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Dove la metti, sta. Dakota Johnson è la dimostrazione che si può essere un’attrice notevole anche senza grandi film, grandi autori (Luca Guadagnino a parte) e, anzi, con un curriculum costellato di “scult” e polemiche (leggi: la saga di Cinquanta sfumature di grigio). A 30 anni, arriva con una commedia musicale che potrebbe essere un piccolo punto di svolta: L’assistente della star, disponibile on demand su varie piattaforme, è un film pop (anche nel senso letterale del termine) che intrattiene il pubblico e piace anche alla critica. Nell’attesa del vero capolavoro, ripassiamo la sua filmografia, da enfant prodige a star.
Discendente della Hollywood Royalty (il padre è Don Johnson, la madre è Melanie Griffith, ma soprattutto la nonna materna è l’hitchcockiana Tippi Hedren), Dakota esordisce sullo schermo a 9 anni nell’opera prima del terzo marito di mammà: Antonio Banderas. Mentre noi sfogliamo i nostri album di famiglia, lei si rivede in questa dark comedy mica male. Dove, in poche scene, dimostrava già di essere una piccola stella.
L’autore è eccelso: David Fincher. Il ruolo, però, è ancora da comprimaria, anzi quasi un cammeo. Ma, nella parte dell’amante di una notte di Sean Parker/Justin Timberlake, lascia ancora il segno. Non solo per lo slippino rosso abbinato alla maglia di Stanford: ma perché è quella che rivela al fondatore di Napster l’esistenza di un certo Facebook. Il resto lo sapete.
C’era bisogno di questo ennesimo chick flick quasi un aggiornamento (ma, se possibile, più sboccato) di Sex and the City agli anni ’10 del nuovo secolo? Certo che no. Ma la nostra, affiancata dalle scatenatissime Rebel Wilson e Alison Brie, fa sempre il suo. E si conferma un ottimo veicolo per la più classica delle rom-com. Anzi, quasi un buddy movie al femminile: dopo la saga di Cinquanta sfumature (vedi più avanti) basta uomini, sono più importanti le amiche.
Pochissimi minuti in scena: ma, a detta della stampa di tutto il mondo, Dakota brilla. Dopo il massacro per il ruolo di Anastasia Steele nel film tratto dal primo bestseller di E.L. James, questo gangster movie “all’antica” (ma di certo non memorabile) è il titolo che riconcilia Johnson coi critici. Meno col pubblico, che lo ha disertato nonostante la presenza di un debordante Johnny Depp. A cui l’attrice riesce a tenere ampiamente testa: è (ri)nata una stella.
Il film è più “di” Shia LaBeouf e della rivelazione Zack Gottsagen, ragazzo affetto da sindrome di Down che ruba la scena a tutti. Ma Dakota, nei panni dell’assistente sociale che va alla ricerca del secondo dopo la sua fuga dal centro che lo ospita, regala una sensibilità e un’empatia commoventi. Un piccolo cult indie-festivaliero da noi bloccato dalla pandemia, finché non è uscito – qualche settimana fa – in streaming on demand: recuperatelo.
La diva Dakota si fa da parte: come dice il titolo italiano (l’originale è The High Note), la star qua è Tracee Ellis Ross, altra figlia d’arte nella vita (della Diana delle Supremes) e qua popstar tra Cher e J.Lo. Johnson è la sua personal assistant, appunto, che però sogna di fare la produttrice musicale. Uno sguardo “dall’interno” al mondo della discografia non scontato, con inevitabili sviluppi “rosa”. Ma Dakota che batte Diplo nella produzione di un pezzo è da antologia. (Dal 26 giugno al cinema e in digitale).
Nel neo noir dallo stile rétro e un po’ tarantiniano del regista di Quella casa nel bosco, Dakota fa il suo sporco lavoro insieme a un super cast (da Jon Hamm a Jeff Bridges e Chris Hemsworth) nel dare vita a uno dei sette personaggi che si incontrano in questo hotel misterioso sul confine tra la California e il Nevada. E finalmente si slega dai ruoli che la vogliono sempre “tenera e caruccia”. Il suo nome è tutto un programma: Emily Summerspring. Johnson interpreta infatti una hippie con intenzioni che si riveleranno poi tutt’altro che pacifiche. Vedere questa foto in cui imbraccia il fucile per credere.
Il biglietto per la celebrità oltre la definizione di “figlia di” per Dakota arriva con la saga kinky tratta di romanzacci di E.L. James: una porcheria universalmente riconosciuta, che però ha conquistato i botteghini di San Valentino per tre anni consecutivi. Il problema principale (tra i mille) è che quella che ci era stata venduta come trasgressione allo stato puro si è rivelata alla fine per quel che è: una storia d’amore nel senso più classico del termine. Anzi, una noia mortale. Ma per fortuna che c’era lei: Dakota. Un vero e proprio colpaccio nel casting. Non potremmo immaginare nessun altro nei panni di Anastasia Steele, la studentessa ingenua che viene iniziata al sadomaso da mister Grey. Che invece con il casting non è stato altrettanto fortunato. Da qualche parte bisognerà pur cominciare.
Che ci si trovi davanti a un Suspiria differente è chiaro fin dai titoli di testa, un trama onirica di immagini macabre accompagnate dalla musica ossessionante di Thom Yorke. Il film ha diviso parecchio la critica – e in effetti o lo ami o lo odi, non ci sono vie di mezzo. Guadagnino fonde la danza inquietante delle streghe by Dario Argento con l’altrettanto angosciante realtà politica all’ombra del Muro di Berlino nel 1977. E libera definitivamente Dakota dalle manette di Cinquanta sfumature, facendole raccogliere fisicamente il testimone da Jessica Harper, la protagonista del film originale, e affiancandola a una Tilda Swinton scatenata, alla quale Johnson tiene benissimo testa. Finalmente Dakota balla da sola.
La consacrazione di Dakota non (solo) star da grandi platee ma attrice certificata avviene in un clash europeissimo: il primo dei suoi due film con il neo-auteur Guadagnino è il liberissimo remake della Piscina, caposaldo sexy-intellò di Jacques Deray con Alain Delon e Romy Schneider. Johnson è l’eterna lolita figlia di Ralph Fiennes che fa entrare in collisione la coppia Tilda Swinton-Matthias Schoenaerts. Occhiali da sole e bikini più-vedo-che-non-vedo (o addirittura senza), la nostra si mangia tutti, in questo “teorema” hot con cui autoironizza sulle precedenti Cinquanta sfumare, aprendo una nuova fase della sua carriera. Dakota ha fatto definitivamente splash.
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