In un articolo del 10 luglio scorso, la giornalista Aja Romano di Vox definiva il “Barbenheimer” (cioè la crasi fra Barbie a Oppenheimer, usciti negli Stati Uniti lo stesso giorno: per inventiva e originalità dei meme, oggi è un fenomeno irresistibile) come uno stato d’animo, un’atmosfera, uno stile di vita, il movimento artistico e sociale che avrebbe potuto trasformare il cinema per sempre: “distruttore di mondi, salvatore del cinema”. Stando ai risultati del box office americano, di cui vedremo gli effetti in Italia solamente alla fine di agosto, data la mancanza di contemporaneità tra l’uscita nelle nostre sale di Barbie (20 luglio) e Oppenheimer (23 agosto), i numeri non fanno che confermare un caso più unico che raro per l’industria cinematografica post-pandemia.
Nonostante il dibattito tra le differenti anime dei due lungometraggi si sia sempre concentrato sulle apparenti e differenti visioni sia registiche che attoriali e sulla natura per così dire semantica delle due opere, non ci si è accorti come anche la scelta dei due compositori per le rispettive colonne sonore fosse la perfetta sintesi dello stato attuale della musica per il cinema, tanto da spingere lo stesso mago del pop Mark Ronson, compositore/supervisore e produttore dello score originale di Barbie, a sfidare apertamente via social il suo rivale Ludwig Göransson, nuova voce sonora del cinema di Christopher Nolan e dello spazio interstellare di Star Wars.
Se già a partire dai primi anni ’90 si discuteva su quale fosse la perfetta sintesi di una colonna sonora contemporanea, con tanto di fazioni opposte – chi propendeva per una versione mixtape delle canzoni composte, di cui è ancora maestro Quentin Tarantino contro chi ancora era giustamente nostalgico dei grandi temi sviluppati negli anni ’80 da autori come John Williams – sono proprio Barbie e Oppenheimer i due titoli che ci spingono a ragionare sulle forme musicali che tale discussione ha generato, e in particolar modo su due personaggi così ironicamente in opposizione tra loro ma molto più simili di quello che possa sembrare. Ronson e Göransson sono senz’altro il risultato di questo perenne dilemma, ma come sono arrivati a contendersi lo scettro di master of soundtrack?
Cresciuti in un’antitesi culturale tra il freddo della penisola scandinava, dove il compianto Jóhann Jóhannsson tesseva la tela per il futuro hi-tech della colonna sonora contemporanea di cui lo stesso Göransson si è fatto portavoce, e la New York appena risvegliatasi dalla fine dello Studio 54 e l’arrivo degli MC, con la loro fusione di disco e funk, in cui si trasferì Ronson all’età di 8 anni, hanno entrambi incanalato le loro esperienze formative sin dalle prime opere da loro prodotte. Se Mark Ronson, novello Kendall Roy (celebri i meme in cui associano I’m Just Ken con il personaggio iconico di Succession), per attitudine e glamour, con la passione dei Beastie Boys e dei Dap-Kings, si affermò come deejay nei primi anni ’90, rafforzando la sua conoscenza nelle tecniche di campionamento come raccontato nel format didattico-musicale Watch the Sound with Mark Ronson, per Göransson fu da subito centrale il suo fine musicale, cioè comporre per immagini.
Seguendo il filo della storia, il loro primo incontro/scontro avviene alla fine del 2018 in un contesto ancora non del tutto esplorato, fino a quel momento, per il compositore svedese. È la serata dei Grammy, Mark Ronson è in corsa per Shallow, canzone composta per A Star Is Born che di li a due mesi vincerà l’Oscar per la miglior canzone originale, ma a sbaragliare la serata è proprio Göransson con la produzione di This Is America per Donald Glover, che si aggiudicherà il Record of the Year proprio a scapito di Shallow, così come il premio Best Score Soundtrack per Black Panther, primo lavoro per il franchise Marvel che lo avrebbe portato ad essere un punto di riferimento per i grandi kolossal.
Per un attimo i loro ruoli si ribaltano completamente. I Grammy, sin dal 2007 regno incontrastato di Mark Ronson con i loro lustrini e strobosfere, vedono arrivare un nuovo aspirante rivale in città, elemento che verrà totalmente ribaltato nell’edizione degli Oscar del 2019, che vede per la prima volta lo stesso Ronson entrare nelle grazie dell’Academy proprio con Shallow.
Entrambi sono artigiani del nostro tempo, con le loro modalità così differenti di concepire il processo compositivo così come di porsi verso i propri fan. Visitando i loro profili social, si vede come Mark Ronson abbia invaso il suo account di rosa, inserendosi anche nella scatola stessa di Barbie e dunque adempiendo perfettamente al suo ruolo di deus ex machina di Barbieland. Da Dua Lipa a Billie Eilish, le canzoni di Barbie sono un acceleratore di hit che sbaragliano ogni possibilità di vittoria per chiunque voglia partecipare nella sezione Best Original Song alla prossima edizione degli Academy Awards. E il film è una sorta di musical introspettivo ma volutamente glamour, visto che parte da un’icona così conosciuta e “fashion”.
Al contempo, Ludwig Göransson si veste dei panni del fisico Oppenheimer nell’esaltare le conseguenze emotivamente sensoriali di ciò che comporta una scoperta così potente e disastrosa per il mondo intero, cioè la bomba atomica; affronta le paure insite nelle conseguenza di ciò che si compie, ritirandosi letteralmente nel suo mondo così come il fisico americano trasferì la propria équipe nel New Mexico per il progetto Trinity. Sono gli affetti a comunicargli la via, lo spazio che da sempre lo ha rappresentato, finendo per concepire una colonna sonora che sfugge alle regole moderne nella sua trasfigurazione in sound art.
Intervistati nel format The Talks come rappresentanti di una nuova Mecca musicale per l’industria discografica, Ronson e Göransson si interrogano sulla ciclicità di ciò che producono e su cosa potrà cambiare a causa della richiesta di comporre sempre più musica, elementi che ritroviamo perfettamente anche nei due film di cui si fanno rappresentanti. La loro musica avrà sempre una strada in cui compiersi o verrà prima innalzata e poi utilizzata per distruggerli?
Alla base di tutto questo, ovviamente, non c’è una reale sfida, ma una constatazione che la musica per il cinema stia dando sempre più modo di esprimersi liberamente a coloro che si avvicinano a questa arte, da Ronson, producer universale che scava nell’animo per riportare, testualmente, “la ricerca di una nuova via identitaria per una bambola così unica e chiusa nel suo stereotipo di bellezza”, a Göransson, artefice e diretto erede dei padri fondatori di quest’arte che con il suo piglio romantico e hi-tech sta attuando una nuova rivoluzione e visione sonora. Il Barbenheimer si compie anche in musica.