Thelonious “Monk” Ellison ha raggiunto il suo punto di rottura. Gli studenti del suo corso di letteratura nella prestigiosa università in cui insegna sono ragazzi ipersensibili (o, come si dice oggi, triggerabili). I suoi superiori pensano che abbia bisogno di una pausa dal mondo accademico. I romanzi di Monk sono ancora in libreria, ma non si direbbe: sono stati tutti relegati nell’ultimo scaffale della sezione “Studi afroamericani”, semplicemente perché è un autore nero (“La cosa più nera di questi libri è l’inchiostro!”, urla). Una malattia improvvisa manda in tilt la sua famiglia già disfunzionale. Il suo editore non riesce a vendere il suo ultimo libro, perché nessuno vuole acquistare il lavoro intellettualmente rigoroso che lui propone. Ciò che va di moda in questo momento, gli dice, sono libri come We’s Lives in Da Ghetto, un racconto senza filtri sulla vita di quartiere pieno di stereotipi scritto dalla scrittrice-rivelazione Sintara Golden, che fa appello all’idea che i lettori bianchi hanno della vita dei neri, ovvero: pura pornografia della povertà. Il suo consiglio a Monk: scrivere qualcosa di “più nero”.
Forse è il profilo elogiativo di Golden sull’Atlantic, o l’assalto dei mass media che presentano una visione unidimensionale dell’esperienza dei neri, o la combinazione tossica di dolore e frustrazione, coagulata in disprezzo, che riempie le giornate di Monk; o forse si tratta solo di un bourbon di troppo una sera. Fatto sta che, in un impeto di rabbia, Monk decide di raccogliere la sfida. Mette le dita sulla tastiera e inizia a scrivere la parodia più offensiva di una storia di paura e odio nel ghetto che riesce a immaginare. Monk assume lo pseudonimo di Stagg R. Leigh e intitola quest’opera My Pathology. No, anzi: My Pafology (come da slang nero, ndt). Ecco fatto. Questo titolo gliela farà vedere di sicuro.
Il suo editore è sotto shock: che diavolo sta facendo Monk? “Ci sono padri nullafacenti, rapper, crack e alla fine [qualcuno] viene ucciso da un poliziotto”, risponde Monk. “È abbastanza ‘nero’, giusto?”. Lo scrittore lo sfida a spedire il manoscritto. E all’improvviso il nostro eroe si ritrova nel bel mezzo di un’asta per i diritti, mentre riceve offerte cinematografiche a sette cifre. Il libro non è solo un successo. È l’evento letterario dell’anno.
Se lo sceneggiatore e regista Cord Jefferson si fosse semplicemente attenuto al romanzo Cancellazione di Percival Everett, uscito nel 2001, ci avrebbe comunque regalato una satira tagliente e pungente come quella di Bamboozled di Spike Lee o dello Schiavista di Paul Beatty. Tuttavia quello che fa con il suo esordio alla regia, American Fiction (disponibile da noi su Prime Video, ndt), va ben oltre il semplice adattamento. Jefferson ha reso giustizia al materiale di partenza. Ma ci ha anche regalato una commedia furiosa ma divertente, empatica ma che non teme di essere cattiva, ed emotivamente profonda anche se disegna un gigantesco bersaglio sulla schiena di un’industria stupida, bacchettona e ossessionata dai profitti (sostituite “editoria” con “Hollywood” e le frecciate saranno ancora pungenti). Per non parlare del fatto che ha creato una vera e propria vetrina per uno dei più grandi attori in attività oggi, fondendo i suoi commenti swiftiani con uno sguardo tenero sulle dinamiche familiari, e infilando la sua personalissima voce in tutto il film. Se questo è il suo primo film, si può solo immaginare cosa ci darà in futuro.
Jefferson non è nuovo al mondo dello spettacolo: ex giornalista diventato MVP (most valuable player, ndt) di tante writers’ room televisive, ha lavorato a tutto, da Succession a Watchmen, vincendo un Emmy per aver scritto l’innovativo episodio Questo essere straordinario di quest’ultimo. È quindi molto probabile che comprenda la morte lenta e dolorosa che un autore nero come Monk, interpretato con un perfetto mix di condiscendenza e compassione da Jeffrey Wright, potrebbe subire cercando di mantenere uno standard di eccellenza in un’arena che ormai premia solo la ruffianeria. E si può immaginare che il regista annuisca mentre Monk scuote la testa di fronte all’infinito riciclo del trauma che semplifica – o peggio, codifica riduttivamente – un’esperienza umana ricca, relegandola nelle solite misere narrazioni. “La rappresentazione è importante” non è una facile banalità adatta solo agli adesivi per paraurti e ai like sui social media. È una verità conseguente.
Con American Fiction, Jefferson si propone di prendere a male parole l’establishment, palesemente incuriosito e prevalentemente bianco, per aver trattato l’esperienza dei neri come un’infinita fonte di tragedie e poco altro (il modo in cui i dirigenti delle case editrici, i tirapiedi del marketing e gli autori letterari di oggi si accalcano per elogiare il romanzo – ora reintitolato Fuck – è esilarante, e probabilmente sembra un po’ esagerato; ma il loro comportamento è blando rispetto alla realtà). E offre quella che è quasi una contro-narrazione: la fusione tra satira a sfondo razziale e dramma familiare è già nel libro di Everett, ma una cosa è mescolare queste due cose sulla pagina e un’altra sullo schermo; se qualcuno vi dicesse: “Metto insieme Putney Swope (film satirico del 1969 diretto da Robert Downey Sr., ndt) con Voglia di tenerezza“, la vostra risposta sarebbero due occhi sgranati, con tanto di mascella abbassata.
Tuttavia, lo sceneggiatore e regista ha trovato il modo di far funzionare entrambi gli elementi in maniera perfetta, senza alcuno sbalzo tonale, e il risultato fa sì che American Fiction risulti in qualche modo sia sopra le righe che con i piedi per terra. Entrambe le parti finiscono per contaminarsi a vicenda: l’incredulità di Monk nel sentire Sintara (Issa Rae, bravissima) leggere un ridicolo passaggio del suo libro a un pubblico adorante si trova accanto alle battute di Monk in macchina con sua sorella Lisa (Tracee Ellis Ross); le scene in cui l’agente di Monk (John Ortiz) lo spinge a rendere il suo alter ego sempre più “di strada” durante la negoziazione degli accordi convivono con una lunga conversazione tra l’autore e il fratello Clifford (un meraviglioso Sterling K. Brown), che per anni ha covato amarezza per il loro rapporto sbilanciato. Anche le scene più sentite e pesanti dal punto di vista emotivo con la madre di Monk (Leslie Uggams), che soffre di Alzheimer, e la sua nuova fidanzata Coraline (Erika Alexander) sembrano non essere minate dall’incontro di “Stagg” con un produttore cinematografico (Adam Brody) che si vanta del suo prossimo film sulla vendetta degli schiavi intitolato Plantation Annihilation.
Aiuta il fatto che American Fiction abbia, al suo centro, un attore che dà a Monk un’intelligenza acuta, un’arguzia tagliente come un rasoio e un aspetto spigoloso, oltre a mostrarci il lato romantico da sempre sepolto sotto la sua parte più cinica. Dichiarare che Jeffrey Wright è un monumento nazionale non è una novità: chiunque abbia visto i suoi lavori teatrali, l’abbia visto sfruttare al meglio i più piccoli ruoli secondari o dare vita a grandi artisti (Basquiat), operatori sanitari (Angels in America), icone dei diritti civili (Rustin, in cui interpreta Adam Clayton Powell), androidi paranoici (Westworld) e altro ancora può testimoniarlo.
Ma quando si osserva Wright mentre delinea i contorni e poi aggiunge diverse decine di note puntualissime al misantropo Monk, senza giudicare quest’uomo pazzoide né lasciar correre il suo comportamento snob, si capisce davvero perché pochi interpreti possono eguagliarlo. Anche il modo in cui mostra silenziosamente la sua incredulità attraverso un semplice sguardo, la bocca leggermente aperta e un sussulto della testa mentre legge le lodi al libro di Golden ti fa sentire come se stessi guardando un musicista che esegue una rapida esecuzione di 12 battute. Non c’è una nota stonata nella sua performance.
Tutto ciò che Jefferson e il suo cast hanno accuratamente messo a punto giunge infine al culmine in quella che è probabilmente la scena migliore di American Fiction, in cui Monk cerca di attaccare in modo passivo-aggressivo Sintara per il modo in cui ritiene che stia svendendo la cultura. Il botta e risposta tra Wright e Rae è così calibrato e allo stesso tempo così colloquiale, anche quando le spinte e le parate verbali si scaldano, riducendo in polvere ogni dogma pro e contro. Non è uno spoiler dire che si conclude con un pareggio: Jefferson non pretende di avere le risposte, né vuole emettere verdetti di colpevolezza o non colpevolezza; ma vuole parlare di questi sentimenti contrastanti che i suoi personaggi rappresentano – per lui e per noi – e vedere cosa si può ottenere guardando in faccia questi problemi.
E proprio quando si pensa che il film stia per spegnersi su una nota ambivalente, American Fiction ci regala una serie di finali che uniscono il satirico e il drammatico, il comico e l’esplosivo. Poi aggiunge una coda che fa capire che il film è stato in realtà, nel suo nucleo, uno studio sui personaggi. Monk non è “fissato”, ma non è nemmeno la stessa persona che abbiamo conosciuto due ore prima. Ed è merito del film aver considerato una vittoria di pochi centimetri come una vera vittoria.