Non so voi, ma ultimamente – diciamo dall’annus horribilis 2020 – io vivo il passaggio di anno con un tantino di strizza. Della serie: abbiamo avuto la pandemia, poi la guerra, dopodiché il surriscaldamento del pianeta… e adesso? Cosa accadrà ancora? La domanda non è peregrina, visto che le opzioni rimaste sono: sbarco dei marziani, ribellione delle macchine (mai visto Terminator?) e la venuta dell’Anticristo. Tutti scenari a loro modo plausibili, se ci riflettete bene. Ecco perché sapere che il 1° gennaio, nelle sale, arriva Fabio De Luigi è una boccata d’aria fresca. L’attore ci regala infatti Tre di troppo: una commedia vivace, leggera ma non banale, che esce per l’appunto il primo giorno dell’anno (distribuita da Warner Bros.) e che promette una cosa rarissima, ossia farci ridere. Tra l’altro non dura nemmeno troppo (nessun sequestro di persona alla Avatar 2, per capirci): un’oretta e mezza abbondante, che scivola via veloce veloce, durante la quale dimentichiamo guai, bollette e ansie apocalittiche per immergerci nelle avventure di Marco e Giulia. I due, interpretati dallo stesso De Luigi e Virginia Raffaele, sono una coppia che ha deciso di non avere figli. Sì, esatto: l’hanno stabilito così, a tavolino, perché vedendo l’esperienza dei loro amici si sono chiesti “Chi ce lo fa fare?”. Il film, che peraltro segna anche il ritorno di De Luigi dietro la macchina da presa, riesce a essere cinicamente vero nel ritrarre pregi, difetti e idiosincrasie dell’essere genitori, passando in rassegna tutta la casistica: dai “genitori coraggio”, che si sentono una specie più evoluta dei single, alle “mamme elicottero”, protettive fino al patologico.
Fabio, io però inizierei dal grande spoiler di questo film…
Attenzione!
Cioè: tu hai un lato gnocco.
(Sguardo allibito)
No, dico davvero: in versione uomo senza figli sei tirato a lustro, balli la salsa, corri, hai un fisico atletico… scusami, ma questa carta da sex symbol perché non te la sei giocata prima?
A parte che io ho costruito la mia intera carriera sull’avvenenza, quindi pensavo che il mio fascino fosse ormai scontato… Tra l’altro nasco biondo e, come tutti i biondi, non sono solo bello ma anche intelligente. Va detto.
Volevi quindi uscire dalla prigione del sex symbol?
Esatto. Nel film ho voluto solo un attimo strizzare l’occhio al mio passato da fotomodello, per poi procedere con il resto e far vedere che ho anche altre qualità.
Tre di troppo è il tuo secondo film da regista. Il primo è stato Tiramisù e risale al 2015. Perché hai aspettato così a lungo per tornare dietro la macchina da presa?
È che mi dovevo riprendere… Già fare un film rivestendo il doppio ruolo di attore e regista è impegnativo, in più non avevo vissuto serenamente la prima regia. Diciamo che Tiramisù è stata una pellicola travagliata, sotto diversi punti di vista, tanto che quando la finii pensai di non girarne mai più altre.
Invece sei tornato sul “luogo del delitto”: perché?
Volevo provare a capire se sarei riuscito a fare un pochino meglio. È un po’ come quando cadi da cavallo: bisogna risalire. Di solito lo si fa subito, io ci ho impiegato un po’… Quando però mi è arrivato il copione giusto, ho detto: facciamolo.
Scusami, ma il copione non l’hai mica scritto tu?
In realtà il soggetto è di Michele Abatantuono e Lara Prando, che sono due sceneggiatori che non conoscevo: mi sono stati proposti da Alfred Film e Colorado. La loro idea mi piaceva molto, così abbiamo lavorato insieme alla sceneggiatura per renderla un po’ più “mia”.
A questo giro te la sei goduta di più?
Sì, decisamente. Sono anche molto più soddisfatto del risultato finale. Come accade sempre nella vita, tutte le esperienze, anche quelle non molto positive, aiutano a capire gli errori che non bisogna ripetere.
E tu quali hai cercato di evitare?
Tutte le prime volte si portano dietro delle ingenuità. Per esempio su alcune cose, con Tiramisù, mi ero fidato, mentre stavolta ho cercato di seguire più il mio gusto, cercando persone che ritenevo potessero darmi una mano. Ho curato la preparazione del film al meglio, “storyboardando” tutta la storia – lo so, è un termine orribile… – per evitare di ritrovarmi poi con difficoltà impreviste, anche se quelle un po’ ci sono sempre. Ho lavorato a stretto contatto con tutti i reparti, dedicando molto tempo alla fase di preparazione perché l’aspetto tecnico è quello che mi preoccupava di più.
Il film è dedicato ai tuoi genitori. Perché?
Lo so che suona retorico, ma è una cosa che mi sono sentito di fare perché sono entrambi morti da poco. Ho detto: “Metto giusto una frase alla fine del film, in piccolo, così non la vede nessuno”. Invece tutti mi stanno chiedendo le ragioni di questa dedica. Semplicemente, ero in macchina e stavo riflettendo sul fatto che il film non mi era uscito troppo male. Con me in auto c’era mio figlio, e allora gli ho chiesto: “Secondo te dovrei dedicare il film ai nonni?”. Mi ha detto “Sì”, e allora l’ho fatto.
Tre di troppo parla del tormentato rapporto tra padri e figli. Tu che bambino eri?
Molto attivo.
È un eufemismo?
Diciamo che ero vivace ma silente: le mie scorribande erano “sotterranee”. Facevo moltissima attività fisica: ero abbastanza irrefrenabile. A scuola portavo a casa la pelle: mi piaceva disegnare e studiare italiano. Lì andavo bene. Sul resto, appunto, mi barcamenavo.
A Che tempo che fa hai raccontato dello “scherzone” che da piccolo hai fatto ai tuoi, fingendoti morto nella vasca da bagno.
Ma sai che, ancora adesso, non so come Fabio Fazio lo sia venuto a sapere? Non credevo di averlo mai raccontato a qualcuno… Quando me l’ha chiesto in diretta, mi ha spiazzato. Comunque sì, è tutto vero: feci questo scherzo, che a me sembrava ingenuo, mentre mia madre si spaventò tantissimo. Io pensavo “Chissà quante risate farà quando vedrà che non sono morto!”, invece mamma mi ha tirato una sberla. Ti ricordi che c’era un film, Harold e Maude, che raccontava la storia d’amore tra un ragazzino inglese molto eccentrico e un’anziana signora? Ecco, la storia inizia con il ragazzo che fingeva il suo suicidio.
Stai dicendo che avevi avuto l’idea guardando quel film?
No, cercavo solo un modo per elevare questo gesto stupido…
Sai però qual è il punto?
Dimmi.
Tu ora sei genitore ed esiste quella cosa chiamata karma…
Effettivamente un po’ mi rivedo in mia figlia. Pure lei è silente: ha 12 anni e come me non è una tipa che salta all’occhio, nel senso che non è che la guardi e dici “questa non la teniamo ferma”. Però ha preso la via delle scorribande sotterranee.
Essendo anche tu genitore, mi piaceva l’idea di passare in rassegna alcune tesi sostenute dal film. Partiamo dalla prima: la storia si apre dicendo che il senso di colpa dei genitori è alla base del commercio. Qual è stato il tuo contributo “economico” al mondo?
Be’, mi ricordo ancora come fosse ieri l’acquisto della prima bilancia per pesare i bambini. Quando hai il primo figlio ti allarmi infatti su tutto, non sai come gestire quel corpicino molle. A un certo punto bisognava pesarlo. Quindi vai in farmacia e il farmacista ti dice: “C’è questa bilancia qui, meccanica, che be’…” (allarga le braccia) “e poi c’è questa bellissima bilancia digitale”. E tu che fai? Compri ovviamente la seconda, più cara.
Altra scena: la pediatra ricorda al protagonista che con la propria moglie bisogna “tranquillizzare sempre, minimizzare mai”. È anche un tuo mantra?
Certo. L’ho imparato sulla mia pelle.
Tre di troppo si fa ampiamente beffe delle ansie da genitore: di nuovo, ti ci rivedi?
Ho accettato di girare questo film perché era anche l’occasione per fare un po’ di sana critica sociale sulla genitorialità e su come noi “evoluti” interpretiamo questo ruolo difficilissimo. Essere genitori è complesso perché è un equilibrio sottile e precario tra dimostrare amore e dare dei limiti. Ognuno di noi sbanda, inevitabilmente, da un lato o dall’altro. La cosa poi da cui sono scappato a gambe levate – e spero di esserci riuscito – era fare il film-manifesto di quanto sia bello e idilliaco avere una famiglia. Volevo restituire uno spaccato più veritiero.
Negli ultimi anni si fanno sempre meno figli: nel 2021, dati Istat, sono nati solo 400mila bambini. Colpa tutta, e solo, della crisi economica?
Paesi decisamente meno forti del nostro hanno una natalità più alta. Quindi così, a occhio, mi viene da pensare che il motivo non sia la crisi economica. O almeno non solo. Fare i figli comunque è una libera scelta: chi non li vuole non è necessariamente egoista. Nel mondo siamo otto miliardi di persone, non è che c’è tutto questo bisogno di riprodursi…
I bonus per i figli e per il matrimonio possono fare la differenza?
Preferirei degli interventi strutturali, come per esempio creare più asili nido o realtà che aiutino socialmente le famiglie. Peraltro credo che siano progetti contenuti nel nuovo Pnrr. Il bonus è invece qualcosa di estemporaneo: “Ho vinto un bonus”. Sì, però non basta.
Senti, il film esce il 1à gennaio insieme ad altri 3450 film. Com’è possibile che non si riesca mai ad avere una distribuzione più omogenea, spalmata sull’arco di tutti e dodici i mesi dell’anno?
Potrei risponderti nel merito se fossi un distributore, ma ci provo lo stesso. Partiamo dal presupposto che, come avrai notato, la sala non sta attraversando uno dei suoi momenti più felici: era già difficile fare uscire la gente di casa prima del Covid, figurati adesso. Natale è però quel periodo dell’anno dove la gente è a casa e non è estate.
Praticamente la perfetta congiunzione astrale?
C’è però un lavoro da fare, si tratta di riappropriarsi del gusto di andare al cinema, che vuol dire uscire e stare insieme, non solo vedere il film. Questa cosa è venuta meno negli ultimi anni, ma spero che i film di Natale, tra cui il mio, riattivino questa sana abitudine.
Per molti la causa di tutti i mali sono gli streamer, per altri la bassa qualità dei film. A quale partito ti iscrivi?
Da tempo gli incassi scendevano di anno in anno, e vale sia per quelli italiani che stranieri. La mia impressione è che la sala sia diventata il luogo dove si va a vedere l’evento. Ne parlo con cognizione di causa visto che ho dei figli giovani: la differenza tra andare o non andare al cinema la fa l’eventizzazione, altro termine orribile, lo so. Però per generare questo tipo di attesa servono budget che noi non abbiamo. Detto questo, ci sono però fenomeni come La stranezza o il documentario Ennio che riescono ad attrarre pubblico.
Quindi la ricetta per uscire dal tunnel qual è?
Non c’è. Se ce l’avessi, mi avrebbero già fatto amministratore delegato di qualche società. Io mi limito a portare a casa la pelle come regista.
Una volta il film delle feste era il cinepanettone. Che era una rara boiata, possiamo finalmente dirlo?
(Segue esclamazione non riferibile ma traducibile in: “Gentile signora, lei ha ragione da vendere”)
Possiamo quindi parlare di evoluzione della specie, almeno per quanto riguarda i film delle Feste?
I cinepanettoni erano più che altro un grande rito collettivo, come il Festival di Sanremo: dici che non ti piace ma poi lo guardi. Quei film erano una sorta di tradizione popolare che prescindeva dalla qualità del film, e quella cosa lì è finita anche perché è scomparso quel modo di lanciare i film. Una volta un titolo usciva a metà dicembre e quello seguente era programmato il 7 gennaio. Oggi invece ogni giorno escono due/tre film importanti e, frammentando così tanto l’offerta, sono venuti meno i requisiti per quel rito collettivo.
I cinepanettoni erano anche molto grevi e non mancava mai il nudo femminile. In Tre di troppo invece si lascia tutto all’immaginazione: una scelta di campo?
Sì, anche se non voglio fare paragoni: già mi vedo il vostro titolista…
Ma no, dai!
Diciamo che non c’era bisogno di scene di nudo nel mio film, e forse non ce n’è mai bisogno nelle commedie. Indugiare su certe cose lo trovo sempre imbarazzante: non ho bisogno di vedere, nel dettaglio, due che vanno a letto per sapere che vanno a letto. Non voglio passare per un bacchettone, perché non lo sono: io stesso, con Salvatores, ho girato una scena di nudo, ma non era una commedia. Era un altro tipo di sguardo.
Veniamo a te. Mediaset accarezza l’idea di riportare in tv Mai dire gol. Nel caso, caro il mio Fabio, saresti della partita?
Per me sì, figurati! Sono uno di quelli che ci andrebbero molto volentieri. Poi bisogna capire come, quando…
Qualora fosse fattibile, possiamo contare sul ritorno dell’Ingegner Cane, visto che qui c’è un ponte sullo Stretto da costruire?
Be’, sì! Però se parli con l’Ingegner Cane, lui ti dirà che il ponte è già partito da un pezzo: il primo mattone è stato gettato nel 2003. Ed è lì. Quindi non si dica che i lavori non sono partiti. Il mattone c’è, è lì da un po’, mancano solo gli altri. No, perché poi sembra che non sia stato fatto nulla. Le cose invece vanno fatte bene!
Essendo tu un esperto in materia…
Certo.
… dici che lo finiscono davvero questo ponte?
Ma il ponte è pronto: abbiamo in mente tutto, anche l’inaugurazione. Mancano solo i dettagli, tipo i piloni e la strada che passa da qui a lì. Il resto è tutto fatto.
A proposito di Mai dire gol, a Che tempo che fa la Gialappa’s ha raccontato di quella singolare abitudine di Claudio Bisio…
Ti è rimasta impressa? (ride)
Eh, direi di sì. Hanno detto che lui mostrava i suoi gioielli a ogni riunione. Ma scusami, con che pretesto si calava i pantaloni?
No, ti prego non ne parliamo! (ride)
Per quante notti hai avuto gli incubi?
Cerco di rimuovere… (ride)
Torniamo a te. Ci sarà un tuo terzo film da regista?
Sì, e stavolta non tra sette anni. Ho già un’idea e non ci saranno bambini nella storia.
Bisserai anche con le serie tv?
Se arriva una bella idea, la faccio a prescindere che sia un film o una serie tv. Per ora mi sono arrivate alcune proposte, le ho rifiutate perché non mi convincevano.
Dopo Dinner Club, farai altre incursioni anche nel mondo dell’intrattenimento leggero?
C’è un’idea. Vaga. Lo so, scusami, ma non posso dirti di più.
Ormai non c’è comico che non smanii per fare LOL – Chi ride è fuori: anche tu ti cimenteresti volentieri?
No: come concorrente durerei 30 secondi. Sono imbarazzante: su alcune cose, crollo. Anche sui set! Se poi sono un po’ in tensione, è finita: mi viene subito da ridere. Per dire, avessi visto Elio ballare il tip tap, sarei stato espulso al primo passo. In passato mi chiesero in realtà di fare il giudice, ma stiamo parlando di una fase embrionale, ossia di quando si stava ancora pensando a una prima stagione. Mi contattarono ma rifiutai.
Potremmo invece mai vederti a Sanremo?
No, mai. Quel palco mi terrorizza. Hai presente la famosa lista delle paure secondo la quale le più grandi fonti d’ansia per gli uomini sono la morte al primo posto e il trasloco al secondo? Ecco, per me Sanremo viene persino prima della morte. Anni fa mi chiesero di partecipare, nei panni di Olmo, alla serata dei duetti. Ci pensai e poi, da vero cuor di leone, decisi di guardare Sanremo da casa: ecco, la vista dal divano è la visuale che preferisco. All’Ariston sono andati mostri sacri come Roberto Benigni, Beppe Grillo, Zalone… il paragone sarebbe troppo impegnativo.