Cos’ha fatto James Cameron dalla fine del 2009, quando nelle sale statunitensi è uscito Avatar, il film che ancora oggi è il maggior incasso di tutti i tempi? Non sarebbe corretto rispondere che ha fatto Avatar 2, ovvero Avatar – La via dell’acqua, il sequel che approda al cinema in questi giorni, cioè 13 anni dopo l’originale. No, non sarebbe corretto: il regista canadese ha prodotto alcuni film, tra cui Alita – Angelo della battaglia, un progetto che aveva in cantiere fin dagli anni ’90, e svariati documentari, tra cui le miniserie Years of Living Dangerously e I segreti delle balene; ha realizzato una serie sulla fantascienza coinvolgendo e intervistando gli “amici” George Lucas, Steven Spielberg e Ridley Scott; si è messo a progettare videocamere speciali per i rover esplorativi della NASA; ha studiato l’agricoltura sostenibile e ha acquistato, insieme a Peter Jackson, dei terreni in Nuova Zelanda (dove si è definitivamente trasferito) in cui coltivare a basso impatto ambientale e realizzare carne plant-based; ha fatto lobbying per la colonizzazione di Marte; si è messo a cercare Atlantide; ha camminato da solo (il primo al mondo) nel punto più profondo della Terra, cioè la Fossa delle Marianne, dove ha scoperto alcuni microrganismi fino a quel momento sconosciuti.
Però sì, tra il 2009 e oggi, James Cameron ha fatto soprattutto Avatar 2. E 3, 4 e 5, visto che almeno La via dell’acqua e il suo già annunciato sequel sono stati girati insieme, e gli altri due capitoli (gli ultimi? chissà) sono stati programmati come se il tutto fosse una storia unica. Nel frattempo, ha anche inaugurato un’ambiziosa sezione del parco Disneyworld di Orlando, in Florida, una versione tangibile ed esplorabile di Pandora che, come è ormai regola nel mondo dei mega franchise, è inserita nell’universo narrativo della saga cinematografica (in teoria, tra l’altro, sta cronologicamente nel futuro rispetto a La via dell’acqua, quindi… spoiler?). Ma ci ha messo tutto questo tempo perché, com’è noto e com’è già successo per la maggioranza dei suoi film precedenti, la tecnologia che gli serviva per fare il secondo Avatar ancora non esisteva, per cui ha dovuto inventarsela, e renderla operativa. Costruendo sulle sue stesse precedenti innovazioni, ha perfezionato i sistemi motion capture e quelli di riprese in 3D per poter filmare sott’acqua, a un livello di definizione e di frame rate mai visti prima. Intanto, mentre tutti i suoi attori prendevano obbligatorie lezioni di free diving (e Kate Winslet arrivava a trattenere il fiato sott’acqua per 7 minuti consecutivi, battendo il precedente record di Tom Cruise – speriamo non se la prenda troppo), il budget è lievitato, la Fox è stata assorbita dalla Disney, una pandemia globale ha bloccato il mondo per un paio d’anni, l’uscita di Avatar 2 ha continuato a essere posticipata, anno dopo anno dopo anno.
E nel frattempo cos’è successo ad Avatar, il film che ha incassato di più nell’intera storia del cinema? La vulgata dice che sia finito nel dimenticatoio, che sia scomparso dalla pop culture, ma viene da chiedersi se sia davvero così, se non si tratti di una di quelle profezie autoavveranti tipiche di internet. È vero, Avatar non è diventato un cult infinitamente scomponibile e riproducibile (e dunque vendibile), fatto di tormentoni condivisi e marketing iconico come, che so, Star Wars, Harry Potter o il Marvel Cinematic Universe. La maggioranza dei suoi innumerevoli spettatori non ricorda cose fondamentali come il nome del protagonista o della corporation che colonizza Pandora, o i dettagli della cultura Na’vi. E, mano a mano che il ricordo dell’esperienza in sala sfumava – un’esperienza per molti ripetuta più volte, se consideriamo quanto a lungo era rimasto al cinema l’Avatar originale, mentre i primi fan accorrevano a vederlo ancora e ancora, e i neofiti si affacciavano per la prima volta a quello che veniva definito “il film che devi assolutamente vedere al cinema” –, nella coscienza collettiva si è installata la consapevolezza che, sì, sarà stato anche un bello spettacolo, ma la storia? La sceneggiatura? I personaggi? Non erano, in fondo, solo una versione sci-fi di Pocahontas o di Balla coi lupi? Una riproposizione basica dello schema alla Romeo e Giulietta già perfettamente testato in Titanic, un pretesto noioso per organizzarci attorno paesaggi e azione? E mentre, come si diceva, si moltiplicavano i costi e il numero dei sequel, la domanda serpeggiava sempre più rumorosa: abbiamo davvero bisogno di un altro – per non dire di altri – Avatar?
Intanto, però, Avatar è ancora un film che hanno visto quasi tutti, e gli adolescenti che nel 2009 non erano nati o erano in fasce, e che magari non hanno avuto interesse a recuperarlo (nonostante i comunque ripetuti passaggi televisivi e la disponibilità online), possono stare tranquilli: Avatar – La via dell’acqua fa di tutto per trascinarli con sé dentro il suo ciclone di meraviglia, anzi, per moltissimi aspetti è costruito proprio attorno a loro. Qualche mese fa, James Cameron ha rimandato in sala, in distribuzione internazionale, il primo film, per ravvivare l’interesse del pubblico e appunto farsi conoscere dai più giovani: ha portato a casa altri 75 milioni di dollari globali. Se vi fosse venuta voglia di riguardarlo, al cinema o anche a casa, forse l’avete trovato migliore di quel che ricordavate: certo, la sceneggiatura è sempre basilare e derivativa, e la recitazione del povero Sam Worthington ancora drammaticamente canina, ma possiamo sinceramente dire di meglio delle tonnellate di blockbusteroni in digitale sparati in sala dalla macchina hollywoodiana a getto continuo nell’ultimo decennio, fatte salve pur notevolissime eccezioni e cose pazzesche fuori scala come Mad Max: Fury Road? Meglio non far nomi per non irritare fandom suscettibili, ma le enormi innovazioni tecnologiche promesse da Avatar nel 2009, tutte le potenzialità sconfinate del digitale, della motion capture, della computer grafica, anche del 3D, sono state, molto più spesso che no, utilizzate in questi anni per andare al risparmio, per produrre facilmente un sacco di titoli in serie, per rimodulare fino alla nausea universi arcinoti, per confezionare sequenze action algoritmiche.
Il primo Avatar, rivisto oggi, ha ancora tutti i difetti di allora, ma pure tutti i pregi. E il sequel, La via dell’acqua, ne è la versione aggiornata, amplificata, più grande, più intensa, nel male e nel bene. Anche se resta su Pandora, Cameron non si astiene dall’inventare un nuovo mondo: cioè la civiltà “tropicale” e costiera, ispirata alle popolazioni maori, dei Metkayina – un altro nome che forse dimenticheremo in fretta, ma lo stesso non si può dire delle sequenze che la riguardano, immersioni straordinarie in un mondo subacqueo vivido e meraviglioso, popolato di fauna e flora stupefacenti. Come già con Aliens – Scontro finale e Terminator 2 – Il giorno del giudizio (probabilmente tra i migliori capitoli 2 mai realizzati), Cameron trova il modo di riportare in vita nel sequel chi dovrebbe essere morto, utilizzando magari trucchi da B movie (e d’altronde è alla scuola Roger Corman che si è formato) e affidandosi alla potenza del cinema. E l’ultima ora delle tre di La via dell’acqua – è probabile che lo sentirete ripetere da molti – è un tour de force di cinema d’azione, nel pieno controllo di spazi, oggetti e corpi (e ricordiamoci che è tutto “digitale”!), pieno d’inventiva visiva e coreografica, con poche parole perché la forza delle immagini e dei gesti è tutto ciò che serve. A qualcuno legittimamente non basterà, e chissà se l’incanto spettacolare del 2009 si ripeterà una seconda volta, soprattutto per spettatori più smaliziati, con gli occhi allenati all’effetto speciale. Ma per chi invece saprà godersi l’esperienza, abbandonandosi al grande schermo, La via dell’acqua sarà una montagna russa – un acquapark? – decisamente memorabile.
C’è un’altra cosa, infine, che è successa tra il 2009 di Avatar e oggi, e che non si può non menzionare: la crisi climatica e le sue disastrose conseguenze sono sempre più visibili, ci assediano in modo sempre più violento e rumoroso. La metafora ambientalista che nel primo film poteva sembrare parte del paesaggio narrativo “standard”, un “automatismo” come la storia d’amore contrastata e lo scontro western tra indigeni e coloni, oggi è un’urgenza vera e tangibile che non si può ignorare. E nella Via dell’acqua è il vero cuore del film, più del tormentato rapporto di Jake Sully con i figli, più della necessità continuamente ripetuta di proteggere i propri cari e di restare uniti. È il battito di Eywa, per dirlo con le parole del film: se si allineerà al vostro, sarà davvero difficile restare indifferenti.