Perché le nostre foto ormai le teniamo solo dentro i telefoni e non le stampiamo più, diciamo sempre, senza pensare che poi, se le cose vanno male, vedere quelle foto attaccate sul frigo fa più male ancora. Comincia così Anatomia di una caduta, il film di Justine Triet Palma d’oro a Cannes e passato alla Festa di Roma prima dell’uscita in sala il 26 ottobre con Teodora Film. Con le foto di una famiglia che ovviamente ride, nelle foto ridiamo sempre. Con mamma papà ragazzino che sembrano aver trovato il loro posto anche geografico, lei tedesca, lui francese, hanno scelto Grenoble, un bello chalet, il cane, cheese, clic.
Però scopriamo presto che, dietro le foto, c’è una donna, la tedesca di professione scrittrice e di discreto successo che così felice d’essere finita in quelle valli non lo è per niente; un uomo, il marito, che ha anche lui velleità di scrittore, e che forse invidia la moglie; un figlio che vede male, sempre meno, forse non mette a fuoco nemmeno quelle foto. E poi, pum, il marito muore. La caduta del titolo, dalla mansarda di casa in mezzo alla neve. È un incidente? Un suicidio? Un omicidio? Parte l’indagine, che è prima di tutto sulla famiglia come microcosmo possibile di tutto il mondo, di tutta l’umanità nello stato di ansia – e frustrazione, proiezione, ambizione – in cui versiamo collettivamente oggi.
È un film di relazioni, Anatomia di una caduta. Comincia con l’intervista fra la scrittrice protagonista e una giornalista; una conversazione che diventa presto seduzione, in cui infilare quei non detti solitamente lasciati da parte nell’esercizio del nostro ruolo pubblico. Finché la musica troppo alta – la mette a tutto volume, forse per gelosia, il marito che sta lavorando al piano di sopra – non interrompe quel gioco.
È un film in cui c’è sempre qualcosa che manca, un senso negato. Non si sente (quella scena con la musica altissima, che svela già molto dei personaggi in scena); non si vede (il figlio, che potrebbe essere testimone chiave – ma appunto forse inaffidabile – dell’incidente); non ci si capisce sempre del tutto (la protagonista, tedesca, comunica un po’ in francese e un po’ inglese: anche per questo vi consiglio di vedere il film in originale).
È un film di relazioni, dicevo. Tra una mamma e un figlio. Tra la sospettata (poi imputata) e il suo avvocato, che forse ha sempre sperato in una relazione diversa con la donna. Tra una moglie e un marito, che per ovvi motivi resta sempre invisibile, come in una foto venuta sfocata. Tra due lingue, due mondi. Tra le nostre aspettative e ciò che ne facciamo. Tra il privato (quello che è successo in quella casa) e il pubblico (il processo che punta – vanamente? – a trovare la verità).
È sempre stato un cinema di relazioni quello di Justine Triet, che però nei casi precedenti (Tutti gli uomini di Victoria e Sybil – Labirinti di donna, entrambi con Virginie Efira) non m’era mai sembrato così a fuoco, semmai debitore un poco inerte di tanto glorioso cinema passato (vedi gli Antonioni/Bergman rimaneggiati malamente nel secondo). Anatomia di una caduta è invece dritto come una lama. È cinema classico che si posiziona tra Carrère (soprattutto l’ultimo, il parimenti processuale V13) e un certo gusto per il dramma televisivo, inteso come genere nobile a cui anche il cinema deve tanto.
E Triet è, qui più che mai, una regista sensibile alle relazioni tra gli attori, e alla sua relazione con loro. Vedere Sandra Hüller, che forse ricorderete in Vi presento Toni Erdmann, è come seguire una masterclass di recitazione (e di dissimulazione), con quel suo volto disturbante, ha qualcosa di Cate Blanchett ma con ancora più spigoli, e una freddezza che resta imprendibile. Si parla di una nomination per lei ai prossimi Oscar, è anche nel bellissimo The Zone of Interest di Jonathan Glazer, è un po’ l’anno suo, globalmente parlando. Regge il film sulle spalle, come si dice, insieme al piccolo Milo Machado Graner, uno di quei ragazzini che ti chiedi: in Italia lo troveremmo mai? Probabilmente no, ma del resto negli ultimi anni non abbiamo nemmeno visto un film così.