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Della Vitti non si sa niente

Anzi, ‘delle’ Vitti. Compie novant’anni la diva che è stata centomila dive, e la donna che è impossibile conoscere. Anche (forse) per chi la conosceva bene. Nonostante i film, le fotografie, il mito, il destino invisibile. Un ritratto

Foto: Susan Wood/Getty Images

Di Monica Vitti non si sa niente. Potrei illudervi, potrei farvi credere che questo incipit preluda a grandi rivelazioni che non troverete altrove, a dettagli della sua vita privata finora ignoti. Oppure potrei alludere, dire che non ne sappiamo niente perché la Vitti è nascosta da decenni, viva ma invisibile, ritirata non à la Garbo ma perché giocare tutta la vita a burraco non è bastato a non far cedere i suoi neuroni, potrei dire delle cose vaghe nel modo in cui tutti quelli che parlano della Vitti accennano al perché non la vediamo più, con quei giri di parole con cui le nostre prozie dicevano «brutto male».

Ma la verità è che della Vitti non si sapeva niente neanche prima. Neanche quando la intervistava la Fallaci (intesa come Oriana), la fotografava Newton (inteso come Helmut), quando era famosissima ma irriconoscibile, comicissima ma malinconica – no, non posso fare neanche questo, poi è un attimo arrivare a «silenzio assordante», e la Vitti merita di meglio.

Ricominciamo.

La più bella estate della mia vita adulta l’ho passata a fare un lavoro che non m’hanno poi pagato. La Vitti stava per compiere ottantacinque anni, e mi commissionarono un documentario su di lei. È quel principio che guida chi fa questo mestiere e insegue i colossi d’un qualunque campo, un principio indicibile ma assai detto, lo stesso per cui andai a intervistare Franca Valeri quando stava per compiere novantanove anni, lo stesso per cui torno a casa dopo ogni conversazione con Natalia Aspesi (che ne ha novantadue) e mi annoto tutto. È un principio ovvio, si chiama: poi muore.

Poi muore e mi pento di non essermi annotata tutto. Poi muore e mi pento di non averla mai conosciuta. In alcuni scatta presto, per me è arrivato troppo tardi, dopo la morte di Lucio Dalla. Non ero mai stata a un suo concerto. Sono di Bologna: Dalla era paesaggio, era lessico famigliare, sarebbe sempre stato lì, ci sarebbe sempre stato tempo d’andare a un suo concerto. E invece.

Monica Vitti sul set di ‘Modesty Blaise – La bellissima che uccide’ di Joseph Losey (1966). Foto: Susan Wood/Getty Images

Ma non stavamo parlando di me. Cioè, sì. Stavamo parlando della tizia che mi commissiona un documentario sulla Vitti dicendo qualcosa tipo: poi muore, non è possibile non ci sia un documentario decente su di lei. La più bella estate della mia vita è un’estate passata a rivedere i film della Vitti, leggere le interviste della Vitti, guardare le apparizioni televisive della Vitti, sfogliare le foto delle Vitti. Non è un refuso, “delle”.

La prima cosa che noti, nelle sue foto, è che la Vitti è centomila Vitti. Non somiglia a sé mai. Che non esista una Vitti è l’unica cosa che è impossibile non sapere della Vitti, e infatti la sapeva anche lei: «Dovrebbe vedere le fotografie di sette anni fa per capire quanto sono cambiata. O meglio: la serietà con cui mi sono cambiata. Non sembro nemmeno la stessa persona. Dio com’ero brutta. A volte dico a Michele: ma come hai fatto a interessarti a me se ero così brutta?». La frase sta in un’intervista pubblicata sull’Europeo nel 1963, un’intervista che si apre e si chiude con Oriana Fallaci che domanda cosa sia l’alienazione. “Michele” è Michelangelo Antonioni, e la Vitti è ancora la Vitti meno interessante: quella cui fanno male i capelli, quella che di Antonioni è interprete e musa oltre che compagna. Ancora per poco: l’anno dopo si fidanzerà con Carlo Di Palma – d’altra parte Antonioni era causa del proprio male.

«Ero fidanzata con un bravo e buon ragazzo, architetto, quando conobbi Antonioni. Lo conobbi mentre doppiavo Dorian Gray ne Il grido e mi difesi con tutte le forze dal momento in cui Michele mostrò interesse per me. Gli dicevo: “Signore, mi creda, ambizioni per il cinema io non ne ho. Non me ne importa nulla di fare il provino. Sto per sposarmi e non devo pensare ad altro. Signore, mi creda, io amo l’uomo che sto per sposare”. Ero talmente convinta che il mio fidanzato fosse l’uomo della mia vita, ero così sicura di amarlo che, per anni, non ho perdonato a Michele d’avermi fatto capire questa cosa terribile, che l’amore finisce».

Comunque: conoscere la Vitti è impossibile. È impossibile conoscere quella di ora: in Vitti d’arte, Vitti d’amore, documentario dal titolo tremendissimo che Rai 3 trasmetterà venerdì 5 novembre, Barbara Alberti sintetizza il lavoro che fa da tanti anni il marito, Roberto Russo, proteggendone la privatezza, non permettendo alla sua malattia di diventare pettegolezzo, né foto men che splendente, né apparizione indesiderata, Barbara Alberti – che fu sceneggiatrice di due dei film in cui Carlo Di Palma diresse la Vitti – definisce il modo in cui Russo ha tutelato la moglie «un atto d’amore e anche di intelligenza politica».

Ma è impossibile conoscere anche la Vitti degli anni pubblici. Quell’estate in cui lavoravo al documentario che mai si girò – in autunno la committenza cambiò idea – la lista degli intervistati possibili era già smilzissima. Il più prezioso, se mai avessimo girato, sarebbe stato Enrico Lucherini, che raccontava che per La ragazza con la pistola era stata lei a spiegare a lui tutti i ritocchi fotografici necessari, essendo avantissimo. (Le mie foto preferite della Vitti le furono scattate al festival di Cannes. Era il 1968, la Vitti era in giuria, e la fotografarono in una camera da letto così disordinata che sembra casa mia. Ma non è solo il disordine, a rendermele preferite. Cercatele, guardatele, e ditemi se non sono foto che potrebbero essere scattate dopodomani).

Monica Vitti During 'Modesty Blaise'

Foto: Susan Wood/Getty Images

In quell’estate favolosamente crudele era morto da poco Ettore Scola (regista di uno dei miei Vitti preferiti, Dramma della gelosia), ed era già da anni morto Mario Monicelli (regista dell’altro mio Vitti preferito, La ragazza con la pistola). Erano morti quasi tutti i suoi coprotagonisti: Mastroianni, Sordi, Gassman, Tognazzi. Una delle sue amiche, Marta Marzotto, morì quand’ero ancora al primo giro di telefonate. Era più che mai attuale la motivazione di quell’estate lavorativa: poi muoiono.

Tra i vivi, tantissimi erano quelli che non ne volevano parlare, da Gianni Morandi, del quale si favoleggiava fosse stata amica, a gente che l’aveva vista nelle sue ultime apparizioni pubbliche e, ricca di senno di poi, diceva che già si capiva stesse male, e insomma non se la sentiva di parlarne. Allora erano meno di vent’anni che Monica Vitti non si vedeva in giro, e sembrava di chiedere ricordi del dopoguerra. Quasi tutti i pochissimi che avrebbero avuto qualcosa da dire sono morti da allora a oggi: Gigi Proietti, Carlo Giuffré, Gian Luigi Rondi. Nei cui diari, Le mie vite allo specchio, viene annotato che alla festa di fine anno del 1997 la Vitti urlante davanti al buffet sarebbe stata così commentata in una conversazione: «È strana questa sera Monica, non l’ho mai vista così» «Anch’io sono della tua opinione, anche perché mi sembra quasi totalmente cambiata, ha una luce curiosa negli occhi».

Certo che è la solita Vitti: quella che non è mai uguale; e certo che, lette col senno di poi, quelle due righe sembrano chissà quale presagio. Se fosse un giallo comico di quelli che poteva interpretare la Vitti, allora nel 2021 la Vitti non sarebbe davvero malata. Sarebbe nascosta – una Mina, una Garbo – da un mondo in cui che mai potrebbe fare – il Grande Fratello Vip? – da un cinema in cui non c’è una Natalia Ginzburg a inventare un personaggio perfetto per lei (mille piattaforme, e non una sulla quale chi è così sfortunato da abitare questo secolo possa guardare Ti ho sposato per allegria); e da una società che riempirebbe di cancelletti indignati l’eventuale uscita di Amore mio aiutami, un film dove Sordi la riempiva di botte, ma scherziamo, e il cattivo esempio, e il dovere di rieducare il maschio tossico, e la rava, e la fava.

Nel documentario di Fabrizio Corallo, Vitti d’arte (e il resto del terribile gioco di parole che mi rifiuto di ripetere), Sandro Veronesi sintetizza così Dramma della gelosia, il film di Age e Scarpelli e Scola nel quale la Vitti era contesa da Mastroianni e Giannini (che poi alla fine la ammazzavano, e pensa oggi i cancelletti #femminicidio, e guarda come t’uccido la commedia a colpi di buone cause): «Questa è gente che non ha scritto romanzi perché non aveva bisogno di scrivere romanzi, perché scriveva quei film lì». (La suggerisco come lapide a «Le serie televisive sono i nuovi romanzi?» e altre domande retoriche con cui ci balocchiamo noi dei giornali).

Se questo fosse un giallo comico, dunque, sarebbe tutto perfettamente congruo. Anche che della Vitti non si sappia talmente niente che qualunque squarcio sembra l’illuminazione che aspettavamo. Giorni fa Maurizio Costanzo ha raccontato che fu la Vitti, sentendo Maria De Filippi parlare in un’altra stanza, a raccomandargliela: «Senti che voce profonda, pare la mia. Dev’essere una donna intelligente».

Monica Vitti rolling stone italia digital cover

Foto: Susan Wood/Getty Images. Direzione artistica: LeftLoft Studio

È stato allora che ho deciso di telefonare a Furio Colombo, l’unico nella lista d’intervistabili per quel documentario con il quale non avessi mai parlato. Colombo che era amico di Michelangelo Antonioni e quindi li frequentò come coppia, organizzò proiezioni dei loro film a New York, «eravamo giovani e viaggiavamo e ci vedevamo moltissimo e non passava una sera che non fosse trascorsa insieme». Furio Colombo che, sia benedetto, parla già con la metrica da virgolettato dei giornali. «Era bellissima, spiritosissima, intelligentissima, drammatica, con un grandissimo senso dello spettacolo ma anche della vita».

C’è quella vecchia Bustina di Minerva in cui un giornalista chiama Umberto Eco per chiedergli un commento alla morte della Garbo, lui dice che era una grande diva e una grande attrice, e quello chiede «Non avrebbe qualcosa di più originale?». Non gliela cito, a Colombo, anche se mi viene in mente. Gli chiedo invece di rievocarmi qualche serata, lui obietta che è passato troppo tempo, «mi sembrerebbe una ricostruzione letteraria, e se non l’ho fatta per un libro mio». In quel momento lo capisco come raramente m’è parso di capire un essere umano: della Vitti non si sa niente, uno che sa qualcosa mica la regala a me.

Insisto debolmente, si dice che cantassero, cosa cantavano, almeno un titolo. Solo me ne vo per la città, dice, ma era quella che cantava lui: a Monica piaceva molto. «Cantavamo moltissimo in quel periodo, l’altro partner era Umberto Eco», aggiunge con la sprezzatura con cui io cito mia cugina. Ed è allora che capisco che non serve fargli la citazione della Garbo, perché lui quella Bustina di Minerva magari non l’ha letta ma la sa: come si fa a dire qualcosa di originale di una che tutti conosciamo ma di cui non si sa niente?

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