FOTO
Clint Eastwood è una leggenda di Hollywood a sé: è uno dei più grandi registi in vita ma anche una delle star del cinema più indelebili, dalla Trilogia del Dollaro all’ispettore Callaghan. È stato protagonista di più di 60 film e ne ha diretti una quarantina, portando a casa due Oscar per la regia, due per il miglior film e uno alla carriera. Instancabile, negli ultimi cinque anni ha aggiunto ben quattro titoli alla sua galleria: Ore 15:17 – Attacco al treno, Il corriere – The Mule, Richard Jewell e Cry Macho – Ritorno a casa. E per festeggiare il compleanno di Clint (auguri!) abbiamo stilato un best of delle sue regie.
A 84 anni, Clint firma un dramma bellico così teso che gli perdoniamo pure la (viralissima) svista: l’evidente bambolotto che regge tra le braccia Bradley Cooper (dovrebbe essere il figlio neonato). Ma la soggettiva “a misura di cecchino” è la chiave giusta per trasferire tutta l’allucinazione (e il pericoloso senso di onnipotenza) del protagonista. È arrivata la nomination all’Oscar per il film, ma non quella alla regia: stranezze dell’Academy.
Esordiente alla regia relativamente tardivo (aveva 41 anni), Eastwood, già icona della recitazione, dimostra da subito una notevole padronanza del mezzo “on the other side”. Dirigendo se stesso in un thriller che oggi col MeToo non la passerebbe liscia: al centro c’è una donna che architetta false molestie per i suoi comodi criminali. Il neo-autore sapeva già contornarsi dei migliori: dal direttore della fotografia Bruce Surtees a Don Siegel, in un cammeo con cui dà la sua benedizione all’amico.
Si può girare un intero film – o quasi – dentro l’abitacolo di un aereo (e in un’altrettanto claustrofobica aula di tribunale) e farlo sembrare un action speditissimo? Clint può. Il biopic del pilota Chesley Sullenberger (un gigantesco, tanto per cambiare, Tom Hanks), che fa atterrare il suo volo in avaria sull’Hudson River mettendo in salvo i 155 passeggeri a bordo, è innanzitutto un film di sguardo e montaggio. Che si prende solo il tempo necessario: 96 minuti, senza sbrodolare. Anche questo è saper dirigere.
L’opera seconda (Lo straniero senza nome, 1973) è il suo primo vero “western presso se stesso”. Ma è tre anni dopo che arriva il film di frontiera auto-diretto più celebre della sua filmografia (almeno fino agli Spietati: vedi più avanti). Ispirato al romanzo di un ex leader del Ku Klux Klan, fu tacciato di razzismo, nonostante l’amico Michael Cimino avesse “ripulito” gran parte della sceneggiatura. Ma Time Magazine lo definì uno dei migliori film dell’anno, salutando il regista come il vero erede di Sergio Leone. Chapeau (da texano, of course).
C’è chi, tra i film degli anni zero, lo preferisce a Million Dollar Baby (noi, per esempio). Certo è che si sarebbe meritato un maggior successo istituzionale, e non soltanto una nomination per la miglior canzone (!) ai Golden Globe. Perché questa è molto più della semplice parabola di un vecchio razzista redento (interpretato dallo stesso Clint, forse mai così empatico): è quasi la riflessione dell’autore stesso, ormai arrivato a quasi ottant’anni, sul suo posto nel cinema. Resta il successo di pubblico: 270 milioni di dollari di incasso nel mondo. E va bene così.
Dopo tanti film (e regie) muscolari, un mélo in piena regola che, almeno sulla carta, non sembrava nelle corde di Clint. E invece. Uno dei casi in cui il film è meglio del romanzo (di Robert James Waller). Grazie alla sbalorditiva alchimia tra i due protagonisti (accanto al fotografo Robert Kincaid Eastwood c’è l’indimenticabile “casalinga disperata” Francesca di Meryl Streep) e una regia che tratta il romance come fosse un thriller incalzante. Fino a uno dei finali più struggenti della storia del cinema. Fazzoletti utilizzati, allora come oggi: inquantificabili.
Il film più premiato di Clint (almeno insieme agli Spietati). C’è un certo compiacimento ricattatorio nel racconto della tribolata ascesa della campionessa di boxe Maggie Fitzgerald (Hilary Swank, che si è aggiudicata il suo secondo Oscar). Ma la potenza del dramma da ring è indubbia, la regia appassionata, le performance tutte memorabili (vedi anche il “best supporting” Morgan Freeman, un’altra delle quattro statuette totali). Un instant classic che lascia (ancora) KO.
Il nostro si cimenta anche con il biopic musicale e mette a segno un altro grande film, che racconta luci e (soprattutto) ombre del leggendario sassofonista Charlie ‘Bird’ Parker. Eastwood predilige le atmosfere notturne più congeniali al personaggio ed evita il racconto convenzionale e lineare per andare incontro alla libertà del jazz e all’improvvisazione anche nello storytelling, caratterizzato da un continuo muoversi avanti e indietro nel tempo. Il resto lo fa uno strepitoso Forest Whitaker nei panni del protagonista.
Clint riesce a tirare fuori sempre il meglio dai suoi protagonisti, in questo caso il trio delle meraviglie Sean Penn, Tim Robbins e Kevin Bacon. Apparentemente il film è un thriller macchinato alla perfezione sul mistero che circonda l'improvviso omicidio di un boss della mafia locale (Penn), ma in realtà Eastwood ne fa un dramma cupo e riflessivo su come il passare del tempo ci renda tutti più duri e di come la disperazione ci possa trasformare in mostri.
Spesso assurdamente dimenticato nei best of di Clint, è in realtà uno dei suoi lavori più belli dietro la macchina da presa. E una delle interpretazioni più clamorose di Kevin Costner, qui all’apice della carriera dopo Balla coi lupi e Bodyguard. L’attore rischia tutto interpretando un criminale violento in fuga che prende in ostaggio un piccolo Testimone di Geova. Clint firma un crime drama intelligente, crudo e toccante sullo sfondo di una campagna texana mai così malinconicamente perfetta.
Due film che sono due facce della stessa (tragica) medaglia: la battaglia di Iwo Jima. Eastwood firma una lettera d'amore agrodolce dedicata alle truppe della Seconda Guerra Mondiale. Quelle americane, ovviamente, ma pure quelle giapponesi. La prospettiva sul conflitto non è mai politica, perché Clint mette al centro il bilancio umano. E, a sorpresa per un patriota come Clint, il film sui soldati del Sol Levante è una delle sue opere più riuscite, e uno dei più grandi film sulla guerra mai realizzati.
Gli spietati (1992) Se Il buono il brutto e il cattivo, apice della carriera da attore di Clint, era una visione romantica del western, Gli spietati è il vertice assoluto dell’Eastwood regista e perfetto epilogo di una vita nel cinema di frontiera. Clint non è più il pistolero freddo, ma un cowboy distrutto da una vita di omicidi. Un dolorosissimo trattato contro la violenza, scritto, girato e interpretato meravigliosamente. Oltre che dal nostro, pure da Morgan Freeman e Gene Hackman.
Restiamo
in contatto
Ti promettiamo uno sguardo curioso e attento sul mondo della musica e dell'intrattenimento, incursioni di politica e attualità, sicuramente niente spam.