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«Cerco la verità. Il pubblico non va al cinema per vedere te, ma per trovare se stesso». Oggi Julianne Moore entra nel club dei sixties (sì, davvero: auguri!), anche se il tempo non sembra manco averla sfiorata. Anzi, ne ha aumentato esponenzialmente profondità e raffinatezza di interprete e star da red carpet. Con cinque candidature agli Oscar e una vittoria (ovviamente non per la sua interpretazione migliore), Julianne è una diva della golden age trapiantata nella contemporaneità di un cinema coraggioso e affilato. Se non vi è mai venuta in mente in quelle domande a bruciapelo su chi sono le attrici più talentuose, ecco il suo best of in 10 ruoli per ricredervi.
Prima del brutto Freeheld, il vero queer movie che consacra Julianne come icona LGBTQ+. La coppia che compone con Annette Bening è semplicemente esplosiva, ma anche il detour etero con Mark Ruffalo. Se Bening e Ruffalo sono stati riconosciuti dall’Academy, stavolta per Moore la nomination non è arrivata. Ma la sua presenza resta fondamentale, nel triangolo liberal-femminista messo in scena da Lisa Cholodenko. Momento cult: la cena con cantata collettiva di A Case of You di Joni Mitchell.
Un film sottovalutato per una performance sottovalutata. Quantomeno dagli spettatori (ancora oggi), perché all’epoca Moore ebbe una nomination agli Oscar come miglior attrice.. Diretta da Neil Jordan e con accanto Ralph Fiennes, è protagonista di un mélo d’epoca in piena regola (dal romanzo di Graham Greene) che mischia tormento ed estasi, anche nel senso strettamente mistico del termine. Guardaroba e cappellini fanno il resto, per incorniciare il suo volto da diva 40s.
Il funerale del mio migliore amico. Ma almeno non lo vediamo. Il tribolatissimo gay interpretato da Colin Firth, che ha perso il suo grande amore, prova a suicidarsi ma non ci riesce. Ma non finirà comunque bene. Nel folgorante esordio alla regia di Tom Ford, Julianne è la BFF del protagonista, altrettanto tormentata: basti la favolosa serata alcolica con cui cercano di ammazzare i dispiaceri. Anche stavolta, Firth è stato candidato all’Oscar e lei no: ma le restano capelli cotonati e meravigliose mise, ovviamente by il regista.
Dolore, pentimento, distruzione, redenzione (forse). Tutto concentrato in un personaggio, Linda Partridge, che spicca nel cast coralissimo di un altro film coralissimo by Paul Thomas Anderson. Ovvero, la moglie del malato terminale (il grande Jason Robards) che si accorge di amare il marito solo quando è in punto di morte. Il cinema d’autore (e la platea cinéphile) invece ormai amava Julianne alla follia.
E alla fine l’Oscar è arrivato. Per un film in cui l’attrice è eccezionale (ma dai), ma che forse non rende giustizia “cinematografica” alla sua carriera ad altissimo tasso di cinefilia, sia nella scelta dei personaggi sia in quella degli autori. Ma della Alice del titolo, donna di mezza età affetta da Alzheimer precoce, Julianne restituisce un ritratto sfumato, tenero, struggente come pochi. Se non è il suo film più bello (e non lo è), certamente è quello che ha convinto l’Academy a consegnarle la sospirata statuetta. Del resto, come rimanere insensibili di fronte alla scena del cassetto: sapete di cosa stiamo piangendo, pardon: parlando, vero?
Una diva che più diva non si può. Havana Segrand (che nome splendido) è una star di Hollywood in piena regola: fa yoga nel patio della sua villa di LA, ha amiche nell’industry (Carrie Fisher!) ed è un misto di vanità e fragilità senza soluzione di continuità (scusate la rima). David Cronenberg tratteggia il più “psycho” affresco della Mecca del cinema e offre alla nostra uno dei suoi ruoli più densi e autoironici. Scene memorabili: l’urlo liberatorio e la scopata in limousine con Robert Pattinson. La giuria di Cannes 2014, presieduta da Jane Campion, le ha dato la Palma d’oro per la migliore interpretazione femminile, ma la nomination all’Oscar non è arrivata: vergogna!
Altro giro, altro film coralissimo, questa volta nelle mani del sommo Robert Altman che adatta per il grande schermo gli scritti di Raymond Carver. Julianne è solo una dei 22 (!) protagonisti, ma ha forse una delle scene più potenti nei panni della pittrice Marian Wyman: il marito super geloso (Matthew Modine) le chiede conto di una relazione mentre è nuda dalla vita in giù e sta disperatamente cercando di pulire la gonna prima di una cena.
I ruoli comici della nostra si basano principalmente sul suo approccio impassibile anche al materiale più esilarante. Il risultato è Maude Lebowski, la figlia del riccone per cui viene scambiato il Drugo di Jeff Bridges, un'artista che dipinge nuda mentre è legata a un'imbragatura volante. Il suo accento upper class e la capacità di non battere ciglio quando parla degli aspetti più sessuali della sua opera arte ne hanno fatto un personaggio femminile iconico (e pure un meme), pure nella comedy al testosterone dei Coen.
Julianne ha il glam e la malinconia delle star della Vecchia Hollywood. Ecco perché, nel raffinatissimo mèlo di Todd Haynes che si ispira al cinema Fifties di Douglas Sirk, Moore è semplicemente divina (vincerà la Coppa Volpi a Venezia) nel ruolo di una casalinga che trova conforto nel giardiniere afroamericano (Dennis Haysbert) dopo aver scoperto che il marito (Dennis Quaid) è omosessuale. E il technicolor dai colori sgargianti benedici i colori e i tratti somatici pressoché unici della nostra tra acconciature bon ton, foulard e cappellini deliziosi.
Se interpretiamo l’esilarante epica di Paul Thomas Anderson dedicata all’industria del porno nella California degli anni ’70 e ’80 come una saga familiare, il personaggio di Moore è senza dubbio la madre in pectore di questa banda di disadattati alla ricerca di un sogno americano tutto loro. La pornostar Amber Waves è il personaggio che lancia Julianne nello showbiz che conta: non può vedere il figlio perché è nel pieno di una battaglia per la custodia con il suo ex marito e trasferisce il suo amore materno su questa famiglia surrogata. Prima stra-meritata nomination agli Oscar (vinse Kim Basinger per L.A. Confidential), ma soprattutto un messaggio umanissimo che riempie il film.
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