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Coronavirus goes to Hollywood: una crisi senza precedenti nell’industria del cinema

Festival cancellati, set sospesi, perdite già pesantissime. Ma, mentre l'epidemia dilaga in tutto il mondo, gli studios USA stanno a guardare. Ancora ignari, dicono gli esperti, di un annus horribilis

Un fotogramma di 'The Canyons' di Paul Schrader

L’annullamento del SXSW il 6 marzo scorso a causa dell’emergenza coronavirus ha provocato dure reazioni in tutta l’industria dell’intrattenimento. In realtà, è stato solo il culmine di una settimana di ansia crescente – nelle executive suite degli hotel e nelle sale riunioni aziendali, nei teatri di posa, sui set cinematografici e televisivi, sui tappeti rossi delle première, nei multisala e nelle sale da concerto – che ha spinto Hollywood sull’orlo di un abisso di incertezze.



Oggi nessuna conversazione sembra chiusa del tutto senza almeno un riferimento a una crisi sanitaria così diffusa e allarmante a livello globale da sembrare il plot di un film catastrofico. In realtà, lo è già stato: Contagion, il film di Steven Soderbergh uscito nel 2011, è diventato nell’ultima settimana uno dei titoli più noleggiati su iTunes. Oggi, però, è tutto terribilmente reale, con 4.262 morti riportate e 118.583 casi confermati in tutto il mondo al momento in cui scriviamo. E questi numeri sono destinati a crescere.



Più il virus noto come COVID-19 si diffonde in tutto il pianeta, più cresce la reazione collettiva. Intere aree dell’Asia sono state confinate per settimane, l’Italia ha di recente circoscritto l’intera nazione e diversi Paesi europei stanno considerando seriamente un blocco. Nonostante l’annullamento dei più grossi eventi pubblici, gli Stati Uniti restano in una posizione di nervosa attesa, con l’economia quotidiana certamente compromessa, ma ancora con lo sguardo rivolto in avanti.



I numeri brutali di questa pandemia sono al tempo stesso impossibili da evitare e fastidiosamente difficili da definire con precisione. Nello stesso giorno della cancellazione del SXSW, la biologa Liz Specht ha pubblicato un post su Twitter che ha provocato una violenta discussione: prevedeva almeno quattro milioni di casi di COVID-19 negli Stati Uniti entro la metà di maggio, e tra i due e i sei miliardi di casi su scala globale entro luglio.



I calcoli di Specht rappresentano il peggiore degli scenari. «Anche se mosse da buone intenzioni, queste previsioni sono ancora delle semplici supposizioni, spesso basate su dati fuorvianti», sostiene Patricia Sung, epidemiologa e responsabile della prevenzione dei contagi al Verdugo Hills Hospital della University of Southern California. Sung sottolinea come tutte le aziende dovrebbero rivolgersi ai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie e ai dipartimenti sanitari locali per avere delle linee guida. I Centri, tuttavia, non sanno ancora dare una proiezione concreta a proposito di quanto il virus potrebbe diffondersi negli Stati Uniti. Il 9 marzo, la sezione del sito dei Centri dedicata al coronavirus riportava, in termini ancora cauti e vaghi: «Per la maggior parte delle persone, si crede che il rischio immediato di essere esposte a questo virus sia ancora piuttosto basso».



Se è facile a dirsi, è più difficile comprendere quando questa epidemia stia avendo un impatto enorme in tutto il mondo, soprattutto per ciò che riguarda l’industria dell’intrattenimento, un settore multimilionario fondato sui viaggi e i raduni di moltitudini di persone. Almeno una cosa è chiara: se il virus continuerà a diffondersi seguendo la sua attuale traiettoria, gli americani dovranno semplicemente buttare un occhio verso l’Europa per capire come sarà il loro futuro prossimo; e all’Asia per vedere invece come è stata gestita la situazione fino ad ora.



Dal momento in cui l’epidemia ha iniziato a manifestarsi fuori dalla cinese Wuhan a gennaio, le società del settore dell’intrattenimento e le agenzie dei diversi talent hanno imposto restrizioni nei viaggi, forzando molti impiegati residenti nelle aree colpite a lavorare da casa, e incoraggiando i loro dipendenti a fare più teleconferenze che riunioni faccia a faccia. Le azioni del settore media hanno subito fortissimi colpi, crollando insieme al resto del mercato nelle scorse settimane, in primo luogo per le paure legate al coronavirus. I tragici effetti che l’epidemia provocherà sull’economia globale stanno cominciando a farsi sentire nell’intero panorama dei media. Le azioni di Disney hanno subito un crollo pari quasi al 23%, mentre ViacomCBS, già in crisi, quest’anno ha perso più del 51%. Nel corso dei precedenti crolli finanziari, il consumo collettivo di cultura popolare – andare al cinema, vedere un concerto – era considerato a prova di recessione. Non è il caso del COVID-19.



«Tutto questo avrà un impatto fortissimo sull’intera economia mondiale, ma l’industria dell’entertainment ne uscirà particolarmente colpita», osserva Hal Vogel, un analista dei media di lungo corso. «Le persone adesso sono spaventate, e non vogliono di certo passare il loro tempo dentro cinema affollati. La domanda che mi faccio, e a cui non so ancora dare una risposta, è: quanto ancora andrà avanti? E soprattutto: la situazione si farà più seria?».



Produttori, registi, agenti, publicist, attori e analisti dicono tutti che questa è una situazione senza precedenti. Non si è mai vista un’epidemia globale minacciare così tanti pezzi cruciali dell’industria nello stesso momento. E, quando ancora più persone si ammaleranno, gli spettatori resteranno a casa, eviteranno i multiplex, i teatri e i concerti. Nell’immediato, la gente correrà in massa verso servizi di streaming come Netflix e Disney +, che offrono film e serie nella sicurezza di casa propria. Nel crollo generale del mercato, Netflix risalta in positivo per ciò che riguarda il settore dei media: le sue azioni sono salite del 12,5% dall’inizio dell’anno. Gli investitori sembrano considerare la piattaforma al riparo, in quanto virtualmente non esposta a nessun tipo di contagio. Un vantaggio che potrebbe crescere se l’epidemia peggiorerà, costringendo le persone a stare lontane dai luoghi di ritrovo collettivo.



«Netflix è un caso assolutamente unico tra le compagnie del settore media, perché è un servizio di streaming puro», dice David Miller, analista della Imperial Capital. «La fruizione di prodotti in streaming è ovviamente destinata ad aumentare, se la gente resterà a casa». Ma anche le compagnie di streaming subiranno dei contraccolpi, almeno dal punto di vista della produzione di contenuti nuovi.



Il set del film Red Notice, di produzione Netflix, ha lasciato le location italiane dopo che il 10 marzo il numero di morti per coronavirus nel Paese è salito a 631. Mission: Impossible 7, prodotto da Paramount, ha sospeso le riprese previste a Venezia.



Film e serie tv girati in Cina, Corea del Sud e Hong Kong hanno subito inevitabili ritardi. La minaccia del contagio ha spinto a rivedere i piani di molte produzioni. The Bachelorette ha bloccato le riprese in Italia e The Amazing Race ha sospeso la produzione della 33esima stagione. I produttori di una nuova serie ambientata a New York, secondo una fonte interna, hanno modificato il finale. Hanno scartato l’ipotesi di girare l’ultimo episodio in un Paese tropicale e si sono spostati nella più sicura Florida. La puntata è stata riscritta a seguito della scelta di ridimensionare la trasferta della troupe.



C’è in corso anche una seria discussione sul fatto che le diverse compagnie di assicurazione coinvolte possano coprire o meno i costi imprevisti provocati da un’epidemia inattesa come quella in corso. «Se non faranno eccezione neanche di fronte a un virus come questo, allora l’industria in tutto il mondo fermerà le produzioni finché tutto non sarà finito», sostiene Chris Spicer, avvocato dello studio Akin Gump. Se le produzioni si fermeranno o rallenteranno, questo andrà a colpire sicuramente i membri delle troupe, gli attori, gli sceneggiatori e i registi che dipendono dal sistema economico del mondo dello spettacolo, in cui gli stipendi possono essere liquidati solo quando la casa di produzione trova la serie o il film successivo da girare.



Anche il panorama delle uscite in sala è stato scompaginato dal COVID-19. La scorsa settimana, MGM ha rimandato da aprile a novembre l’uscita di No Time to Die, l’ultimo film della saga di James Bond, i cui incassi contavano soprattutto sui territori extra-americani. Il 10 marzo, Sony ha spostato Peter Rabbit 2 – Un birbante in fuga dalla fine di questo mese al prossimo agosto. Al momento, altri blockbuster mantengono le loro date originali, ma film ad alto budget come Black Widow, Fast & Furious 9 – The Fast Saga e Wonder Woman 1984, che dipendono quasi interamente dal box office internazionale, potrebbero riconsiderare le loro uscite se la situazione non migliorerà nelle prossime settimane, e al momento non c’è nessun segnale in questo senso.



L’impossibilità degli studios di distribuire film come 1917 e Mulan in Cina, dove le sale sono chiuse da due mesi, ha provocato un’ulteriore stangata. Gli analisti stimano una perdita pari a 2.15 miliardi di dollari nelle entrate del botteghino internazionale. E, quando i titoli di Hollywood potranno tornare sul mercato, dovranno vedersela con i colossi cinesi che hanno rimandato la loro uscita, creando un effetto-imbuto per i titoli USA che sperano di attirare grandi platee nel secondo mercato più ricco del mondo. «È una pessima annata per Hollywood in Cina, e non è destinata a migliorare», conferma Stanley Rosen, docente di Scienze politiche alla University of Southern California ed esperto di mercato cinematografico cinese.



Il mercato statunitense non ha ancora sofferto così tanto. Lo scorso weekend, gli incassi al box office sono calati del 50% rispetto allo stesso fine settimana del 2019, ma ciò è dovuto soprattutto al fatto che Onward, l’ultimo film d’animazione Pixar, non ha saputo generare lo stesso livello d’interesse di Captain Marvel, uscito l’anno scorso nello stesso periodo. L’uomo invisibile e Sonic – Il film, invece, sono stati dei grandi successi, nonostante l’uscita nelle sale nel momento in cui il virus cominciava a dominare tutta l’informazione.



«Abbiamo lavorato con tutti gli scenari e le variabili possibili, possiamo solo immaginare quello che accadrà», commenta Jeff Goldstein, presidente della distribuzione statunitense di Warner Bros. «Ieri sono andato al cinema, e non mi è sembrato che la platea fosse preoccupata. Poi sono andato al ristorante, ed era affollato come sempre. Ma se la situazione dovesse peggiorare, potrebbe cambiare tutto in un secondo».



Greg Leammle, presidente della catena losangelina Leammle Theatres, ha iniziato il 2020 pensando che la vittoria agli Oscar di Parasite avrebbe dato una grande spinta al circuito dei film “d’essai”, ma il COVID-19 ha messo all’angolo il suo ottimismo. «L’impatto sugli spettatori americani è appena cominciato, ma non sono affatto tranquillo per il futuro», ha affermato nel corso di un’intervista con Variety durante l’incontro GlobeScreen, svoltosi a Los Angeles la settimana scorsa. «Se le sale saranno costrette a chiudere, non toccherà solo ai Leammie Theatres, ma a tutti i cinema statunitensi. Speriamo solo non duri per sempre».



Altri veterani dell’industria prevedono che la chiusura delle sale non sarà nazionale, ma varierà di stato in stato. Il che potrebbe rendere il danno economico meno pesante. «Le sale cinematografiche sono luoghi ricreativi fortemente locali», nota Tom Bernard, capo di Sony Pictures Classics. «Le persone che vivono in zone non considerate a rischio potranno continuare ad andare al cinema».



Questa forma di cauto ottimismo sembra estendersi a tutta l’industria. «Stiamo seguendo le direttive dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, e finora non è cambiato nulla», dice Kelly Bush Novak, amministratore delegato del gruppo ID PR, la quale fa notare come nessuno dei suoi clienti famosi abbia ridotto i viaggi e le trasferte previsti. Al tempo stesso, però, non nasconde quanto l’annullamento del SXSW abbia scatenato il dibattito su quel che succederà riguardo ai prossimi grandi eventi.



Promuovere grossi progetti all’estero sta diventando naturalmente molto faticoso. Trolls World Tour, prodotto da Universal, ha aggiunto una giornata di attività stampa “satellite” a Los Angeles per i giornalisti di Paesi come l’Australia; mentre, al momento in cui scriviamo, è ancora previsto che John Krasinski voli a Londra per il suo A Quiet Place II. HBO ha invece cancellato il tour in Brasile per la promozione della nuova stagione di Westworld.



Dopo l’annullamento del CinemaCon, la fiera annuale di Las Vegas dedicata agli esercenti, ci sono dubbi sullo svolgimento del Tribeca Film Festival, previsto per la metà di aprile, e sul fatto che il Festival di Cannes, che invece si tiene a metà maggio, possa partire, ora che il governo francese ha vietato gli assembramenti di più di mille persone. Questo crea disagi non solo a registi e divi che aspettano da tempo di presentare i loro film in festival così prestigiosi; è un durissimo colpo anche per i publicist e gli agenti che guadagnando solo promuovendo i loro titoli e vendendoli ai distributori in loco. «Se non ci saranno Tribeca e Cannes, l’effetto economico su tutti noi sarà devastante», prevede Hilda Somarriba, responsabile delle pubbliche relazioni del Prism Media Group. «Se i film non possono essere proiettati, significa che noi perderemo il lavoro».



Gli agenti stanno pensando a nuove modalità attraverso cui presentare i loro film ai potenziali acquirenti. Ma sanno che, nel caso, sarà molto difficile creare la frenesia mediatica che accompagna le première al SXSW o a Cannes. «Siamo di fronte a un notevole paradosso», nota John Sloss, capo dell’agenzia Cinetic. «Non è una buona notizia per i festival, ma le persone saranno costrette dentro casa, dunque consumeranno molti più contenuti. Perciò, anche se tutto questo danneggia l’esperienza della sala, farà crescere le vendite dei film alle piattaforme di streaming».



Alcuni registi stanno vagliando la possibilità che il SXSW possa diventare un evento digitale, in cui i titoli che avrebbero fatto il loro debutto ad Austin potranno essere visti in streaming previo l’acquisto di un biglietto online. Ma non tutti sono convinti che questa sia un’alternativa adeguata. (SXSW ha licenziato un terzo del suo staff annuale dopo aver cancellato il festival).



«Far vedere il tuo film in quel modo annulla le reazioni “live” degli spettatori, fondamentali per un regista», osserva Caleb Johnson, autore di The Carnivores, una dramedy prevista nel cartellone del SXSW. «La domanda cruciale è: un evento streaming avrebbe lo stesso peso di un festival o sarebbe solo un mero palliativo?». 



La cancellazione della kermesse all’ultimo minuto ha lasciato molti autori a pezzi. «Aspettavamo la reazione degli addetti ai lavori di fronte al nostro film, per poi trovare un distributore e avere quindi un’anteprima vera e propria, che rappresentasse il traguardo di tutto il nostro lavoro», lamenta Jason Sussberg, regista di We Are as Gods, il documentario scelto per aprire il festival. «È un rituale importante. Se no è come avere una morte senza un funerale o un matrimonio senza cerimonia».



Mentre gli appassionati di musica negli Stati Uniti sembrano più preoccupati dai viaggi che dalla partecipazione a raduni collettivi, gli eventi che mettono insieme le due cose sono già stati colpiti duramente. Il blocco di SXSW e di Ultra, un festival di musica dance che si svolge a Miami, ha avuto un impatto pazzesco sugli artisti e sulle comunità che ospitano quegli eventi. Hamid Bijari, general manager del Belmont di Austin, spiega che la location era stata affittata per tutti i dieci giorni di SXSW: «Chi ci rimette davvero non sono le grandi compagnie, ma i baristi e i camerieri locali».



Inizialmente, gli eventi su suolo statunitense non sono stati toccati, ma lo scenario è cambiato molto rapidamente. Il 9 marzo i Pearl Jam hanno posticipato la prima parte del loro tour nordamericano, che sarebbe dovuto partire il 18 marzo, e i festival Coachella e Stagecoach a Indio, California, sono stati spostati da aprile a ottobre. Green Day, Madonna e Kahlid hanno invece dovuto rinviare o cancellare i loro concerti in corso in Asia e in Europa.



Altri rami dell’industria stanno combattendo con gli sviluppi della situazione. Spettacoli di Broadway come Hadestown hanno sospeso all’ingresso degli artisti i raduni dei fan in cerca di autografi, mentre late night show e sitcom registrati di fronte a un pubblico stanno considerando l’idea di effettuare le loro riprese davanti a poltrone vuote. Ma queste precauzioni potrebbero non essere sufficienti. Jesse Tyler Ferguson, impegnato nelle prove di Take Me Out, una pièce su un giocatore di baseball omosessuale che debutterà a Broadway il prossimo 31 marzo, è consapevole del fatto che il durissimo lavoro di tutto il cast potrebbe andare buttato. «Il pensiero di provare e riprovare uno spettacolo che nessuno verrà a vedere mi spezza il cuore», confessa. «Spero vivamente che non accadrà».



Solo Disney potrebbe dimostrare di essere un esempio di resistenza dell’industria al virus, vista la sua considerevole presenza in tutte le sacche dell’entertainment: dalla produzione alla distribuzione anche in streaming, dalle navi da crociera ai parchi di divertimento. L’“effetto corona” era assai palpabile all’anteprima di Mulan del 9 marzo scorso al Dolby Theatre di Los Angeles: la maggior parte dello staff impiegato nell’evento indossava guanti, c’erano ovunque distributori di disinfettanti, intere file di poltrone erano coperte da metri di tessuto nero per nascondere le tante defezioni degli invitati e la regista Niki Caro ha letto un messaggio di solidarietà indirizzato alla popolazione cinese, che stava affrontando il picco dell’epidemia. Ma se Disney ha chiuso i suoi parchi a tema in Asia, in patria Disneyland e Walt Disney World restano aperti. La Disney Cruise Line ha momentaneamente modificato le sue politiche di cancellazione per permettere ai clienti di modificare i loro itinerari; del resto, il Dipartimento di Stato americano ha consigliato ai cittadini di evitare le crociere.



«Chiunque lavori in questo mercato ha osservato la crescita dell’intrattenimento “esperienziale” negli ultimi 15 anni», rimarca Craig Moffett, analista presso MoffettNathanson. «Ma non è difficile immaginare come l’impatto del coronavirus riporterà tutto indietro, in una direzione possibilmente anche peggiore».



Tutto questo potrebbe lasciare Disney con le ossa rotte, considerato che nel 2019 la branca parchi divertimenti ha reso più del 45% dei 14.87 miliardi di dollari di guadagni lordi totali. Comcast NBCUniversal potrebbe uscirne allo stesso modo distrutta su molti fronti, visto che opera al contempo su contenuti audiovisivi, parchi a tema e telecomunicazioni.



La reazione a catena del coronavirus sull’economia di più larga scala potrebbe spingere gli Stati Uniti verso una nuova recessione. Il che porterebbe a una frenata degli investimenti pubblicitari delle società ad alta capitalizzazione, con la conseguenza di un duro colpo inferto all’intero settore televisivo. Le perdite diffuse di lavoro potrebbero condurre a un restringimento del reddito disponibile per la sottoscrizione di abbonamenti a tv via cavo o servizi di streaming, così come per l’acquisto di biglietti di spettacoli teatrali, film e concerti.



E tutto questo accade nel peggiore dei momenti possibili. La maggior parte dei grandi player di Hollywood – vedi Disney, Comcast e AT&T – ha già vissuto sulla propria pelle l’impulso dato dalle recenti acquisizioni. Comprando, rispettivamente, 21st Century Fox, BSkyB e Time Warner, si sono ritrovate con altissimi livelli di debito e le relative richieste di ristrutturazione. Tutte queste aziende sono già sotto pressione per contenere i costi: i colpi al bilancio assestati dal coronavirus potrebbero costringerle a scegliere la strada dei licenziamenti a tappeto.



«Quando una società sta andando bene, nessuno vuole fare tagli» è la tesi di James Angel, docente di Finanza alla Georgetown University, il quale precisa che queste dinamiche cambiano improvvisamente «quando ci si ritrova con le spalle al muro».



Questa pressione non sarà mitigata molto presto. E anche la speranza che il COVID-19 sarà totalmente sotto controllo nel giro di pochi mesi non è così realistica. «C’è una possibilità che il virus si diffonda ancora di più nell’autunno del 2020», pronostica l’epidemiologa Patricia Sung. Ma, aggiunge, «il prossimo autunno saremo anche più consapevoli su come prevenire il contagio e come gestire le complicanze nelle persone che sono state affette da COVID-19».



Nel frattempo, studios, sale da concerto e teatri stanno prendendo tutte le precauzioni consigliate dagli esperti. Stanno ricordando ai loro dipendenti di lavarsi spesso le mani e di stare a casa se malati, e stanno incrementando la sanitizzazione degli uffici e degli spazi comuni. Ma mettere l’Amuchina a disposizione di tutti gli ospiti non tiene lontani da ogni rischio. «Se hai del disinfettante per le mani, usalo», consiglia Leammle. «Ma poi nascondilo subito, o te lo ruberanno: la gente nei supermercati fa già fatica a trovarlo».

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Variety dell’11 marzo 2020.

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