Con un pugno di titoli – diciamo da Fruitvale Station di Ryan Coogler a Moonlight di Barry Jenkins, che vinse l’Oscar come miglior film un anno fa, da Black Panther, ancora di Coogler, che ha battuto inaspettatamente ogni record d’incassi nel mondo della Marvel e non solo, a Get Out di Jordan Peele, piccolo horror che ha
ribaltato le regole del genere, arrivando a puntare agli Oscar, fino al recentissimo BlacKkKlansman, prodotto dallo stesso Peele per il ritorno alla regia di Spike Lee, presentato con successo a Cannes e che in America uscirà proprio in agosto, nella stessa data dei tragici fatti di Charlottesville – il cinema nero americano, diretto, scritto, prodotto e in gran parte interpretato da attori neri sta radicalmente cambiando lo scenario, anche culturale, dei film made in Usa. E lo sta facendo, proprio scorrendo i titoli, con pellicole del tutto diverse per produzione, budget, generi, invadendo e stravolgendo territori un tempo ritenuti adatti solo a registi e attori bianchi. Come l’horror o il cinema di supereroi della Marvel.
Presentandosi con l’ausilio di nuove star, da Chiwetel Ejiofor a Michael B. Jordan, fino alle africane Danai Gurira e Lupita Nyong’o, in un gioco di ricerca di veri volti delle terre degli avi. Incredibilmente, il miracolo si compie sotto gli occhi di un’America ancora sotto shock, passata dalla presidenza di Obama a quella di Trump. Il tema centrale di tutti questi film, ai quali aggiungerei il meno riuscito, ma non meno ambizioso The Birth of a Nation, diretto e interpretato da Nate Parker, sulla rivolta di Nat Turner ai tempi della schiavitù, e il più profondo film di Steve McQueen, Dodici anni schiavo, a torto considerato più tradizionale, è sempre e costantemente un regolamento di conti col passato sanguinoso della Storia, soprattutto per come è stata scritta dagli americani, e in generale dagli occidentali, che ha raso al suolo la forza dell’essere africani prima e poi afro-americani.
Un passato, che, soprattutto nel film di Spike Lee, diventa la chiave per leggere il presente, cioè la tragedia di Charlottesville, e le dichiarazioni fascistoidi di Trump sulla violenza che viene “da entrambe le parti”. Un nodo, il fatto di essere afro-americani, che si trasforma in una dissonanza fondamentale, come ha scritto Jelani Cobb su The New Yorker, che diventa il soggetto principale di Black Panther,e la base per la sua rivoluzione culturale. Perché i due protagonisti del film, T’Challa, interpretato da Chadwick
Boseman, e Erik Killmonger, interpretato da Michael B. Jordan, non sono due antagonisti, ma solo due aspetti della stessa dissonanza, costruita da secoli di sfruttamento e di Storia vista solo dalla parte bianca.
E un ruolo non indifferente, quello di generalesse guerriere o di scienziate, lo hanno le figure femminili, mai subalterne. Black Panther, con i suoi incassi stratosferici – ovunque, tranne che da noi –, è il film, come ha riconosciuto anche Spike Lee, attorno al quale gira tutta questa rivoluzione culturale nera americana. Perché affonda il coltello contemporaneamente nelle radici africane e in quelle del Black Power originale di Oakland, dove il movimento nacque. In qualche modo Jordan Peele, dopo il suo horror sociale sulla violenza dei bianchi democratici, Get Out, offre a Spike Lee, da anni un po’ in ombra, l’occasione per riprendere il discorso iniziato da Ryan Coogler, cioè la rilettura nera della Storia americana, puntando direttamente sul Ku Klux Klan, ma anche sui grandi film americani che ne hanno trattato – e non certo dalla parte dei neri –, come Nascita di una nazione di David W. Griffith e Via col vento di Sam Wood, passando poi per la Blaxploitation e chiudendo con un presente minaccioso, dove le tante fila del suprematismo bianco trovano in Trump e nel potere poliziesco il loro naturale sviluppo.
Temi, a ben vedere, già trattati da Quentin Tarantino in Django Unchained e in The Hateful Eights, veri saggi sulla storia americana tra passato e presente. Tarantino nel primo partì dalla schiavitù per arrivare al Django da Blaxploitation modellato tra spaghetti western e Shaft, e nel secondo ha portato la violenza tra neri, bianchi e femmine al massimo sviluppo nell’inquadratura finale, che mostra un mondo in guerra, senza speranza, per le contraddizioni mai risolte. Il fatto di essere bianco non ha permesso ai critici americani di inserire i suoi film nella nuova onda nera. Ma, alla luce di Black Panther e di BlacKkKlansman, non possiamo scordare che le indicazioni dei suoi film e la sua ironia sono fondamentali nello sviluppo della nuova corrente. Come lo è il cadere quasi casuale in un passato sicuro, ma base di un presente ancor più pericoloso e ambiguo dei protagonisti di Get Out e Dodici anni schiavo. Se a questo aggiungiamo il forte desiderio di africanizzazione di Black Panther, abbiamo un quadro preciso di come si stia muovendo il cinema nero americano. Il fatto che ciò accada sia all’interno di piccoli film, sia di gigantesche macchine di cinema popolare, rende ancora più forte e selvaggia questa rivoluzione.