia di cittadini si sbattano tanto per partecipare a quest’evento, tracciando una statistica totalmente in contrasto con quella generale. Non ci crederete, ma mi arriva sempre la stessa risposta: «Per la tenacia dei ragazzi», dicono (nel pubblico scelgono tutti, incredibilmente, questa parola) e perché hanno ottenuto «la fiducia dei grandi nomi del cinema». Penso che avrei risposto come loro: questa a Roma la chiamiamo la voce der popolo, arriva dalla pancia e non la boicotti neanche con i miliardi. Allora lo chiedo a due dei famosi “nomi del cinema”, visto che siamo tutti qui: ma perché dieci anni fa hanno dato fiducia incondizionata a un gruppo di adolescenti che volevano cambiare il sistema? «Perché ci ha impressionato il loro entusiasmo, il fervore autentico che avevano già all’epoca», mi spiega Paolo Virzì. «Erano dei bambini cresciuti con la curiosità di guardare i film senza essere dei cinephiles. Erano appassionati in senso primitivo, quello più bello, non pomposo né accademico. Genuino. Ci hanno chiesto aiuto ed è stato spontaneo darglielo, perché era esattamente quello di cui noi avevamo bisogno, cioè il dialogo». «Perché qui si tratta di politica culturale», aggiunge Francesca Archibugi, «e il progetto è sempre stato molto interessante e lucido. Il fatto che partisse da un’occupazione ha creato un equivoco, poteva sembrare che fosse qualcosa di più movimentista, che peraltro sarebbe comunque bello. Invece Valerio, Giulia e gli altri ragazzi avevano una missione da operatori culturali: dialogare con le istituzioni, conquistare gli spazi. Trovare tutto questo in dei ragazzi così giovani era davvero una grande novità. In trent’anni sono andata nei centri sociali, nelle università e nei licei occupati, ma questa cosa qua l’ho sentita subito diversa, capito? Una cosa unica».
La programmazione di quest’estate distribuita sulle tre arene romane (San Cosimato, Monte Ciocci e Cervelletta) va dalle rassegne su Hitchcock, Larraín e Vinterberg a serate con ospiti internazionali come Pawlikowski, Michael Radford a presentare Il postino, Wes Anderson con Moonrise Kingdom, Kurosawa con Tokyo Sonata, Fanny Ardant con La signora della porta accanto, senza saltare i classici “a colpo sicuro” come E.T., Fight Club, Biancaneve e i sette nani e Il re leone. E a giudicare dalla bolla del Piccolo America, il cinema starebbe benissimo. La rivoluzione che portano avanti da anni non si è plasmata su un’idea di cinema popolare, ma di fruizione popolare (e il segreto forse sta tutto in questa differenza fisiologica). Qui gli spettatori non scelgono il film, ma un luogo a cui dare fiducia. Un simbolo. «Anche la proiezione di Lav Diaz per noi dev’essere una manifestazione collettiva. Lo stare insieme ha restituito la magia del grande schermo, ha abituato le persone e ha fatto notare la differenza con lo streaming».
«Noi vediamo la piazza come una palestra per i rapporti sociali. Stiamo insieme agli spettatori, ci chiacchieriamo, ci ridiamo. Sappiamo che c’è la signora che arriva sempre alle 18 e sta un’oretta seduta solo perché è anziana e vuole stare al fresco con la sedia. Ci sono ragazzi che dieci anni fa giocavano a pallone sulle serrande mentre allestivamo la piazza e oggi ci dicono che vorrebbero studiare cinema. Mi ricordo la festa di quartiere quando ero piccolo, il momento più bello dell’anno. Ti incontravi con tutti i tuoi amici e non aspettavi altro. Noi cerchiamo di regalare ogni sera la stessa emozione al pubblico». «Io qui ho imparato un mestiere», continua Lorenzo Costa. «Venivo dai centri sociali e ho scoperto un’atmosfera diversa, la piazza piena, l’attimo di silenzio che si crea prima che Valerio salga sul palco. Quando finisce lo spettacolo il pubblico ci aiuta a sistemare le sedie, può succedere solo qui». Nel caso non fosse chiaro il parere dell’establishment, Virzì chiude il cerchio: «Il cinema deve circolare come l’aria e come l’ossigeno. C’è il momento per andare a vedere le novità in sala e sbigliettare, e poi c’è anche quello per le retrospettive all’aperto, e ha senso che siano gli sponsor a pagare. È tutto molto sano, qui si fanno e si vedono belle cose. Ti accorgi che è un modello giusto dal seguito che hanno».
Quelli con le magliette viola
A Trastevere io ci sono nata, ma solo per caso, nell’ospedale del rione. A Trastevere per qualche anno ci ho anche abitato, ma per un lampo di fortuna, e con la sindrome dell’impostora. Quel periodo avevo un rito che ho faticato a lasciar andare: in estate passeggiavo fino a San Cosimato per gustarmi l’allestimento della piazza di fronte a un bicchiere di vino. Guardavo i ragazzi e le ragazze sistemare le postazioni, aprire il chiosco e provare il proiettore, tutti insieme con quelle magliette viola e gialle addosso, sembravano i gladiatori della piazza. Stavano creando un rito e un precedente in una città talmente storica che bisogna lottare per provare a scrivere anche solo un altro pezzetto di storia. «Questa maglia per me rappresenta l’identità», mi dice Giulia Flor. «Dove sono cresciuta non ho mai avuto uno spazio che fosse casa, un simbolo che mi facesse sentire sicura. Sia chiaro: questo luogo non esisteva più neanche in centro. E invece adesso guardo questi ragazzi che si avvicinano a noi, che girano per la città, e quando vedono la nostra maglietta trovano anche uno spiraglio di luce. Riescono a riconoscere che c’è un cinema aperto ventiquattr’ore su ventiquattro dove possono studiare, andare a vedere film a dei prezzi popolari (7 euro un biglietto intero, 5 euro un ridotto con le retrospettive gratuite la mattina). La possibilità di fruire del cinema in piazza, in estate, ed esserne anche protagonisti, parlando con chi la settima arte la crea. Questa maglia è un simbolo di possibilità».
Mentre chiacchieriamo, la mamma di Valerio Carocci lo aspetta in un angolo della piazza. «Non ci vediamo da due mesi, l’unico modo è farla venire qui e poi cenare insieme», mi spiega prima di raccontarmi, come se niente fosse, qual è il vero obiettivo. «Il Troisi è solo il primo». Ovvero: il trampolino di lancio per creare un multisala diffuso in tutta Trastevere dalle atmosfere quasi fiabesche, in risposta a quelle che lui definisce «le cattedrali nel deserto dei The Space». «Siamo in un rione del cinema che un tempo aveva circa 12 sale oggi abbandonate, ma che potrebbero essere riaperte». Mentre in piazza suonano le voci di Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, Carocci si prende un momento, guarda lontano e poi continua a tratteggiare le linee del futuro: «Tra un vicolo e l’altro non ci saranno più le sale numerate, perché immaginiamo sale con una loro identità, il Pasquino, il Roma, il Reale. Le casse d’ingresso su Ponte Sisto e Ponte Garibaldi: entro nel rione come fosse un multisala e cammino per i vicoli di Trastevere girando tra un cinema e l’altro. Questo è il sogno. Vogliamo un centro nevralgico che competa con i multiplex». Poi ci salutiamo, e finalmente raggiunge sua madre.