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Ben Affleck è molto meglio di voi

Dall’Oscar per ‘Will Hunting’ all’ultimo film, ‘Air , La storia del grande salto’, che racconta la nascita delle Air Jordan e di cui è regista e interprete. Dalla depressione a J.Lo. Ritratto di un ribelle forse non genio, ma comunque bravissimo (e parecchio sottovalutato)

Foto: Warner Bros./Amazon Studios

La prima volta che ho incontrato Ben Affleck è stato nel 1999. Eravamo al Festival di Cannes, fuori concorso veniva presentato Dogma, film di Kevin Smith assai incompreso che vede Affleck e Matt Damon nei panni di due angeli ribelli decisi a porre fine all’umanità perché a loro parere il progetto divino ha fallito. A salvare il mondo ci pensa Linda Fiorentino, che lavora in una clinica abortista. Dio è Alanis Morissette. C’è anche Alan Rickman, emissario divino in versione Ken. E pure Chris Rock. E Jay e Silent Bob, naturalmente: non si può salvare il mondo senza di loro. E Jason Lee. E Salma Hayek. Ecco, Salma Hayek.

Dopo una delle più divertenti session d’interviste della mia lunga e inutile carriera, mi sono fermato a chiacchierare con lei e Ben Affleck. Una ventina di minuti, quando queste cose ancora si potevano fare senza che arrivasse qualcuno che voleva fare un selfie, o una photo opportunity, o una qualunque altra cazzata di quelle che si fanno adesso. Abbiamo parlato, riso, scherzato. E oltre alle indubbie qualità di Salma Hayek (ero giovane, ancora mi ribolliva il sangue, e all’epoca neanche ci si doveva mortificare sull’altare del politicamente corretto), l’altra cosa che mi è sempre rimasta in testa di quei piacevoli momenti è stato il sorriso rilassato e spensierato di Ben Affleck.

Uno che un anno prima, a neanche 26 da compiere, aveva vinto un Oscar per la migliore sceneggiatura per Will Hunting – Genio ribelle insieme al suo migliore amico Matt. Nel frattempo aveva salvato il mondo insieme a Bruce Willis in Armageddon e offuscato i protagonisti di Shakespeare in Love nei panni di una star teatrale dell’epoca elisabettiana. Sembrava davvero avere una carriera radiosa davanti, questo “All American Boy” nato a Berkeley, California, e cresciuto poi nel Massachusetts, con un padre alcolizzato che ha segnato, in molti modi, il resto della sua vita.

Tanti lavori da ragazzo, da carpentiere a bidello a Harvard, da dove nasce l’idea di Will Hunting, una sceneggiatura scritta a 22 anni, passata dalla Castle Rock alla Miramax, messa in mano a Gus Van Sant, che fa vincere l’unico Oscar della carriera a Robin Williams. Per arrivare a toccare il cielo con un dito c’è stata tanta gavetta prima, dalla tenera età di sette anni, da attore bambino ad adolescente, anche sotto gli occhi di Richard Linklater in La vita è un sogno. E poi l’amicizia con Kevin Smith, nella cattiva sorte di Generazione X e nel mai abbastanza celebrato In cerca di Amy, di cui prima o poi qualcuno che fa tendenza dirà che è una delle migliori sceneggiature del cinema americano degli ultimi quarant’anni, scoprendo finalmente l’acqua calda.

Andiamo avanti, viviamo il presente, quello in cui Ben Affleck e Matt Damon lavorano di nuovo insieme in un progetto comune. Air – La storia del grande salto (nelle sale dal 6 aprile) è il primo film prodotto dalla compagnia che hanno fondato insieme, qualcosa di molto più concreto di Project Greenlight, una sorta di reality del cinema che avevano tirato fuori nel 2002 per HBO. Artists Equity, questo il nome della casa di produzione, si basa su un concetto semplice: chiunque lavori in un film condivide i rischi e i guadagni. E chi ha lavorato nel film che racconta la nascita delle Nike Air Jordan ha guadagnato tanto, come ha detto lo stesso Affleck in un intervista all’Hollywood Reporter. Ben produce, dirige (assai bene) e interpreta Phil Knight, il fondatore della Nike che nel corso della storia ripete spesso a Sonny Vaccaro (cioè Damon), l’uomo che riuscì a far firmare Michael Jordan: “Ti ricordi come ho fondato quest’azienda?” (o qualcosa del genere, l’ho visto in inglese).

Ben Affleck in ‘Air – La storia del grande salto’. Foto: Warner Bros./Amazon Studios

Non è Phil Knight a parlare. È Ben Affleck. Che lo dice a se stesso. Ricordati come sei arrivato fino qui. Ricordati che sei stato un sex symbol ai tempi di Pearl Harbor, ricordati che ti hanno gettato nella polvere per Amore estremo, Daredevil, il brillocco per J.Lo e la mano sul suo sontuoso lato B nel video di Jenny from the Block. E ti sei rialzato, hai vinto una Coppa Volpi a Venezia interpretando l’attore che interpretava Superman (in Hollywoodland, 2006), ti sei messo dietro la macchina da presa e hai dimostrato di essere qualcuno, hai vinto un altro Oscar con un grande film come Argo e sei diventato Batman.

Gli attori hanno molte vite, di solito solo sullo schermo, Ben Affleck invece le ha volute provare tutte. Depresso cronico dai suoi vent’anni, alcolista, apparentemente felice negli anni divisi con Jennifer Garner, un matrimonio modello durato dodici anni e benedetto da tre figli. Si erano conosciuti sul set di Pearl Harbor, la scintilla è scoccata lavorando insieme in Daredevil, probabilmente uniti dalla consapevolezza di quello che stavano combinando. Nel corso della loro unione lui era purtroppo finito in quel tritacarne che è il DC Universe, nelle mani di Zack Snyder, un’esperienza che lo ha segnato nel profondo.

E qui veniamo alla seconda volta che ho incontrato Ben Affleck. Londra, novembre 2017, tour promozionale di Justice League. Un carnaio inutile quanto il film. Nel corso di una round table con tutto il cast e un sacco di giornalisti che facevano domande stupide, io ero seduto su un divano di fianco a lui. Era completamente disinteressato a quello che gli stava accadendo intorno, recentemente ha dichiarato che quel film è stata la cosa peggiore che gli è capitata nella vita, e pochi mesi prima il suo quarto film da regista, La legge della notte, un gangster-mélo ambientato durante il proibizionismo, aveva fatto perdere 70 milioni di dollari alla Warner Bros. Ecco, quel giorno forse ho salvato la vita a Ben Affleck, e neanche faccio il DJ. Prima di congedarmi gli ho detto che il suo film mi era piaciuto. Ed è vero, perché il suo essere eccessivo e fuori tempo lo rende un oggetto fragile e a cui voler bene. E lì, per un attimo, è riapparso quel simpatico ragazzo con tutta la vita davanti incontrato diciotto anni prima sulla Croisette.

Ben Affleck ha già lasciato una grande impronta nella storia del cinema, e gli è anche stato tolto un bel po’. Avrebbe meritato la candidatura all’Oscar per la miglior regia di Argo, e forse anche di The Town. Il suo primo film da regista, Gone Baby Gone, è un noir dolente come non se ne vedevano da tempi, scritto magnificamente. Senza di lui L’amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher non sarebbe stato un film altrettanto incredibile. E per il suo zio-padre-mentore in Il bar delle grandi speranze di George Clooney avrebbe forse meritato di vincerlo, un Oscar.

Ben Affleck in ‘Argo’. Foto: Warner Bros.

Ma al di là dei premi, Ben ha dimostrato a se stesso quali sono le cose davvero importanti nella vita. Si è disintossicato. Ha girato un bel film con il suo migliore amico parlando di una delle più grandi icone della storia dello sport senza mai inquadrarlo, “perché Michael Jordan è troppo grande, chiunque altro nei suoi panni non sarebbe stato credibile”. È un bel film Air, non il suo migliore, ma girato con il cuore e con il cervello, con manico e mestiere, pieno di parole, perché le parole sono importanti. È un film fatto di confronti, faccia a faccia, marcamenti a uomo come nell’NBA, dove la difesa a zona è un’infrazione, non è concessa. Sono tante piccole scene madri in cui tutti danno del loro meglio per farsi superare e superare di nuovo. Perché alla fine è questo che conta: tirare fuori il meglio. Dagli altri. Da se stessi.

Un giorno Ben Affleck girerà un grande film, uno di quelli che restano nella storia del cinema per sempre. Ne ha passate troppe perché non avvenga. Ne ha superate troppe perché non ci riesca. E noi saremo lì, ad applaudire. Perché se lo sarà meritato.

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