Aero Theater in quel di Santa Monica, cinema mitico – è qui che ha fatto la première americana il nostro Lo chiamavano Jeeg Robot – dove solitamente vengono trasmessi non solo film cult, ma ogni settimana si può assistere, grazie all’American Film Institute, agli unici incontri di cineforum fra pubblico e registi, attori e sceneggiatori. Ed è qui che mi sono recato non solo a vedere The Whale, un film che mi ha rubato il cuore, ma anche per assistere al dibattito successivo fra Darren Aronofsky, Brendan Fraser (Toronto Film Festival Award, Critics’ Choice Award e – forse – prossimo vincitore Oscar), una bravissima Sadie Sink, nota per essere la “Max” di Stranger Things, e Samuel D. Hunter, l’autore della pièce teatrale dalla quale è tratto il film. Li ho poi incontrati per questa Rolling-intervista su uno dei titoli più caldi (e divisivi) dell’annata.
Mr. Aronofsky, subito due parole sul film.
Darren Aronofsky: Il film racconta la storia di Charlie (il personaggio di Brendan Fraser, nda), insegnante di letteratura inglese che tiene i corsi da casa, in videochat, proprio per nascondere il proprio aspetto e peso, che nel frattempo ha raggiunto il preoccupante peso di 300 chili. Anche se le immagini del film lo ritraggono, spezzato nel fisico, mentre insegna, ordina pizza, guarda la televisione e riceve visite di un’amica infermiera che cerca di convincerlo a ricoverarsi, il suo obiettivo principale – mentre lotta con la vergogna che ha di se stesso – diventa quello di recuperare il rapporto con la figlia adolescente, Ellie (Sadie Sink, nda), che non l’ha mai perdonato per aver lasciato lei e la madre (Samantha Morton, nda) per un uomo. Charlie lotta per sfruttare al meglio il tempo che gli resta. Il tutto mostrando un animo sensibilissimo.
Senza rivelare nulla del film, tutti ricorderanno quando ha stupito l’intera platea della Mostra di Venezia, il cui pubblico gli ha dedicato ben 8 minuti di applausi, celebrando Brandan Fraser, il protagonista della storia. Adesso, visto il film e messi via i fazzoletti, vi confesso che ho sempre amato Fraser (La mummia, George re della giungla…?, Demoni e dei), nonostante da un giorno all’altro sia sparito nel nulla come capita a tanti attori hollywoodiani; e ho sempre sperato che un giorno o l’altro gli venisse scritta una parte e dato un film come The Whale, dove ci mostra un’interpretazione di una nobiltà d’animo notevole, da uomo pieno di purezza di cuore, qualità rarissima di questi tempi. Il tutto in un corpo di 300 chili.
Brendan, perché questo film? Sei felice di averlo fatto?
Brendan Fraser: In realtà non mi avevano offerto subito la parte di Charlie, non tanto perché non erano sicuri di me, ma perché eravamo in pieno lockdown e soprattutto perché Darren non aveva ancora deciso se fare il film o meno. Mi ha detto che chiunque avesse scelto come protagonista, avrebbe dovuto superare diverse problematiche, una delle quali la scelta o meno di portare un tuta prostetica non indifferente; l’altra, la capacità di sopportare psicologicamente tutto ciò che di negativo deriva dl fatto di “essere” un uomo di 300 chili; terzo problema, come tutto questo – e le varie “dipendenze” di cui soffre Charlie – sarebbe stato accolto dal pubblico. Tutte cose che mi ha detto quando ci siamo incontrati e che adesso ricordo; ma in quel momento avrebbe potuto dirmi di saltare nel fuoco e io l’avrei fatto, dopotutto stiamo parlando di Darren Aronofsky, il regista di film come Requiem for a Dream e soprattutto The Wrestler, un film che ho molto amato e che – non lo posso ignorare – ha rilanciato la carriera di Mickey Rourke! (ride, nda) È un regista che ammiro molto, i suoi film celebrano la poesia dei perdenti e l’elegia della sconfitta, sono sempre centrati su temi importanti della condizione umana, ai quali dà risposte difficili e controverse. Nel nostro caso, in scena c’è la storia di un uomo che vive da solo e ha moltissimi rimpianti su determinate scelte di vita che ha fatto.
Come ti sei preparato al ruolo?
Brendan Fraser: Dovendo affrontare una doppia problematica, sia dal punto fisico che mentale, ho fatto più ricerca possibile. Ho letto un sacco di testi medici dedicati ai problemi fisici di una persona obesa, ho incontrato persone che vivono con disturbi alimentari, ho parlato con i membri di Obesity Action Coalition, un gruppo di difesa delle persone affette da obesità e dei loro familiari. Ho incontrato persone tanto obese da non riuscire ad alzarsi dal letto, che mi hanno raccontato le proprie situazioni traumatiche vissute durante l’adolescenza, contrassegnate da bullismo, sfiducia, depressione, mancanza di comprensione. Ho sentito l’obbligo morale di ritrarre quest’uomo con dignità e rispetto: avrà i suoi difetti, ma anche delle virtù. L’ultima volta che sono uscito dal suo corpo – in cui “entravo” dopo sessioni di make-up di circa cinque ore quotidiane – mi sono commosso, mi sentivo come se avessi vissuto per un po’ la vita di un altro uomo, e questo mi ha dato un profondo senso di rispetto nei confronti della sofferenza delle persone come lui.
E hai scoperto che…?
Brendan Fraser: Mi sono purtroppo dovuto ricredere su alcuni tabù sociali, ho capito che le persone obese nella nostra società non sono degne di considerazione, anzi vengono viste con disgusto; e quando la nostra fiducia viene messa in discussione e veniamo osservati in modo recriminatorio, ci sono delle conseguenze reali e dolorose. In loro c’è tanta rabbia, vergogna, paura e disgusto, ma anche tanta speranza. Spero che questo film aiuti a vedere le persone obese con più empatia. Charlie mangia anche se non vuole, è il suo cervello che glielo impone: si nutre del cibo di cui ha bisogno, ma che non vuole. Non è il suo corpo, ma il cervello e il malessere mentale a determinare la sua dipendenza. Ha scelto il cibo come ricompensa emotiva.
Sadie, quant’è stato importante per te questo film?
Sadie Sink: Non avevo mai lavorato in un film come questo e ovviamente, sulla falsariga di quanto diceva Brendan, quando a capo di tutto c’è Aronofsky, ovvio che vuoi essere coinvolta. Darren mi ha cercata e mi ha chiesto se volevo partecipare a un reading di “un progetto senza titolo”. Mi sono ritrovata in un teatro, seduta accanto a Brendan Fraser, e subito dopo abbiamo letto il copione di The Whale. Mentre leggevo le battute del mio personaggio, mi dicevo che non avevo mai letto qualcosa di così reale, viscerale, a proposito del rapporto di odio e amore tra un figlio e un genitore. Tutti in quella stanza sapevamo che avremmo potuto fare qualcosa di molto speciale.
Come ti ha cambiata The Whale?
Sadie Sink: Mi ha aiutata a crescere come attrice e a cambiare certe abitudini di cui dovevo liberarmi per sentirmi davvero sicura di fronte alla macchina da presa. Perdere l’innocenza fa sempre bene, ti fa vedere il mondo dal punto di vista degli altri. Anche se lavoro da anni, è difficile arrivare al punto in cui ti apri completamente e vuoi essere vulnerabile, e per me quel momento arriva alla fine del film. Meno male che ho avuto tre settimane di tempo, insieme agli altri membri del cast, per fare le prove sul set prima di girare. Alla fine ero completamente svuotata di emozioni, prosciugata, distrutta, ma felice. Fare questo film mi ha dato anche un diverso punto di vista del peso che i genitori hanno per i propri figli, ho avuto modo di capire meglio l’amore incondizionato e il perdono che un genitore deve offrire ai propri figli.
Sappiamo che hai cominciato giovanissima: dopo anni di lavoro, sicura della scelta?
Sadie Sink: Certamente, soprattutto perché il lavoro riempie l’anima, il cambiare pelle allarga gli orizzonti, mette in discussione tutto quello che pensi di sapere. Avere due genitori nel business aiuta. Grazie alla loro passione, io e mio fratello Mitchell eravamo sempre su YouTube a guardare monologhi e musical come Matilda, Annie, Hairspray… recitavamo fra di noi sul divano, eravamo ossessionati dalle performance dei Tony Awards. Nei miei sogni non vedevo l’ora di esordire a Broadway, mentre a casa nostra a Brenham, in Texas, andavamo, all’eta di 10 anni, a qualsiasi audizione ci fosse in città. Da lì i primi lavori, poi siamo andati a New York, i primi spettacoli teatrali… tutto è partito così.
Mr. Aronofsky, sono state mosse alcune critiche verso il casting di Brendan Fraser e la rappresentazione dell’obesità nel film. È una cosa che l’ha sorpresa?
Darren Aronofsky: Il film nasce dal cuore e dall’esperienza personale di Sam Hunter, che ha voluto portare la sua pièce sullo schermo. Sam ed io siamo sempre stati insieme, in tutte le fasi della sceneggiatura; lui è stato presente sul set ogni giorno, ha visionato i vari montaggi, e in tutto questo viaggio siamo diventati grandi amici, e lo stesso dicasi per Brandan. Secondo me il focus del soggetto è un altro: è opportuno raccontare certe storie? E secondo me sì, sempre, soprattutto nel mondo dei perdenti, degli sfiduciati. Io lo faccio come esercizio di empatia, so che in tutti i personaggi c’è questa incredibile speranza per/nel futuro del mondo. Quello che amo di Charlie è che non ha un briciolo di cinismo, sta cercando di fare del bene, di amare il mondo, anche se è un personaggio molto imperfetto, visto che è egoista, dispotico e ha commesso molti errori nella sua vita, un paio piuttosto capitali. Ho pensato però che questa fosse una storia che andava raccontata, voglio che il pubblico possa ritrovarsi e dire: “Anch’io conosco una persona come Charlie, un essere umano con pregi e difetti”. È assurdo che ci siano tutti questi pregiudizi e preconcetti nel mondo. Spero solo che la gente vada a vedere il film con il cuore aperto, che presti attenzione e si connetta con Charlie, un personaggio che può cambiare le persone, che può aiutare a innalzare un po’ il dibattito su certi temi.