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‘Aquaman e il regno perduto’ fa (letteralmente) acqua da tutte le parti

Il secondo (e ultimo) capitolo della saga dedicata al superhero acquatico interpretato da Jason Momoa è un fallimento su tutti i fronti. Ora si aspetta che il DC Cinematic Universe cambi davvero tutto

Foto: Warner Bros.

Avete letto le storie e i rumour prima dell’inizio delle riprese. Avete discusso sugli annunci di casting. Avete visto una manciata di artisti cercare di rendere giustizia a un passato fatto di personaggi iconici che ormai ha poco più di un secolo. Forse avete persino chiesto alla Warner di far uscire lo Snyder’s Cut. (Ormai non c’è più bisogno di raccontarvi la lunga storia della D.C.E.U., né di ricordarvi che, a causa di una serie di decisioni aziendali, scandali, delusioni, accuse e veri e propri grattacapi ma-cosa-ca**o, una nuova dirigenza sta per premere il pulsante reset sulle proprietà intellettuali della casa editrice. Presto avremo tutti un nuovo universo DC Comics. C’è solo un’ultima parte di affari in sospeso, di cui occuparsi prima.)

Aquaman e il regno perduto – un titolo migliore di Aquaman 2, ma non così veritiero come Aquaman: Spegni le luci e vattene – non dovrebbe assumersi l’onere di affrontare i peccati dei detentori di quelle stesse proprietà intellettuali. (Non è che il D.C. Extended Universe fosse l’unico grande film di supereroi in circolazione ad avere a che fare con un flusso costante di controversie.) O, se è per questo, rispondere al confuso world-building freudiano, alle ossessioni per i crossover e al doomscrolling spesso dark-revisionista che ha caratterizzato gran parte di questo particolare franchise.

Questo sequel del fortunato primo capitolo del 2018 su Arthur Curry, membro della Justice League e re di Atlantide part-time, merita di vivere o morire in base ai propri meriti. Ma questi parametri non fanno comunque un favore al film. Il regno perduto sembra infatti un film a sé stante, che si accontenta di fare battute a proprie spese e di sguazzare nella propria piscina (letteralmente). Ma è anche un pasticcio di toni e registri, caratterizzato da effetti visivi che vanno da “scena tagliata di un videogioco” a “lavoro frettoloso dell’ultimo minuto”, da una narrazione complicata ma curiosamente esile e da una violenza senza fine. Anche gli irriducibili fan DC potrebbero trovare questo film un po’ troppo liquido (pardon) per i loro gusti.

Dopo aver assunto il compito di guidare il mondo sottomarino che gli spetta per diritto di nascita, Curry (Jason Momoa) sta effettivamente scoprendo che la testa che porta la corona è pesante; in particolare, quando la corona cade dalla testa del reggente che si appisola durante i noiosi vertici burocratici. Preferirebbe essere in giro a prendere a calci i pirati, passare il tempo con il suo bambino nuovo di zecca avuto con la sua dolce metà Mera (Amber Heard, che, sì, lo sappiamo…) o a bere Guinness con suo padre (Temuera Morrison). Nonostante la necessità di schivare continuamente flussi di pipì di neonato, tuttavia, la vita è bella per l’uomo con quella tuta squamosa verde e oro. La vita casalinga gli si addice, sedersi sul trono un po’ meno.

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, uno scienziato di nome Steven Shin (Randall Park) e un vendicativo supercriminale di nome David Kane (Yahya Abdul-Mateen II), meglio conosciuto come Black Manta, si sono imbattuti in un altro regno sottomarino. Lo scongelamento degli iceberg nell’Antartico ha rivelato un “regno perduto” (vedi titolo) che potrebbe contenere la chiave per Kane, che ancora si vuole vendicare della perdita di suo padre durante lo scontro di quest’ultimo con Aquaman molti anni prima. Un tridente verde incandescente rivela la storia segreta di questa civiltà sepolta da tempo, che sembrava essere popolata da bestie tentacolari e morti viventi. Svela anche a Kane che una sostanza verde e incandescente nota come Orichalcum è la fonte di uno smisurato potere soprannaturale, e che se riuscirà a rubarla da un luogo sicuro potrà ottenere quello stesso potere.

Ben presto, il mondo inizia a fare i conti con un clima impazzito, e Atlantide si prepara a una guerra totale. L’unico modo per sconfiggere Black Manta e le sue forze è che Arthur faccia evadere Orm (Patrick Wilson) dalla prigione nel deserto in cui si trova. Vi ricordate tutti di Orm, vero? Il fratellastro di Aquaman ed ex re di Atlantide conosciuto anche come Oceanmaster? Voleva distruggere il mondo lassù in superficie, e invece ha finito per diventare un paria a causa del suo abuso di potere. La mamma (Nicole Kidman) è entusiasta all’idea che i suoi ragazzi facciano squadra. Il suocero di Curry, re Nereo (Dolph Lundgren), non altrettanto. Una volta che Arthur e un polpo addestrato all’arte dello spionaggio – dico sul serio – liberano Orm dai suoi rapitori, il duo viaggia verso una remota isola vulcanica nota come Fosso del Diavolo, dove combatte contro alcune gigantesche creature della giungla, e alla fine si confronta con l’ancora più megalomane Black Manta, ora dotata di poteri sovrumani di vecchia data…

È in questo momento che Aquaman e il regno perduto aggiunge la buddy comedy alla lista dei sottogeneri in cui si immerge: ci sono anche il “film con il messaggio” (ci sono molte riflessioni sul cambiamento climatico, in parte gradite e in gran parte pesanti), “epopea di supereroi” e “blockbuster d’azione e avventura che mette in scena senza un motivo apparente pure un granchio eremita e spiritoso”. Probabilmente non è una coincidenza che, con i suoi capelli biondi e il mento squadrato, Wilson sia quello che assomiglia di più all’Aquaman dei fumetti che ha fatto la sua prima apparizione nel 1941; per i fan di lunga data, la possibilità di vedere sia la “ricetta originale” che la versione “extra-crispy” (Momoa) del ragazzo che parla con i pesci è probabilmente l’unico divertimento.

Jason Momoa e Patrick Wilson in una scena del film. Foto: Warner Bros.

Per quanto riguarda Momoa, l’attore è sempre stato bravo e credibile nei panni di Curry, inserendo nel personaggio molto del suo carattere da surfista; ma alla fine di questo sequel si ha la sensazione che quello che resta sia solo quel fascinoso beachcomber patentato. Questo potrebbe aver contribuito a “vendere” il primo film e ad alleggerire alcuni degli elementi più pesanti che il regista James Wan ha inserito nel mix. Qui, invece, sembra solo un’ulteriore spezia gettata in uno stufato di pesce insapore.

Bisogna riconoscere a Il regno perduto il merito di aver concluso questa brevissima saga, e per estensione il tentativo di DC di superare la Marvel nel gioco delle proprietà intellettuali del proprio universo interconnesso, con quello che sembra essere un cenno diretto (e forse un sussurrato vaffanculo) alla Stele di Rosetta del MCU. È una mossa coraggiosa, se non altro. Il che è molto più di quanto si possa dire per la maggior parte di questo lungo e fradicio addio, che lavora incessantemente sulla sua estetica subacquea, sulla sua ben intenzionata predicazione a favore dell’ambiente e sul suo sferzante ping-pong tra il serio e lo sciocco. Forse questo esperimento disomogeneo di creazione di un extended universe era destinato a finire non con il botto, ma con un piagnisteo. Se è così: missione compiuta. Ma anche se lo si vede solo come uno dei tanti film di supereroi, sembra comunque una robetta da niente. Saremmo stati meglio se questo regno fosse rimasto perduto.

Da Rolling Stone US

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