David Lynch era fatto della stessa materia dei sogni, degli incubi, del cinema | Rolling Stone Italia
Una storia vera

David Lynch era fatto della stessa materia dei sogni, degli incubi, del cinema

La felicità, la meditazione trascendentale, il cinema che non può e non deve essere spiegato, ma vissuto. Ritratto esperienziale in due atti dell'Autore che ha rivoluzionato tutto. 'Now is dark', e adesso qui è davvero un po' più buio

David Lynch

David Lynch

Foto: press

Una volta David Lynch mi ha detto che la felicità si raggiunge meditando. Ognuno ha il suo ricordo di quest’uomo venuto da un altro mondo, reale o immaginario, fatto della stessa materia dei sogni, degli incubi, del cinema. Io ne ho almeno due e uno – che meraviglia – è che l’ho incontrato, gli ho stretto la mano, abbiamo scambiato qualche battuta: «La vera felicità non è là fuori, ma è dentro di noi», mi ha spiegato. Certo, era a Milano per presentare un programma scolastico promosso dalla sua fondazione e basato sulla meditazione trascendentale (non ho la minima idea di come sia andata a finire il progetto, ma lì per lì è stato bellissimo).

Parliamo di una dozzina d’anni fa più o meno, frequentavo la Scuola di giornalismo e ricordo tutto lucidissimamente, persino come era vestito – abito scuro, camicia bianca e cravatta ocra, ciuffo d’ordinanza sempre più candido –, gli occhi azzurri perennemente alla ricerca di qualcosa, quell’aria über cool senza il minimo sforzo. Ma allo stesso tempo è quasi tutto un blur, come se non fosse successo davvero, come se stessi in un film di David Lynch. «Per essere felici basta meditare 20 minuti la mattina e 20 la sera. In 40 anni io non ho mai mancato un appuntamento». Diceva che era da lì che arrivavano le “idee” perché sì, quella che parlava era la stessa persona capace di immaginare il brulichio di insetti sotto la staccionata bianca di Velluto blu, la creatura creepy che appare nel vicolo in Mulholland Drive, l’incidente d’auto in Cuore selvaggio, la telefonata ‘impossibile’ in Strade perdute, la Stanza Rossa in Twin Peaks, la strada che viene bloccata in Fuoco cammina con me. E potrei continuare. «Mi fanno sempre questa domanda: “Ma se sei così felice, perché fai questo tipo di film?”. Io amo le idee e amo le storie, ma concludo sempre dicendo anche che l’artista non deve necessariamente soffrire per mostrare la sofferenza», ha affermato. O almeno è quello che mi è rimasto in testa.

È tutto fuori dal mondo, inquietante, inspiegabile nel cinema di Lynch, eppure è tutto umanissimo, concreto, dentro al mondo. È tutto surreale eppure realissimo, metafisico eppure terreno. Lynch è stato l’Autore che ha rivoluzionato il Cinema d’Autore, che si è fatto ispirare anche dalle correnti europee – dall’Espressionismo, alla Nouvelle Vague – per fondare un cinema che non assomiglia a nient’altro ed è solo suo, fortissimamente suo, “lynchiano”, come scrisse David Foster Wallace: “Un particolare tipo di ironia in cui il macabro e il molto banale si combinano in modo tale da rivelare il perpetuo contenimento del primo nel secondo”. Ha cambiato anche la storia della televisione Lynch, con il fenomeno Twin Peaks, senza cui nessun true detective oggi potrebbe filosofeggiare nietzschianamente che “Il tempo è un cerchio piatto”. Un “film a puntate” che ha inventato la serialità con tutte le conseguenze, come il concetto stesso di spoiler. L’8 aprile del 1990 c’erano 36 milioni di persone davanti alla tv per assistere al ritrovamento del cadavere di Laura Palmer avvolta nella plastica e vedere l’agente Cooper in macchina dire: “Diane, sono le 11.30 di mattina, è il 24 febbraio. Sto entrando nella città di Twin Peaks…”. Pare addirittura che la regina Elisabetta abbia saltato un evento con Paul McCartney per poter guardare un episodio, Badalamenti dixit.

Sempre secondo David Foster Wallace, il cinema di Lynch «oppone resistenza al processo attraverso il quale si coglie il senso centrale di un film», che è un modo bellissimo per dire che nei film di Lynch non si capisce nulla, mai. Ed è fantastico proprio perché è così. Ecco il secondo ricordo: Mostra del Cinema di Venezia, 2006, conferenza stampa per la presentazione fuori concorso di Inland Empire – L’impero della mente, quello che sarebbe stato l’ultimo film di Lynch e probabilmente il suo più impenetrabile. Non c’ero (la mia prima volta al Lido sarebbe stata un paio di anni dopo), non l’avevo ancora visto (sarebbe uscito a distanza di qualche mese), ma seguivo religiosamente l’incontro – credo – sulla tv satellitare e ho chiarissima l’immagine di Laura Dern mentre spiegava una cosa del tipo: “Prendevamo una direzione diversa ogni giorno, perché non avevamo una sceneggiatura da seguire”, e Lynch che annuiva: “A poco a poco ha iniziato a rivelarsi”.

I giornalisti presenti cercavano in tutti i modi di scucirgli qualche informazione in più: qualcuno gli ha chiesto coraggiosamente che senso avrebbe dovuto avere il film. Risposta: “Dovrebbe avere perfettamente senso”. Un altro gli ha domandato perché tre attori indossavano teste di coniglio e uno era in piedi in un angolo a stirare. Risposta: ”No, non riesco a spiegarlo”. E ancora: “Vorrei davvero essere in grado di farlo, ma la spiegazione è il film. Ecco cosa c’è di terribile nelle conferenze stampa. È tutta una questione di film, non di parole”. Poi Lynch ha detto un’altra cosa, che è stata tipo una rivelazione per la me ventenne che voleva fare questo lavoro: “Non dovreste aver paura di usare il vostro intuito, la pancia, arrivateci con il vostro percorso”, ha affermato. “Vivete l’esperienza e abbiate fiducia che nel vostro profondo sapete tutto benissimo”. Sbam. Poi, quando gli è stato consegnato il Leone d’oro alla carriera quello stesso anno (era l’artista più giovane di sempre a riceverlo), ha dichiarato semplicemente: “Grazie al cinema, grazie”.

Grazie a te David. “Now is dark“, come ripete il Frank Booth di Dennis Hopper in Velluto blu, adesso è davvero un po’ più buio. E temo che non ci sia meditazione trascendentale che tenga.

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