Luca Manfredi, figlio di Nino e regista della prossima fiction di Rai 1 su Alberto Sordi che ha per protagonista Edoardo Pesce, dice di ricordare la sera che il comico pronunciò per la prima volta una delle sue battute più celebri. A cena, Manfredi e Scola chiedono all’amico avviato ai quaranta perché si ostini a non sposarsi. E lui: «Che mi vado a mettere un’estranea in casa?». Laurea honoris causa in albertosordilogia. Perché Luca, bambino, c’era.
In Permette? Alberto Sordi (in onda il 21 aprile e al cinema il 24, 25, 26 febbraio) il primo grande mistero, quello della sessualità dell’attore romano nato giusto cent’anni fa, è risolto con un misto di psicologia popolare e gusto della battuta. Sordi è mammone. Scambia il permesso (e la complicità) di sua madre a restare bambino a vita con una perfida crudeltà nei confronti di tutte le altre donne. Prima scappa dalla fidanzatina innamoratissima Iole, la figlia dell’oste che chiede di sposarlo. Poi diventa per anni il toyboy (parola del regista) di Andreina Pagnani (interpretata sullo schermo da Pia Lanciotti), un’attrice che ha quindici anni più di lui ma è perfetta per introdurlo nel mondo dello spettacolo.
Nessun’altra perversione, tutto limpido. Ma perché no? Siamo su Rai 1, e la fiction di Rai 1 è un genere a parte. Luci, décor, le stesse quattro strade del centro di Roma illuminate dal sole per gli esterni, le stesse quattro macchine d’epoca parcheggiate accanto al marciapiede. La storia raccontata come un fotoromanzo. Fellini, primo grande amico e alleato di Sordi, è uno che “preferisce i sogni alla realtà”. De Sica e il neorealismo? Bello sì, ma troppo triste: bisognerebbe – dice Sordi/Edoardo Pesce passeggiando per via Giulia o via della Scala – divertire gli spettatori anche quando li stai criticando. Si incrocia anche Aldo Fabrizi, che “recita con gli occhi”: il compito impossibile di portarlo sullo schermo senza danni è affidato a Lillo Petrolo. Fellini è Alberto Paradossi, già visto in Hammamet come Bobo Craxi, oltremodo entusiasta col cappello e la sciarpa delle prime foto del Maestro, e di esagerato accento romagnolo (però è di Lucca).
Non sto dicendo che questo Sordi sia un disastro, il contrario. Bisogna solo avere un poco di pazienza e lasciare che il meccanismo (diabolico) della fiction di Rai 1 ti conquisti. Edoardo Pesce non sarà Joaquin Phoenix quando faceva Johnny Cash (per dire), ma è uno dei nostri attori migliori, capace di non risparmiarsi (visto in Dogman tipo bestione e in Fortunata versione periferica ultracoatta). Oppure, come in questo Sordi, di lavorare con intelligenza e delicatezza, senza strafare mai, ai fianchi di un personaggio che pensiamo di conoscere benissimo, ma di cui in realtà conosciamo soltanto gli esagerati cialtroni italiani che ritrae nei suoi film.
Ed ecco il secondo mistero sordiano. Esiste un Sordi fuori dallo schermo? Come si sa, siccome non lo vuole nessuno, Sordi comincia dalle voci (la grande invenzione del doppiaggio di Oliver Hardy), cosa che radicalizza ancor di più il suo desiderio di riuscire. Essere famoso, avremmo detto oggi. Ma l’attore rompicoglioni trasteverino e col faccione inadatto a tutto che dallo schermo deborda – e canta, balla, recita – è già il Santi Bailor dell’Americano a Roma. Stalkerizza De Sica, blandisce Fabrizi facendone le imitazioni a teatro (e Fabrizi gli presenta Andreina Pagnani, di cui abbiamo detto): insomma, è un archetipo dell’attore romano pronto a tutto, oltre che un’efficace sintesi della biografia sordiana.
Quanto all’italiano “paziente zero” dell’italianità, diciamo così, vale la scena in cui, allo scoppio della guerra, il padre cede al figlio il suo posto nella banda dell’esercito che accompagna le partenze dei coetanei per il fronte, rimanendo tranquillo a casa a Roma a magnà la pasta de mamma. Storia vera: Sordi non sa suonare niente, e allora suona i piatti come in una comica di Buster Keaton. Bambino in casa, con le ragazze, con l’Italia e il mondo intero. Ma pure comico da riscoprire nella breve carriera del varietà, con le sue macchiette minimaliste (e mezze futuriste): il bue, il toro, Nonnetta (canzoncina crudelissima). Non a caso, Sordi diventerà il primo corpo-feticcio del giovane Fellini, che gli fa fare Lo sceicco bianco e I vitelloni: due personaggi spietati verso se stessi e il prossimo.
Gli anni 1953 e ’54 sono quelli della popolarità e della scommessa vinta con la buonanima di sua mamma maestra. Se ne ricostruisce la morte, ricordando che l’attore rimase un giorno intero chiuso nella stanza con lei, mentre tutti fuori aspettavano il funerale. Edoardo Pesce usa qui i toni della disperazione che avevamo già visto nei film (soprattutto nel Vedovo, quando dicono a Sordi che Franca Valeri è morta in un treno deragliato). Il suo dramma è anche il dramma dell’incapacità di uscire dallo schermo, dal proprio gioco di bambino.
Si sale di tono quando Permette? Alberto Sordi arriva al gran finale. Pesce, co-sceneggiatore con Manfredi e Dido Castelli, ritaglia per sé la civetteria di ricostruire la scena della marana («America’, facce Tarzan!»), ributtandosi veramente nella marana: il segnale del successo di fronte all’intera sala in visibilio. E fa attendere Sordi fuori dalle tende rosse di una sala assieme a Fellini la reazione alla pernacchia dei Vitelloni («Lavoratori!», seguita dal gesto dell’ombrello), sommo sgarbo al realismo socialista da cui la commedia all’italiana può prendere il volo.