Ci abbiamo provato, con tanti scongiuri e cocktail a base di spremute d’arancia e integratori di vitamine, ma alla fine è successo: in casa, ci sta il malato. Non importa che siamo noi, nostro figlio, il cane o tutta la famiglia al completo (si salvi chi può): l’autunno dell’influenza killer ha colpito, e il risultato è che qualcuno (cane escluso, forse) ora è lì su quel divano, con la coperta, il termometro sotto l’ascella, il naso smoccioloso e nessuna energia per fare altro se non accendere la televisione. Perché non approfittare allora di questa nullafacenza (e dell’abbonamento a tre piattaforme di streaming) per incamminarsi sul viale dei ricordi con quei film e cartoon che hanno accompagnato la nostra infanzia? Splendida idea. Peccato che, nel giro di qualche minuto, cambiamo canale perché nostro figlio cinquenne già ripete a pappagallo i “faccia di culo” di Mamma, ho perso l’aereo; il cane si è nascosto all’ennesimo urlo di un Gremlin che muore malamente; e noi (ora) adulti ci troviamo ammutoliti di fronte alla tragicità dell’ennesimo cartoon che, no: nell’idilliaco ricordo infantile, non ricordavamo affatto portasse in scena pallavoliste malate di tubercolosi che fanno bagher con catene sui polsi insanguinati. La domanda è: eravamo noi, bambini millennial, a essere troppo esposti a contenuti impressionabili oppure sono quelli di oggi, figli di generazioni cresciute a pane e traumi televisivi, a essere fin troppo protetti? Memori del Lupin arrapato che (nel silenzio generale) allora fu e della coppia di mamme di Peppa Pig che (nel clamore politico e mediatico) oggi è, spetti al giudizio di ognuno l’ardua sentenza. Ma una cosa è certa: tutta quella roba splatter o tristanzuola ci piaceva da matti.
Dumbo e Bambi
Ad aprire la pista ai nostri traumi chi poteva essere, se non la fucina dei cartoni per eccellenza? A partire dagli anni ’40, la Disney inizia a venderci storie dal sapore dolceamaro dove l’invito alla tenerezza, non appena accolto, diventa subito pretesto per annientarci completamente. Così guardiamo gli occhioni irresistibili e le grosse orecchie del piccolo Dumbo (1941) e vorremmo urlare: “Prendi il nostro cuore, elefantino! Fanne ciò che vuoi!”. Ma non possiamo farlo, perché stiamo già piangendo a dirotto, seguendo il canto straziante della madre rinchiusa che, a differenza di tutte le altre, non può far altro che cullare il suo piccolo a distanza. E abbiamo ancora davanti agli occhi l’immagine della proboscide che esce dalle sbarre, quando in una fredda giornata d’inverno sentiamo uno sparo in lontananza: pum! Ma dov’è finita la mamma di Bambi (1942)? Morta. Di fianco al suo corpo (e alla pozza di sangue) il cucciolo piange, e noi non sappiamo se ci riprenderemo mai da questa scena a dir poco straziante. Per la cronaca: non lo faremo.
Mimì e la nazionale di pallavolo
Ah, lo sport! Panacea di tutti i mali. O almeno così pensavamo prima che Mimì e la nazionale di pallavolo arrivasse sulle televisioni italiane nel 1981, distruggendo per sempre la nostra voglia di prendere in mano un pallone. Riadattamento cartoon del manga giapponese Attack no. 1 di Chikako Urano, la storia della ragazzina dagli occhi dolci ha la peculiarità di essere deprimente sin dall’inizio (vedi alla voce: tubercolosi), salvo poi trovare un (misero) riscatto nella pallavolo, grazie alla quale la nostra riesce a guarire e a entrare persino in Nazionale. Tutto bene quel che finisce bene, diremmo: e invece no, perché da quel momento noialtri siamo destinati (proprio come Mimì) a soffrire. L’infanzia segnata dalla malattia, il trasferimento in un’altra città, il bullismo delle compagne, la continua autocommiserazione: con Mimì vediamo tutto. Ma nulla è tragico come gli allenamenti con le catene ai polsi insanguinati, per imparare a fare bene i bagher. Cosa che tuttavia porta Mimì fino alle Olimpiadi. E noi dalla terapista.
Lady Oscar
Se qualche millennial mi dicesse che non ha mai guardato Lady Oscar, lo prenderei subito per un bugiardo. Perché da quando è andato in onda in Italia nel lontano 1982, Una spada per Lady Oscar (titolo ufficiale dal 1990) non solo ha macinato più giovani spettatori di qualunque altro cartoon, ma ha anche fatto molto discutere riguardo alle numerose scene presto o tardi censurate. Come quella in cui André Grandier fa cadere sul letto la nostra Oscar François de Jarjayes, strappandole la camicetta in un impeto di frustrazione (diciamo così?), salvo poi fermarsi prima che avvenga il peggio (leggi: uno stupro); o quella in cui i due fanno davvero sesso (consensuale, s’intende); o ancora, quella in cui la dolce Rosalie si offre (abbiamo capito in che senso) a Oscar per pagare le medicine della madre, e che nella versione italiana della serie diventa una semplice richiesta di elemosina. Riferimenti all’identità di genere e all’attrazione omosessuale, prostituzione e stupri, finisce che, censura o non censura, noi guardiamo; e il dubbio che non sia proprio roba per scolaretti ci viene. Per fortuna, però, non ci salta ancora in mente di leggere il manga di Riyoko Ikeda da cui è tratto.
Gremlins
Lasciate ogni speranza, voi che accendete la televisione negli anni ’80: qui c’è roba per chi ha lo stomaco forte. E pare proprio che noi bambini ce l’abbiamo, dato che facciamo diventare subito un successo un film come Gremlins (1984, per la regia di Joe Dante e la produzione di Steven Spielberg), dove l’aspetto creepy di questi esserini mostruosi si mixa perfettamente con una buona dose di splatter. Altro che impressionarci: coi Gremlins ci divertiamo da matti. Per ognuno di loro che esplode nel microonde o viene frullato vivo (con tanto di sangue verde che schizza ovunque), noi ridiamo; per ogni umano che viene lanciato fuori dalla finestra, facciamo coi nostri amici la ola sul divano. A rivederlo oggi, il dubbio che fossimo dei piccoli sadici viene. Anche se è più preoccupante che, per i nostri genitori, tutto ciò non costituisse un problema.
La storia infinita
Ma che sarà mai un po’ di sangue (verde, oltretutto) quando ci viene chiesto di sopportare la vista della straziante morte di Artax, il cavallo-migliore-amico di Atreyu? Con La storia infinita (1984), altro che stomaco forte: ci vuole un cuore d’acciaio. Tanto che ancora oggi tra noi c’è chi ammette di avere molta difficoltà ad assistere al momento in cui l’amato quadrupede affonda. Il regista Wolfgang Petersen in primis: «Era una scena tristissima: ancora oggi, quando vedo il film, devo prendere un respiro profondo prima di guardarla», ha detto. Idem per l’attore Noah Hathaway (Atreyu), che sempre riguardo quella sequenza ha ammesso: «Mi sono sentito come se avessi mandato molte persone in terapia». E allora lasciatecelo chiedere: perché ci avete fatto questo?
Stand by Me – Ricordo di un’estate
Il 1986 è l’anno in cui Stand by me – Ricordo di un’estate (regia di Rob Reiner) dovrebbe diventare per noi il film di formazione per eccellenza, con quattro amici (Gordie, Chris, Teddy e Vern) che intraprendono un viaggio dove, tra avventure varie, maturano al punto da tornare a casa come ragazzi, non più bambini. Quale miglior titolo, allora, da proporre nelle scuole? Peccato che Stand by Me sia l’adattamento cinematografico di un racconto (vedi alla voce: Il corpo) di Stephen King, in cui c’è la tematica del viaggio inteso anche come crescita personale, sì, ma motivato dalla ricerca del cadavere di tale Ray Brower, un ragazzo scomparso e trovato morto dal fratello di uno dei protagonisti. E dalla crescita personale al blocco di crescita, è un attimo.
Lupin, l’incorreggibile Lupin
Altro manga (vedi alla voce: Lupin III di Kazuhiko Katō), altra serie tv che oggi farebbe drizzare le antenne a molti genitori. Stiamo parlando di Lupin, l’incorreggibile Lupin (in Italia dal 1987) e, come è certo che tutti noi ancora oggi leggiamo il titolo canticchiandolo, è altrettanto certo che nessuno si è dimenticato di tutte le volte in cui quel furbastro di Lupin ha cercato di infilarsi nel letto della procace Margot (o Fujiko Mine, se preferite chiamarla così). In ogni caso, dell’unico personaggio femminile del gruppo, riconoscibile (a scanso di equivoci) dai modi seducenti e dalle scollature profondissime dei vestiti. Aggiungiamo pure l’hashtag #sesso: con Lupin va così. Se pensiamo che oggi, per qualcuno, la presenza di una coppia di due mamme in Peppa Pig rappresenta motivo di turbamento per i bambini, altro che drizzare le antenne: bisognerebbe mettersi le mani nei capelli.
Papà, ho trovato un amico!
Ma che ce frega del sesso: in casa, nostro fratello più grande ascolta non-stop i Nirvana, e anche noi vogliamo qualcosa che ci faccia deprimere al punto giusto. Dato che nel 1991 la pallavolista Mimì è ormai sparita, tocca all’undicenne Vera (Anna Chlumsky), protagonista del film Papà, ho trovato un amico! di Howard Zieff, raccoglierne l’eredità e diventare la nuova campionessa di sfiga. Gli ingredienti che stanno dietro la ricetta dei nostri traumi ci sono tutti: il padre che ha un’impresa di pompe funebri, la nonna con demenza senile, lei stessa che soffre di ipocondria, il padre che si innamora e non la considera più. Ciliegina sulla torta: il coetaneo Thomas (Macaulay Culkin, ovvio) che diventa il suo migliore amico e confidente ma, essendo nato sotto la stessa stella sfortunata di Vera, soffre di gravi allergie (daje, però) e muore per shock anafilattico (basta, ci rinunciamo). Il film si conclude con una struggente poesia composta da Vera e letta durante il funerale dell’amico. Suvvia, qui si esagera davvero: con Mimì, almeno, si andava alle Olimpiadi.
Jurassic Park
È mai esisto un bambino a cui non piacciano i dinosauri? Se sì, fatecelo sapere. A quanto ci risulta, nel 1993 non ce n’è uno tra noi che non voglia andare al cinema a vedere Jurassic Park; e poi non ne consumi a casa la videocassetta, s’intende. Il regista Steven Spielberg lo sa: sa che noialtri sdentati non possiamo resistere ai dinosauri. Allora ci mette lì i brachiosauri: grandi, bellissimi, credibili. Ci mette lì i nostri sogni, nell’erba verde di un parco a tema (a tema!), nella possibilità che (ci vogliamo credere!) si possano riportare in vita quegli splendidi animali. E quando siamo con gli occhi pieni di sincera meraviglia, infantile stupore, profonda commozione, Spielberg lo fa: ci piazza il T-Rex che squarta le persone. E via di braccia che volano, sangue a fiotti, terrore puro. Noi, manco a dirlo, godiamo un mondo. Fa niente se perdiamo un altro dente di fronte all’ennesima scena violenta, mentre allunghiamo i pop-corn a quello che, seduto a fianco, è più invasato di noi: il nostro papà.
Nightmare Before Christmas
Va bene, i Gremlins erano inquietanti, ma anche l’animazione in stop-motion, ragazzi, non scherza affatto. Se poi i personaggi sono del calibro di Jack Skeletron e compagnia bella, il risultato è che Nightmare Before Christmas diventa sì un grande classico della nostra infanzia, ma anche uno dei maggiori traumi mai subiti. Tutta colpa di quel 1993, del regista Henry Selick e, più di tutto, della cupa visione del mondo di un outsider della Disney quale è Tim Burton. Qualcuno si è mai ripreso dalla scena in cui Sally si cuce da sola un braccio? E chi non ha mai avuto un incubo (per l’appunto) in cui comparisse il sindaco che cambiava faccia o, peggio, il terribile Oogie Boogie? Eppure, ora che siamo adulti, ogni anno sotto Natale aspettiamo il momento buono per proporre a nostro figlio di vederlo, con la scusa del pupazzetto comprato a Disneyland. Fa niente se, lo sappiamo, rischiamo di causare anche a lui qualche notte insonne (eccome, se lo sappiamo). D’altronde noi bambini, quella volta, siamo sopravvissuti a ben altro.