I 100 film degli anni Novanta da non perdere (19-1) | Rolling Stone Italia
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I 100 film degli anni Novanta da non perdere (19-1) | (39-20)

Slacker e serial killer, 'Fight Club' e 'Pulp Fiction': le commedie, i thriller, gli horror e le pellicole drammatiche più rilevanti degli anni Novanta

I 100 film degli anni Novanta da non perdere (19-1)

Ah, gli anni Novanta. Il decennio che ci ha dato film indie destinati a diventare dei tormentoni ed effetti speciali alla Matrix, fight club e commessi sboccati per via di Kevin Smith, serial killer cannibali e carismatici e slogan come “Scegli la vita!”, tizi competitivi da Rushmore Academy e “Royal con formaggio”. Ripercorrendo i film che hanno reso gli anni Novanta un decennio sorprendentemente fertile per i registi e gli appassionati di cinema, si intuisce presto che le basi del cinema degli ultimi anni sono state poste proprio in quella fase, dall’ascesa dei documentari come fenomeno mainstream ai tocchi meta che hanno trasformato opere che mescolano generi vari in musei delle cere parlanti. Il Sundance ha fatto per i registi indipendenti quello che Seattle ha fatto per i musicisti grunge. Era un periodo in cui andavamo in giro con fannulloni e tossicomani scozzesi, criminali dalla lingua di velluto e tizi che sapevano stare alle regole. Potevamo essere cyberpunk da morire. Sapevamo cose di kung fu.

E così abbiamo messo insieme una squadra di fanatici di cinema, avvoltoi della cultura, esperti di cultura pop e critici vari per stabilire i cento film migliori degli anni Novanta. Dai vincitori degli Oscar a piccole gemme dimenticate, dalle saghe di non fiction a sfondo sociale a sette ore di capolavori ungheresi, da Titanic a Tarantino. Sono questi i film che abbiamo citato senza posa, che ci hanno fatto litigare e ai quali continuiamo a pensare. Uscite dalla cabina telefonica, stappatevi una gazzosa e date inizio alle danze.

19. “Fight Club” (1999)


L’adattamento del romanzo di Chuck Palahniuk realizzato da David Fincher – un film brutale e visivamente strepitoso – ha una trasversalità così perfetta da risultare in una chiamata alle armi dei giovani punk intenti a mandare tutto a puttane ma anche in un manifesto per le persone inserite nel sistema e più grandi di loro che vogliono ripudiare il nichilismo degli anni Novanta. Il merito va alle star Edward Norton e Brad Pitt, due protagonisti che interpretano lo ying e lo yang dell’autodistruzione del macho, soprattutto quando una certa svolta assassina prende largo nel film. Anche se descrive in maniera precisa il senso di sradicamento della classe media ai tempi della Generazione X, la sua capacità di approfondire l’alienazione da fine secolo vale ancora: per i progressisti anti-materialisti e gli alt-right, per gli attivisti #NotAllMen e i GamerGaters, e per qualsiasi persona incazzata e sconsiderata che trova una comunità capace di ospitare i suoi peggiori impulsi. NM

18. “Paris is burning” (1990)


Prima che Madonna si appropriasse della ball culture in Vogue la regista agli esordi Jennie Livingston ha puntato la sua macchina da presa su quella stessa scena ad Harlem, dove le “houses” ospitavano tenzoni inventive tra drag queen e facevano da surrogato del nucleo familiare per gli uomini omosessuali o le donne trans di colore. I performer spiegano chiaramente quanto il razzismo, l’omofobia e la povertà abbiano ostacolato i loro sogni di gloria; qualcuno viene addirittura assassinato. I detrattori hanno accusato Livingston di sfruttare i suoi soggetti, ma il film resta un’istantanea cruciale di una comunità la cui influenza altrimenti sarebbe stata cancellata del tutto dalla cultura mainstream, che ne ha saccheggiato le idee. JB

17. “Toy Story” (1995)


Non c’era nulla che somigliasse vagamente a questa favola Pixar su delle action figure e il bambino che le adora quando la prima proposta della compagnia entrò nei cinema. Un decennio e rotti più tardi, e non c’è nulla che non le somigli. Già di primo acchito si capiva che questo film animato era destinato a entrare nella storia, ma ciò che l’instant classic di John Lasseter ha dimostrato è che, al di là della tecnica spettacolare, questa storia poteva offrire tutto il calore e la profondità di un disegno fatto a mano. Gli effetti nella pista di sabbia saranno pure avvenieristici, ma Woody, Buzz Lightyear e il resto della gang hanno un senso dell’amicizia e dell’avventura che è vecchio quanto l’infanzia. ST

16. “Le iene” (1992)


Il primo film di Tarantino ha dato il la a tutto quanto sarebbe successo dopo: la narrazione con la linea temporale sballata che lo rende un film a sfondo rapina senza la rapina; le citazioni pop, come la disquisizione iniziale sul vero significato di Like a virgin di Madonna, e la colonna sonora eclettica che ci farà associare sempre Stuck in the middle with you degli Stealer Wheel con l’immagine cruenta di un poliziotto a cui viene tagliato l’orecchio. Ma Le iene era destinato a diventare più famoso del suo creatore: è stato il canto iniziale di una rivoluzione indie. Dopo un’epoca dominata dalle produzioni Merchant/Ivory, un’ondata sanguinolenta di film di genere ha improvvisamente trasformato l’arthouse in una grindhouse. Le cose non sarebbero più state come prima. ST

15. “Matrix” (1999)


Il film di fantascienza più importante del 1999 sarebbe dovuto essere La minaccia fantasma, ma alla fine spuntò fuori questo vero e proprio mind-bender, che ha dettato l’agenda per tutti i blockbuster del decennio successivo. Matrix si basa su una combinazione euforica di messaggio politico e scene d’azione coi controfiocchi, e ha una premessa brillante: l’hacker anonimo Thomas Anderson (Keanu Reeves) scopre di vivere in una simulazione elaborata orchestrata dai robot che hanno ridotto l’umanità in schiavitù. Ovviamente solo lui può mettere fine a questa situazione. Lilly e Lana Wachowski hanno introdotto il bullet-time nel mondo degli effetti speciali e le scene di lotta sospese, conferendo una dinamicità postmoderna al classico viaggio dell’eroe. Allo stesso modo, hanno reso conto della tensione culturale alla vigilia del nuovo millennio, immaginando un futuro ravvicinato in cui l’umanità è in completa balia della tecnologia che ha creato. TGr

14. “Boogie nights” (1997)


È come prendere Nashville di Robert Altman e farne una versione osé ambientata nella San Fernando Valley, aggiungendo un paio di sequenze sanguinose alla Tarantino solo per vivacizzare la situazione. Ecco come si ottiene l’ampio racconto del mondo del porno tra fine anni Settanta e i primi anni Ottanta girato da Paul Thomas Anderson, un ritratto di gruppo e uno studio dei personaggi epico che riesce a rendere l’indolenza effervescente di una fase che ha preceduto l’AIDS, senza mai accontentarsi di una nostalgia innocua della cultura disco. Julianne Moore, Don Cheadle, John C. Reilly, William H. Macy ed Heather “rollergirl” Graham sono indimenticabili nel loro far parte della famiglia porno e disfunzionale attorno al regista Burt Reynolds, mentre Mark Wahlberg ha un ruolo importante, quello di un figliol prodigo ben dotato di nome Dirk Diggler, che mette una fine ai suoi giorni da Marky Mark. È l’annuncio di un nuovo talento audace alla regia, uno sguardo bellissimo su quanto è stato e un accenno al meglio che deve ancora venire. DE

13. “Fargo” (1996)


Il noir innevato e grottesco di Joel ed Ethan Coen vede William H. Macy nei panni del venditore d’auto del Minnesota Jerry Lundegaard, un lazzarone del Midwest che ingaggia due criminali di mezza tacca (Steve Buscemi e Peter Stormare) per rapire sua moglie, nella speranza di ottenere i soldi del riscatto quando il suocero danaroso li sgancerà. Come tutto ciò in cui è coinvolto quest’uomo dalla mente criminale, tuttavia, si finisce male. Ci scappano dei morti, la situazione precipita e l’ufficiale di polizia incinta Marge Gunderson (un’iconica Frances McDormand che si è portata a casa l’Oscar) decide di seguire la pista di sangue per risalire alla fonte del misfatto. È un film procedurale decisamente innovativo, che abbina con destrezza satira bonaria – ah, quegli accenti – e violenza efferata, e che piano piano si afferma come una gemma nella notevole carriera dei Coen. GM

12. “Beau travail” (1999)


Eccolo, Billy Budd rivisto attraverso la Legione Straniera: qualcosa di cui non sapevate neanche di avere bisogno. Il regista Claire Denis prende l’ultimo romanzo di Herman Melville sulla vita militare e il cameratismo tra uomini e lo fa calare nell’Africa occidentale contemporanea, trasformando la storia di una bellissima recluta inesperta (Grègoire Colin) e quella di un sergente invidioso (Denis Levant) in una colossale opera di destrutturazione della mascolinità nel mondo avanzato. La direttrice alla fotografia Agnes Godard gira scene di marce diurne accecanti e sequenze liriche nei night club, mentre il regista prende materiali sonori disparati – dall’opera a Safeway Cart di Neil Young – per trasformare le manovre delle truppe in stacchetti musicali. Uscito alla fine del decennio, questo film si è qualificato come una boccata d’aria, una ventata di aria torrida e al tempo stesso umida nella scena arthouse, stagnante di suo. Proprio quando sembra che il film non possa diventare più dinamico di così, spunta Rhythm of the night di Corona, Levant fa partire il dancefloor e lo spettatore entra in uno stato di delirio. DF

11. “Ricomincio da capo” (1993)


Un mix tra Palla da golf e Canto di Natale: ecco cos’è questa commedia sentita e piena di saggezza di Harold Ramis, incentrata su Bill Murray nei panni di un annunciatore meteo che viene beffato dal karma e costretto a rivivere lo stesso giorno in un paesino della Pennsylvania finché non farà le cose per bene. La stella del cinema interpreta questo personaggio che pensa di sapere tutto al meglio, calandosi nei panni di un misogino sarcastico che all’inizio pensa di poter sfruttare l’incidente metafisico per spassarsela senza pensare alle conseguenze. Poi non ce la fa più e si rende conto che tanto vale diventare una persona migliore. La regina della rom-com degli anni Novanta Andie MacDowell gli conquisterà il cuore (c’è un bonus: un giovane Michael Shannon nei panni del maschio di una coppia esaltata per Wrestlemania). È essenziale guardarlo a ripetizione. GM

10. “Lezioni di piano” (1993)


La coppia Merchant-Ivory ha dominato il settore dei film in costume di prestigio finché non si è palesata Jane Campion con questa favola espressionista, strana e indomita, pronta a spaccare tutto. Holly Hunter interpreta Ada, una sposa muta ordinata per posta, spedita con la giovane figlia (Anna Paquin) dalla Scozia alla Nuova Zelanda per ricongiungersi con un marito scorbutico (Sam Neill). Il pianoforte è l’unica voce che ha, voce che le viene rifiutata finché un vicino dai modi bruschi (Harvey Keitel) non baratta dei terreni per ottenere lo strumento. Il bruto le permette di suonare in cambio di una serie di lezioni di piano che nascondono i sentimenti che inizia a provare per lei, poi contraccambiati. Questa storia d’amore gotica e appassionante ha stregato il Festival di Cannes, facendo sì che Campion diventasse la prima regista donna a vincere la Palma d’Oro. Ma anche gli Oscar si erano accorti di lei: Hunter e Paquin hanno vinto i premi alla recitazione, mentre Campion quello per la miglior sceneggiatura.

9. “Hong Kong Express” (1994)


Basta vedere quest’inno alle persone sole di Wong Kar-wai una sola volta per uscirne con la coscienza completamente trasformata. Dopo il film, sarà impossibile sentire California Dreamin senza immaginare Faye Wong che la balla. Il pezzo rock degli anni Sessanta è solo una delle tante influenze trasversali usate dal regista di stanza a Hong Kong, importate nelle storie parallele e fluorescenti di persone disperate e perdute. Personaggi mutuati dalla Vecchia Hollywood e dalla Nouvelle Vague bevono Sol Cerveza messicana e frequentano un chioschetto dove si arrostisce carne. Gli eroi di questo film romantico e casto sono due poliziotti che faticano ad andare avanti dopo una rottura sentimentale. Uno si infatua di una fuorilegge con la parrucca bionda, mentre il suo doppio viene corteggiato da una ragazza insolente che si intrufola nel suo appartamento. I tratti di questi innamorati sono indimenticabili, ma lo è ancora di più la regia di Wong e la fotografia sbavata di Christopher Doyle, che opta per uno stile impressionistico capace di catturare lo spettatore in un paesaggio da sogno, pieno di potenza. JB

8. “Malcolm X” (1992)


Spike Lee sperava che il suo biopic sul leader dei diritti civili assassinato per la causa riuscisse ad avere lo stesso trasporto di film come Lawrence d’Arabia o Gandhi. A dire il vero, il regista ha ottenuto qualcosa di meglio: un dramma storico, un avvincente studio del personaggio e un trattato politico allo stesso tempo. Mentre guardiamo Malcolm (interpretato da Denzel Washington in uno dei ruoli più forti e belli mai assegnati a un attore) trasformarsi da ragazzo festaiolo e di buonumore in criminale di piccolo cabotaggio, da detenuto a trascinatore delle folle fino a padre di famiglia e altro, ci rendiamo conto di quanto l’impatto delle vite che ha vissuto abbia contribuito a trasformare il suo pensiero. Questo film non è un ritratto storico cristallizzato nel tempo, ma un’opera viva e che respira uscita in un anno cruciale per i diritti razziali, e che parla dell’allora come dell’oggi. BE

7. “Slacker” (1991)


Il London Calling del cinema anni Novanta è arrivato proprio nel passaggio da un decennio (e un tipo di America) all’altro. L’ossessione del regista Richard Linklater per il tempo – cosa ci fa e cosa ce ne facciamo – inizia proprio da qui. Questa indagine in forma libera che fa a meno della trama e si avvale di personaggi ricorrenti e luoghi abitudinari, si aggira nei paraggi di Austin in Texas per dare spazio ai troubadour loquaci di una generazione sconfitta da Reagan e pronta per il cinismo della fase Clinton. È la cronaca ravvicinata di questo momento storico, capace di riportare le cospirazioni discusse al bancone e la filosofia nichilista di una cittadina universitaria post-post-hippie molto specifica, e allo stesso tempo di rappresentare il senso scomodo della libertà americana che vale per tutte le epoche. Tutto questo e i risultati del pap test di Madonna disponibili per la vendita. EH

6. “Close up” (1990)


L’iraniano Abbas Kiarostami è stata la scoperta degli appassionati di arthouse negli anni Novanta: un umanista dal cuore tenero capace di confutare la politica riduttiva di quel periodo storico e di risvegliare la coscienza del pubblico occidentale, dimostrando che l’empatia non ha confini. Il regista ha inaugurato il decennio che alla fine avrebbe dominato con un prodotto ibrido originale, un miscuglio di documentario e fiction attraversato da un umorismo sottile e un’ansia strisciante sulle identità in prestito. Di primo acchito, è la storia di un truffatore: Hossain Sabzian ama il cinema e vuole essere famoso. In qualche modo, non si fa problemi a mentire agli stranieri dicendo loro di essere il noto regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. Una cosa tira l’altra e il nostro eroe improbabile si ritrova a invadere la casa di una famigliola sotto mentire spoglie, continuando a scavarsi la fossa. Close up dilata questo equivoco fino allo stremo, fino a risolversi in un finale pieno di empatia, una meta-soluzione che ha contribuito a portare il cinema in territori allora sconosciuti. JR

5. “Pulp fiction” (1994)


Due malavitosi che fanno un sacco di chiacchiere. Una femme fatale che abusa di coca, un marito gangster, un pugile in fuga, e dei Bonnie e Clyde di mezza tacca che svaligiano un diner. Immergete tutto in una soluzione piena delle ossessioni culturali del regista e voilà: ecco il “Royal con formaggio” del cinema indipendente degli anni Novanta. In quel periodo, nessun altro film ha avuto lo stesso impatto “adrenalina dritta al cuore” di questa lettera d’amore di Tarantino verso i film che hanno formato la sua mania per il cinema. Non è tanto il film paradigmatico di un decennio quanto gli anni Novanta stessi, stiloso quasi da far male e pieno di note a margine deliranti e da mandare a memoria. I poster del film erano in tutti i corridoi degli studentati, c’erano parodie del film che spuntavano da un giorno all’altro e persino la colonna sonora – piena di un raffinatissimo surf rock e pezzi R&B d’annata – era ovunque. Basato sui dialoghi a mitraglia e i colpi di frusta de Le iene, capaci di passare dall’ilarità alla violenza assoluta, il secondo film di Tarantino è quello in cui lo stile del regista diventa davvero una firma. Pochi altri autori sono riusciti a trasformare il proprio cognome in un aggettivo, specie dopo due film. E noi paghiamo le conseguenze di questo terremoto nella settima arte ancora oggi. BT

4. “Il silenzio degli innocenti” (1991)


La famosa mascherina, le larve giganti, il grottesco lavoro di cucito di due maniaci dai soprannomi raccapriccianti e poi quella battuta: «Mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave e un buon Chianti». Sono passati decenni dal thriller di Jonathan Demme che ha sbancato gli Oscar e ha terrorizzato il pubblico, e le sue immagini indelebili e frasi agghiaccianti sono ancora impresse nella memoria collettiva. Il compianto regista e lo sceneggiatore Ted Tally riescono a rendere lo spettatore subito complice di questo patto faustiano tra la promettente cadetta dell’FBI Jodie Foster – Clarice Starling ed Anthony Hopkins nei panni del selvaggio bon vivant Hannibal Lecter. Ogni conversazione tra loro si trasforma in un atto di seduzione strano e particolare (e il regista non dimentica di annotare lo sciovinismo disinvolto dell’epoca, basta pensare a come Demme inquadra gli addetti alla biblioteca quando fissano Clarice). Siamo nei paraggi di un Pigmalione perverso: lei si impegna a decifrare i suoi indizi enigmatici mentre lui riesce a penetrare il trauma che la rende insensibile e la educa rispetto all’etichetta dei psicopatici. A Clarice è stato detto di non far entrare Hannibal nella sua testa, ma lo fa, e adesso non riusciremo più a scacciarlo dalla nostra. PR

3. “Safe” (1995)


È colpa del camion che rilascia gas di scarico, oppure del divano nuovo: per qualche motivo la casalinga della San Fernando Valley Carol White (una Julianne Moore meravigliosamente fragile) è malata. Il genio spettrale di questo mezzo capolavoro astratto di Todd Haynes sta nel non fornire mai una riposta completa (una dieta a base di frutta? I componenti chimici della permanente?), lasciandoci esplorare le piste suggerite dal film. Ambientato in un 1987 privo di anima e contaminato dal deodorante ma abbastanza indicativo del momento, Safe è un capo d’accusa contro il sobborgo americano: «Dove mi trovo?» domanda Carol sull’orlo di un collasso mentale. Dopo essere andata in iperventilazione alla festa di un’amica in attesa, si ritrova a reagire alle aspettative che non riesce a mantenere. Non lo si chiama mai per nome, ma il virus dell’AIDS è ovunque, e il film viene letto spesso come una sua metafora. Ma questo thriller indie + malattia va ben al di là di una possibile diagnosi, sviscerando una noia esistenziale che avrebbe fatto impallidire Michelangelo Antonioni. In ottica provocatoria, Haynes dà al suo personaggio timido l’impulso di cambiare, ma a quale prezzo per la sua libertà? È un film capace di far venire paura di qualsiasi cosa. JR

2. “Hoop dreams” (1994)


Il film che ha fatto arrivare il documentario long-form basato sull’osservazione nelle multisale, che ha fatto nascere una nuova generazione di registi e ha fatto sì che il pubblico di massa si rendesse conto della sfida che comporta essere giovane, povero e nero in America, ragion per quale il critico Roger Ebert lo ha definito “the great American documentary”. Girato nel corso di sei anni per un risultato di tre ore mozzafiato, quest’epica nominata agli Oscar realizzata dai registi Steve James, Frederick Marx e Peter Gilbert segue le tracce dei due adolescenti William Gates e Arthur Agee, giocatori di basket di immenso talento che vengono da un quartiere complicato di Chicago, mentre passano dall’area giochi alla palestra della scuola, dai drammi sul campetto alle lotte in casa. Persino venticinque anni dopo, con i protagonisti che hanno raggiunto ormai la mezza età, Hoop Dreams risulta ancora come un canestro sul fischio finale. E questo perché racconta una storia ancora poco detta nell’arte popolare, una storia che diventa viva attraverso una rete intricata di dettagli intimi e complessi e che ha bisogno di tempo per seguire le svolte e i cambiamenti, le gioie e le indignazioni che segnano la vita reale. Un capolavoro americano che resiste al tempo. EH

1. “Quei bravi ragazzi” (1990)

«Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster». L’adattamento inebriante e vorticoso di Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi – il libro “guarda un po’ com’è stare nella mafia” – realizzato da Martin Scorsese è tante cose insieme: uno studio di antropologia sociale, uno sguardo epico sul Sogno Americano, un incubo alimentato dalla droga, un approccio nostalgico a un’epoca in cui gli uomini si facevano da sé, uno sfoggio vorticoso di cinematografia, il prototipo della saga seriale a sfondo criminale dei nostri tempi, e infine una prospettiva senza eguali su una realtà in cui puoi ricevere una pacca sulla spalla quanto uno sparo in faccia. «Ai mafiosi piace da impazzire, perché le cose stanno proprio così” ha dichiarato Pileggi a GQ. «Dicono che è come un filmino fatto in casa». Mentre seguiamo l’Henry Hill di Ray Liotta passare dall’essere una promessa del crimine al piano protezione testimoni di cosa nostra – un signor nessuno – ci rendiamo conto di assistere a un riflesso spaventoso del mito made in U.S.A dell’uomo che si fa da sé. Solo che questa volta indossa completi sartoriali, sfoggia mazzetti di dollari e si lascia andare a crisi isteriche. Ogni performance – dalla santa trinità composta da Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci («Buffo? Che ci trovi di buffo?») ai ragazzi che fanno da palo all’angolo – è praticamente perfetta. I riferimenti del film vanno da Il padrino a La rapina perfetta, e la colonna sonora comprende Bobby Darin quanto Donovan, gli Stones quanto Sid Vicious (dopo la sequenza dell’omicidio, nessun regista si azzarda a usare la coda di Layla come accompagnamento di una scena). L’influenza di Quei bravi ragazzi è incalcolabile: non avremmo avuto milioni di istantanee da videocamera in movimento senza quel giro al Copacabana e di sicuro non avremmo avuto Tarantino, con quel mix di black humor e violenza terrificante: è stato Quei bravi ragazzi a trovare una formula scientifica per queste cose. E anche se Scorsese ha fatto film grandiosi prima e ne farà altri dopo, questo campione d’incassi sulla mafia sembra la summa del suo universo cinematografico, culturalmente specifico, dedicato agli uomini sul punto del collasso. Forse ci sono film che sono più emblematici degli anni Novanta, ma questo è quello che ha impostato il ritmo dell’intero decennio. Una conquista che ha lasciato gli altri pretendenti a terra, a fare la figura dei babbei. DF

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