Ah, gli anni Novanta. Il decennio che ci ha dato film indie destinati a diventare dei tormentoni ed effetti speciali alla Matrix, fight club e commessi sboccati per via di Kevin Smith, serial killer cannibali e carismatici e slogan come “Scegli la vita!”, tizi competitivi da Rushmore Academy e “Royal con formaggio”. Ripercorrendo i film che hanno reso gli anni Novanta un decennio sorprendentemente fertile per i registi e gli appassionati di cinema, si intuisce presto che le basi del cinema degli ultimi anni sono state poste proprio in quella fase, dall’ascesa dei documentari come fenomeno mainstream ai tocchi meta che hanno trasformato opere che mescolano generi vari in musei delle cere parlanti. Il Sundance ha fatto per i registi indipendenti quello che Seattle ha fatto per i musicisti grunge. Era un periodo in cui andavamo in giro con fannulloni e tossicomani scozzesi, criminali dalla lingua di velluto e tizi che sapevano stare alle regole. Potevamo essere cyberpunk da morire. Sapevamo cose di kung fu.
E così abbiamo messo insieme una squadra di fanatici di cinema, avvoltoi della cultura, esperti di cultura pop e critici vari per stabilire i cento film migliori degli anni Novanta. Dai vincitori degli Oscar a piccole gemme dimenticate, dalle saghe di non fiction a sfondo sociale a sette ore di capolavori ungheresi, da Titanic a Tarantino. Sono questi i film che abbiamo citato senza posa, che ci hanno fatto litigare e ai quali continuiamo a pensare. Uscite dalla cabina telefonica, stappatevi una gazzosa e date inizio alle danze.
39. “Crash” (1996)
No, non stiamo parlando del drammone educativo sulle tensioni razziali che ha soffiato l’Oscar a Brokeback Mountain, ma del film in cui James Spader scopa una ferita a forma di vagina nella coscia di Rosanna Arquette. Il romanzo di culto di J. G. Ballard sull’ossessione sessuale per le macchine cromate e la morte ad alta velocità, non poteva che trovare un partner ideale nello specialista dei body-horror David Cronenberg, che ha ridotto il libro a un’elegante e funzionale sceneggiatura di sessantadue pagine. Rievocando lo spirito audace dei suoi primi film, il regista canadese ha catturato le corse ravvicinate e notturne sulle autostrade di Toronto e ha istruito un cast devoto a dare tutto in performance spettrali. Persino il compositore orchestrale Howard Shore si è ridimensionato a favore di una colonna sonora tutta a base di chitarra elettrica, il soundscape perfetto per il luogo in cui il metallo contorto va a nozze con la carne martoriata. JR
38. “Hana-bi – Fiori di fuoco” (1997)
La stella giapponese Takeshi Kitano “Beat” ha sempre coltivato un approccio non convenzionale ai film di azione e ai crime drama, ma questa volta si è davvero superato. Il film ritrae le vicende di un ex poliziotto disperato e violento alle prese con la malattia terminale della moglie, il tipo di setting che spesso sfocia in un film melodrammatico o super-deprimente. Invece, quel che viene fuori da quest’opera che alterna luci e melanconie, è un viaggio pieno di poesia in cui la tristezza della vita di ogni giorno coesiste con la delicatezza leggera dell’arte, dell’umorismo e dell’amore. E nonostante la forza tragica della trama, è il tipo di film che si riguarda in continuazione, splendido dal punto di vista visivo e davvero romantico, anche se punteggiato da movimenti di violenza quasi assurdi. BE
37. “Tutto su mia madre” (1999)
Un’infermiera che fa da consulente per la donazione degli organi a Madrid soffre per la morte del figlio adolescente e dà letteralmente via il suo cuore prima di riparare a Barcellona per trovare il padre del figlio, un transessuale pieno di vita che non sa nulla della sua paternità. E tutto questo succede solo nei primi venti minuti! Non abbiamo ancora visto l’attrice saffica, l’amante tossicomane o la suora incinta. Benvenuti nel mondo crudelmente ironico e pieno di coincidenze radicali di Pedro Almodovar, dove le donne sono esseri mitologici resilienti, gli uomini privi di qualsiasi idea di come stanno le cose e le prostitute fanno giochi da bambine per strada. Questo melodramma bellissimo, una pietra miliare nel cinema LGBT che si è portato un Oscar a casa come miglior film straniero, è riuscito a fondere l’oltraggioso con un’empatia sincera e profonda, e ha spalancato le porte per Laverne Cox e Transparent. SG
36. “The blair witch project” (1999)
È il film horror a base di immagini ritrovate che ha generato migliaia di paranormal activities, ma il blockbuster a costo zero e venuto dal nulla di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez è molto più di questo. Diventato un fenomeno grazie al passaparola mesi prima di arrivare nei cinema, il resoconto video di tre aspiranti registi che restano vittime della leggenda urbana che vogliono raccontare ha dato una mazzata in testa agli spettatori che frequentano il cinema d’estate, riempiendo le sale di persone che non sapevano se quanto stavano guardando fosse vero o falso. Sono passati anni e il mistero attorno a questa storia inquieta dalle immagini mosse è stato risolto, ma la sua tecnica che sfida i generi non è stata ancora superata. STC
35. “I protagonisti” (1992)
Solo un regista con un rapporto così conflittuale e duraturo con Hollywood come Robert Altman poteva permettersi una satira dell’industria del cinema talmente brillante da rianimare la sua carriera. Un produttore calcolatore di nome Griffin Mill (Tim Robbins) assassina uno sceneggiatore nel tentativo di penalizzare la concorrenza, mentre tantissimi cameo interpretati da celebrità prendono di mira le personalità di alcune stelle del cinema – a volte loro stessi – e gli aspetti crudeli del settore. A tratti languido e a tratti spietato, I protagonisti ha fatto sì che Altman potesse finanziare le sue visioni iconoclaste per altri quindici anni, il che è stato un po’ l’equivalente al cinema di farla franca dopo un omicidio. TGi
34. “Crumb” (1994)
Nel 1995, il lavoro del cartoonist underground Robert Crumb era noto soprattutto agli appassionati di fumetti e ai vecchi hippie. È per questo che il documentario di Terry Zwigoff ha avuto una funzione vitale, da servizio pubblico, contribuendo ad accrescere la fama del grande artista americano. Ma sono le interviste intime e rivelatorie con il creatore di Zap Comix e i suoi eccentrici fratelli a dargli una marcia in più rispetto a migliaia di altri bio-doc sugli artisti. Quel che rischiava di essere un semplice ritratto diventa un’indagine allargata su una famiglia di geni eccentrici – due dei quali emarginati dalla società – nella quale c’era una persona destinata a trasformare idee oltraggiose e provocatorie in un fenomeno di culto. NM
33. “Trainspotting” (1996)
Un manifesto generazionale e senza dubbio il film inglese migliore del decennio: con questa interpretazione britpoppy del romanzo di culto di Irvine Welsh, il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore John Hidge hanno realizzato un film esplosivo, pieno di notazioni irriverenti. Il film si rifiuta categoricamente di sminuire l’argomento fosco sul quale è incentrato (eroinomani scozzesi che cercano di campare nello squallore della Edimburgo contemporanea) a vantaggio di una patina di realismo sociale o del giudizio morale. Alcuni hanno condannato il film per aver reso glamour il consumo di eroina, ma le disavventure di Mark Renton (Ewan McGregor) e la sua gang di fannulloni di mezza tacca – inclusa la scena terrificante in cui il nostro eroe ha un’allucinazione in cui crede di essere perseguitato da un neonato zombie – difficilmente fanno venire voglia di consumare eroina a qualcuno. This is hardcore. DE
32. “Il dolce domani” (1997)
Il ritratto di una comunità stravolta da una tragedia senza riparo. L’adattamento del romanzo del 1991 di Russell Banks da parte di Atom Egoyan spezza il cuore persino nel riassunto: un pulmino della scuola precipita in un lago ghiacciato e quattordici ragazzini perdono la vita. Nel turbinio di questo momento tragico e indelebile, un avvocato di città (Ian Holm) arriva nel paesino per canalizzare la rabbia dei cittadini in una class action. Egoyan affronta sia le risonanze fiabesche della storia quanto gli aspetti più cupi e traumatici della negligenza da parte dei genitori. L’attrice Sarah Polley, che aveva solo diciotto anni ai tempi delle riprese, rende alla perfezione il senso di colpa malinconico della sopravvissuta. Il suo fare calmo e criptico è l’anima del film. JR
31. “Il grande Lebowski” (1998)
Un’elegia per la controcultura degli anni Sessanta, un omaggio a Raymond Chandler. Questa storia contorta e lazzarona dei fratelli Coen – piena di battute che ormai fanno parte del repertorio collettivo – è diventata un crime-caper di culto, ed è tantissime cose insieme. Jeff Bridges interpreta uno dei suoi ruoli più memorabili e godibili, il Drugo: l’uomo che trinca White Russian, disprezza gli Eagles ed è un campione imparagonabile di dolcezza che viene costantemente trascinato in situazione piene di stress malgrado il suo volere. Considerato una mezza delusione all’inizio, Il grande Lebowski è uno di quei film che migliora a ogni visione, soprattutto quando si fumacchia un po’, stile Drugo. E se non siete d’accordo, beh, quello è un problema vostro. DE
30. “Belli e dannati” (1990)
Il terzo film di Gus Van Sant mette insieme due componenti vitali della cultura alternativa dei primi anni Novanta: il New Queer Cinema e il grunge esploso sulla costa del Pacifico. Ma questo film si configura più come una febbre visionaria che un’opera sociologica, mentre segue il marchettaro dolce e narcolettico interpretato da River Phoenix da Seattle e Portland fino al Midwest, e poi in Italia alla ricerca della madre persa da tempo. Il film ha la struttura di una serie di vignette, intrecciate con il tema shakespeariano dell’amore non corrisposto verso il migliore amico del protagonista (Keanu Reeves) e viene interrotto nel montaggio da una serie di aneddoti da ragazzini della strada. La combinazione di melancolia e umorismo cinico che anima le migliori canzoni dei Nirvana tiene insieme questi elementi apparentemente scomposti, e innalza il film al di là del contesto culturale in cui è stato creato. JB
29. “Principessa Mononoke” (1997)
Il pubblico occidentale si è accorto per la prima volta dell’animatore giapponese Hayao Miyazaki con questa favola dark: è la storia di un principe esiliato sul quale pende una maledizione demoniaca e che si ritrova al centro di una guerra tra gli spiriti della foresta e gli umani dediti a lavorare il ferro che minacciano di distruggerla. Questo cartone decisamente per adulti è notevole per la bellezza del suo immaginario, nel quale le foglie che soffiano per il vento e gli arti mozzati che schizzano in aria sono resi con lo stesso splendore. A differenza di tanta animazione in voga all’epoca, la favola ambientalista di Miyazaki non si sottrae alla complessità della morale. Non ci sono dei cattivi qui, solo forti personalità le cui buone intenzioni sono in netto contrasto. JS
28. “Heat” (1995)
Accolto con trionfo come il primo abbinamento sul grande schermo di Robert De Niro e Al Pacino – che si sono scambiati delle epoche ma non hanno condiviso scene ne Il padrino II – il thriller a sfondo criminale stiloso e asciutto di Michael Mann ci consegna non uno ma due momenti di stallo epici tra i due titani del cinema, in una Los Angeles degna dei loro migliori sforzi. La metodologia e mentalità sia dei poliziotti sia dei criminali vengono rese al dettaglio, con una verosimiglianza della professione quasi lancinante, e la domanda diventa: vogliamo che questi geni del crimine la facciano franca o che vengano catturati dalla loro controparte che vive nel nome della legge? Nel frattempo, una sfilza assassina di attori comprimari aiuta a trasformare questo film seminale nel ritratto eclettico di due comunità ai lati opposti della barricata, intenti a lottare per la sopravvivenza in un gioco a somma zero. TGi
27. “Trilogia dei colori: Film blu” (1993)
Blue isn’t the warmest color nel primo capitolo della trilogia di Krzyszstof Kieslowski ispirata alla bandiera francese: si inizia con Julie (Juliette Binoche) che si sveglia in ospedale e scopre di aver perso marito e figlia in un incidente in macchina. Il dolore la rende di ghiaccio ma lentamente il suo personaggio inizierà ad ammorbidirsi, non prima che il regista abbia sfidato il concetto di libertà attraverso la sua eroina catatonica. Pochi hanno usato il colore che dà il titolo al film in maniera così espressiva, che sia nel riflesso di un sonogramma o nella piscina che Binoche usa per contenere la sua miseria. Un apice del regista polacco e per le esplorazioni arthouse degli anni Novanta sulla vita, la morte e la rinascita. KYK
26. “Magnolia” (1999)
Un uomo morente fa chiamare il figlio che ha abbandonato; il presentatore di un gioco a premi cerca di dimenticare la sua malattia a furia di sbronze; una ragazza sveglissima si perde sotto la luce dei riflettori; un vecchio bambino prodigio perde il contatto con la realtà. Se c’è un autore in grado di prendere questi personaggi apparentemente distanti tra loro e a creare una sequenza narrativa solida, oltre ad aggiungere una pioggia biblica di rane, questo è Paul Thomas Anderson. Aiutato da una colonna sonora tristissima di Aimee Mann e con un Tom Cruise nel ruolo migliore della sua carriera, quest’epica interconnessa sulla resa dei conti con la realtà offre uno sguardo surrealista e quasi biblico sulla vita e le sue coincidenze strane e anfibie. Per parafrasare il narratore Ricky Jay, ci sono cose strane che accadono a ognuno di noi in continuazione, ma è il modo in cui decidiamo di interagire con questi imprevisti che fa di noi quel che siamo. AS
25. “Out of sight” (1998)
Come una storia d’amore tra Bogart e la Bacall riadattata per il mondo post-Pulp Fiction, l’adattamento del romanzo di Elmore Leonard realizzato da Steven Soderbergh accoppia George Clooney e Jennifer Lopez nel ruolo di uno svaligiatore di banche e uno sceriffo federale degli Stati Uniti che si incontrano nel bel mezzo di un’evasione dalla prigione. Ovviamente hanno entrambi l’aspetto di stelle del cinema, e ovviamente si innamorano. Con i suoi dialoghi brillanti, lo sfondo decadente di Detroit, un cast stellare di comprimari (tra cui Ving Rhames, Don Cheadle, Steve Zahn e Samuel L. Jackson rimasto fuori dai titoli di coda), oltre a una tostissima colonna sonora retro-jazz ad opera di David Holmes, Out of sight è un film pieno di piccole gioie. Ma i sussulti più grandi derivano dall’assistere alle scintille tra Clooney (che qui dimostra una volta per tutte di essere qualcosa di più del medico di E.R. o Batman in costume) e Lopez che giocano al gatto e al topo, pur sapendo che il loro lavoro li terrà sempre a distanza. DE
24. “Rushmore” (1998)
Il secondo film di Wes Anderson ha subito confermato lo stile quirky dell’autore e i suoi motivi ricorrenti: le colonne sonore della British Invasion, i personaggi con un abbigliamento insolito e particolare, le case da bambola piene di oggetti, gli uomini di mezza età che rimpiangono il passato glorioso. Ma il suo approccio a questo triangolo amoroso tra un adolescente iscritto alla scuola privata (Jason Schartzmann), un miliardario depresso (Bill Murray) e un’insegnante vedova (Olivia Williams) raggiunge profondità emotive inaspettate, rispedendo al mittente tutte le accuse sul fatto che sia solo un regista twee con una buona collezione di dischi. Persino la scena in cui persone appartenenti a diverse generazioni ballano in slow motion sulle note dei Faces fa piangere. Oltretutto, è il film che ha fatto ripartire la carriera di Murray nel ruolo di un uomo di mezza età malinconico e che si trascina. NM
23. “Eyes Wide Shut” (1999)
Quando l’ultimo film di Kubrick (postumo), ha inaugurato l’ultimo anno del secolo con questo viaggio sognante e visionario in un sottobosco di rapporti sessuali, potere e umiliazione con al centro l’allora coppia di marito e moglie composta da Tom Cruise e Nicole Kidman, ci sono stati diversi borbottii: dov’era tutto il sesso esplicito promesso tra Tom e Nicole? Perché tutto aveva un aspetto così lento e irreale? E perché la colonna sonora aveva quei tratti così strani? Ovviamente, aspetti del genere avevano caratterizzato anche i vecchi film di Kubrick, Shining compreso, e proprio come è accaduto con quel capolavoro del cinema horror, anche la reputazione di Eyes Wide Shut è migliorata con il tempo. E a dovere. Tutto in questo film, dalla fotografia decadente e bellissima ai dialoghi incantati, fino alle performance magistrali degli attori e la trama piena di leitmotiv, concorre a creare la sensazione di un sogno a occhi aperti, pieno di una struggente mancanza. BE
22. “Kids” (1995)
Un film teensploitation carburato dallo spettro dell’AIDS. L’esordio controverso e in debito con il cinema verité di Larry Clark è riuscito senza alcun dubbio a catturare la vita sconsiderata di tanti adolescenti di New York come se stessero parlando di sé in prima persona: e infatti è stato uno di loro a scrivere il film, lo skater diciannovenne Harmony Korine. Ragazzi e ragazze (ma soprattutto ragazzi) spalancano la bocca e il loro appetito insaziabile espone almeno tre personaggi al virus dell’HIV mentre una giovane donna (Chloe Sevigny al suo esordio) subisce un’aggressione sessuale. Kids è una capsula del tempo, e la sua colonna sonora piena di Lour Barlow sembra suggerire che gli adolescenti negli anni Novanta si siano arresi all’apatia e agli eccessi senza neanche il sostegno dei Nirvana. Questa cautionary tale si è trasformata in profezia quando due attori del cast (Harold Bunter e Justin Pierce) sono morti in circostanze tragiche a dieci anni dall’uscita. PR
21. “Barton Fink – È successo a Hollywood” (1991)
L’incursione di Joel ed Ethan Cohen nel mondo di Hollywood vede i due fratelli al meglio della loro capacità di sconcertare: le scene per caso accadono nella mente del personaggio principale? E che dire di quella scatola? John Turturro è uno sceneggiatore di New York un po’ pomposo che decide di sfruttare il suo successo a Broadway per vendersi a Hollywood, il che risulta però solo in un blocco dello scrittore, un omicidio e le visite persistenti dell’untuoso assicuratore interpretato da un John Goodman magistrale. È una satira dello showbiz quanto un ritratto cupo dell’antisemitismo americano, un film sulla stagnazione creativa a cui però non mancano mai le idee e l’inventiva. TGr
20. “Dead Man” (1995)
Sporco, cattivo, divertente e fatto di peyote, l’anti-western di Jim Jarmusch è uno dei film lenti e in bianco e nero più stimolanti in circolazione. Johnny Depp – stiamo parlando di un periodo in cui non faceva un soldo di danno – interpreta William Blake, un timido contabile il cui viaggio a ovest si risolve ben presto in una spirale di violenza e vendetta. Suo compagno di viaggio improbabile è un nativo americano di nome Nessuno (Gary Farmer); tutta la faccenda forse si svolge nell’aldilà o forse no. Dalla magnifica colonna sonora di un Neil Young che scompone Morricone a Iggy Pop nel ruolo di una transessuale, il film di Jarmusch è come un incubo novecentesco proiettato nel futuro di un paese che è ancora sciocco, colpevole e smarrito. EH.