“Non farlo”. Una vocina, da qualche parte nella mia testa, continuava a ripetermelo: “Ma ‘ndo vai? Stattene a casa”. Ma io niente: imperterrita continuavo a fare le valigie. D’altronde, sono cresciuta con un atavico terrore per le comfort zone e un superego concepito al millimetro per inchiodarmi al senso di responsabilità. Tutte cose che fanno fare un sacco di soldi alla mia analista. Ma non è questo il punto. Il punto è che, sì, I did it again. Pure quest’anno sono partita alla volta del Festival di Cannes, edizione 75: quella (dicevano) della ripartenza. Ecco come sono andati i primi giorni. Piccolo spoiler: così, a occhio, direi che la vocina aveva ragione da vendere.
Moriremo tutti!
Datemi retta. Cannes non è più un semplice festival dove vieni, ti guardi i film e intervisti qualcuno. Da un paio d’anni, l’ambizione è ben altra: preparare l’umanità intera all’Apocalisse, con tanto di prove generali. Lo ha fatto capire persino Variety in un articolo che può essere serenamente sintetizzato in un: “morirete tutti”. La Bibbia del cinema ha sottolineato la totale assenza di misure anti Covid a Cannes: in un contesto affollato come il Palais, frequentato da gente proveniente da tutto il mondo, non c’è traccia di mascherine, igienizzanti, rilevatori di temperatura. Zero. Morale: “Il Festival si trasformerà inevitabilmente in un nuovo focolaio”, sentenzia Variety. Manca solo l’uomo davanti al Palais con il cartello “convertitevi”. Io, per la verità, stavo anche iniziando a scriverlo quando, alla prima proiezione, mi sono trovata circondata da distinti signori che scatarravano allegramente. Senza mascherine, of course. Ma mica è finita qui: al giorno uno, tutto quello che poteva andare in blackout ci è andato. È saltato il wi-fi in tutto il Palais (“Désolé”, ripeteva lo staff), il sistema di prenotazione dei biglietti è andato completamente in tilt e a crashare è stata persino la stazione dei treni di Cannes. A un certo punto, infatti, da Nizza in avanti, nessun convoglio circolava più. L’unica opzione realistica: farsela a nuoto. Forse non è un caso che, da ieri, io sia sotto Imodium…
Tom, salvaci tu
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Insomma, qui è tosta e noi giornalisti (quelli rimasti, perché i primi colleghi positivi sono già fioccati & fuggiti) non possiamo fare altro che stringerci forte e ripetere: “Quest’anno però a Cannes ci sono gli americani”. Sappiamo che non è vero, ma lo diciamo lo stesso. La verità infatti è che the Americans sono ancora pochi, e quei pochi o non fanno attività stampa (solo red carpet, per la gioia di TikTok che è media partner) oppure valgono solo come presenza markettara. Prendete, per esempio, Julia Roberts: giovedì sera si è materializzata a sorpresa sul tappeto rosso, ma solo in qualità di testimonial Chopard, come un’influencer qualunque. Meno male che mercoledì è arrivato Tom Cruise a fare un po’ di sano casino: il nostro è planato sulla Croisette in jet, per poi tenere una masterclass all’insegna del “ma resto umile”. Nella conferenza il divo ha raccontato un sacco di aneddoti, dalla gavetta eterna (“Ancora adesso mi piace girare per i vari comparti: se non conosco qualcosa chiedo, mi piace imparare”) ai suoi desiderata. Più lo ascoltavi e più ti sembrava un comune mortale, fino a che l’occhio non cadeva sul jet parcheggiato fuori. Per non parlare dell’omaggio-tamarrata a lui riservato: tre aerei dell’aviazione francese si sono alzati in volo colorando il cielo con tre strisce bianche, rosse e blu. I colori della bandiera francese. Cosa ci azzecchi l’aviazione francese con il finto Top Gun americano lo ignoriamo, ma almeno un po’ di sano, truzzissimo glamour si è materializzato sulla Croisette.
Zelensky Show
A proposito di star, aviazione e Top Gun: ad aprire Cannes è arrivato addirittura Zelensky. Non di persona personalmente (per dirlo alla Montalbano), ovvio, ma in collegamento streaming. Onestamente? È stato a dir poco traumatico. Non ero infatti preparata, anzi, spalmata sulla mia poltroncina, stavo già pensando: “Ok, dai: il primo giorno è andato”. Poi, di colpo, invece degli zombi di Final Cut (il film di Michel Hazanavicius che ha inaugurato il Festival quest’anno) mi ritrovo il suo faccione a tutto schermo. Ho pensato “Sono gli Hunger Games”, e poi “Ora ci recluta”, e ancora “Cavolo, dovevo scrivere quel dannato cartello!”. Alla fine Zelensky ha solo parlato e i presenti non hanno capito nulla perché, in Francia, la traduzione dall’ucraino è solo in francese. Poi è calato il sipario, il film d’apertura è iniziato e sono arrivati gli zombie ad ammazzarsi tra loro. A oggi non so ancora se l’accostamento Zelensky-Apocalisse zombie fosse più inquietante o più profetico.
La giuria che non giudica
Diciamocelo: di solito nessuno se la fila mai. La giuria è quell’essere ultraterreno a sei-sette teste (una per ogni membro) di cui si parla solo alla fine (di solito per dire che ha votato male). Ma non stavolta. A questo giro la giuria di Cannes, capitanata dal presidente Vincent Lindon, ha rivendicato il suo momento di visibilità. Come? Facendo una serie di affermazioni quantomeno bizzarre. In apertura, i membri hanno infatti garantito che non giudicheranno. “I film non si criticano”, hanno spiegato, convinti, in coro, “bisogna solo gustarseli come farebbe un qualsiasi spettatore”. Loro sono quindi la prima giuria al mondo che non giudica: meraviglioso. C’è però chi ha fatto addirittura di più. Il regista cambogiano Rithy Panh si è dimesso dal suo ruolo di presidente della sezione short movie di TikTok. Sì: c’è pure questa sezione. Ebbene, il nostro ha urlato al complotto spiegando che TikTok faceva pressione ai membri affinché i premi andassero a certi creator, ossia a quelli grandi e commercialmente importanti. Da qui, le sue dimissioni. Ed è lì che capisci una grande verità: pure lui non aveva dato retta a quella vocina nella testa…