Da qui ai prossimi 4570 anni, saremo inondati di omaggi, documentari e biopic dedicati a Gigi Proietti. Garantito. L’Italia ama infatti santificare i propri maestri, da ora e per sempre: figuriamoci se hanno un talento straordinario come Proietti. Tuttavia, proprio per questo vale la pena dare una chance al documentario Luigi Proietti detto Gigi, prodotto da IIF, Alea Film e RaiCinema con la collaborazione di Lexus. Il film, presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma, è tutto fuorché una pia celebrazione di Proietti. «Non volevo cadere nel complesso dell’adulazione», conferma Edoardo Leo, che qui figura nel doppio ruolo di regista e co-produttore. «In questo mi ha aiutato la distanza che c’era tra me e Proietti: abbiamo fatto qualche lavoro insieme a teatro, ma non eravamo amici né io ho mai frequentato il suo laboratorio». La stessa genesi del documentario lo dimostra: all’inizio doveva essere un film sullo spettacolo A me gli occhi please e di come la pièce avesse rivoluzionato negli anni ’70 il modo di fare teatro.
Poi, in seguito alla morte di Proietti, il tiro è cambiato in corsa: in due ore scarse, Luigi Proietti detto Gigi ripercorre l’intera carriera dell’attore e ciascuna tappa è puntellata dai commenti di amici, parenti e colleghi. Si va dalla sorella a Fiorello, passando per Renzo Arbore e gli amici che componevano la band di Gigi. Il senso è: capire quale sia il segreto che sta dietro al successo di Proietti. Tra l’altro c’è anche lui, Gigi, e regala delle vere perle come quando sul finale dichiara: “Se c’è una cosa che avrei voluto mostrare di più è l’etica di questo mestiere: questo mestiere è molto morale”. Una riflessione che suona particolarmente attuale, in quest’epoca pandemica dove teatri e cinema si sono dovuti battere per difendere la propria importanza sociale e culturale.
«Quando stai sul palco hai una grande responsabilità», concorda Edoardo Leo, «gli spettacoli regalano risate ma, quando sono fatti bene, lasciano anche dei messaggi. L’attore per certi versi è come un officiante che dice messa». Tra l’altro Proietti si è speso personalmente per la cultura: «Non si è limitato a parlarne ma l’ha costruita, materialment». Il riferimento è ai teatri di sua proprietà: dopo il Brancaccio, che purtroppo gli fu tolto, ha fondato il Globe destinando la struttura non ai suoi spettacoli ma a quelli di Shakespeare. Proietti metteva infatti il pubblico davanti al proprio ego.
«Il suo rapporto con il pubblico è quello che più mi è rimasto in mente», continua Leo, «Gigi mi ha dato anche delle lezioni su come ringraziare gli spettatori: alcuni attori, a fine spettacolo, accolgono gli applausi a braccia aperte. Proietti invece si inchinava perché era lui a ringraziare il pubblico per il suo affetto e il suo gradimento. Proietti era una rockstar intima: amatissimo dal pubblico, ma mai pieno di sé». Nel documentario, per esempio, la sorella racconta di come Proietti non si sentisse mai “quello bravo”. Se aveva vicino un collega famoso, aspirava a emularlo. Per non parlare di quando chiese a sua madre: “Ti è piaciuto lo spettacolo?”. E lei: “Abbastanza”. Pare che non gli sia mai andato giù…
A sua volta anche Leo ha voluto mantenere questo basso profilo: la struttura classica, essenziale, del documentario nasce proprio dalla volontà di non mettere in mostra se stesso ma Proietti. Per esempio, non si specifica mai in quali rapporti fossero i due attori, e Leo è solo una voce fuori campo: «Con Proietti condivido un grande senso di riservatezza», conferma, «qui in modo particolare non volevo mettermi in scena. Il materiale poi era già ricchissimo di per sé: non serviva aggiungere nient’altro». Solo nel finale si vede Leo mentre, in macchina, segue un autobus con una gigantografia di Proietti stampata sopra. «È successo per davvero», svela, «pochi giorni dopo la morte di Gigi, mi sono ritrovato davanti questo autobus e mi sono messo a seguirlo, filmandolo. Non sapevo nemmeno bene io perché. Con il senno del poi me lo spiego con un desiderio, inconscio, di non lasciare andare Gigi: con lui perdiamo l’ultimo vero grande maestro».
Il documentario segna anche l’entrata di Lexus nel mondo della produzione audiovisiva: «Finora non avevo mai fatto spot o campagne pubblicitarie: ho accettato la collaborazione con Lexus perché loro sostengono concretamente il cinema». Il riferimento non è solo alla co-produzione di Luigi Proietti detto Gigi, ma anche all’iniziativa Poltrone rosse, nata per aiutare e tutelare le maestranze e in particolar modo le attrici in maternità. Anche per questo il film è davvero un bellissimo omaggio: non solo a Proietti, ma a tutto il mondo dell’arte.