Charlie pesa 270 chili. È la prima cosa che noti di lui; è la prima cosa che ti viene chiesto di notare di lui. È sempre stato un uomo robusto, dice, ma “mi sono lasciato andare, senza controllo”. Nelle lezioni che fa su Zoom con i suoi allievi di letteratura inglese – è un professore universitario – la sua voce viene fuori da un quadratino completamente nero: la webcam è sempre disattivata, la parola “docente” è l’unico dato visivo che i suoi studenti hanno di lui.
Ma quando vediamo per la prima volta Charlie in The Whale (nelle sale italiane dal 23 febbraio, ndt), l’adattamento firmato Darren Aronofsky dell’omonima e premiatissima pièce che Samuel D. Hunter ha scritto nel 2012, siamo costretti a osservare tutto di lui: la mole di quest’uomo, il suo corpo gonfio e ingrossato che occupa mezzo divano, mentre colui che lo “veste” si sta masturbando rabbiosamente guardando immagini porno online. Fitti dolori al petto interrompono la sua impresa. Solo l’arrivo di uno sconosciuto alla porta gli salva la vita.
Questo sconosciuto, Thomas (Ty Simpkins), è un missionario ventenne e dalla faccia pulita venuto direttamente dalla chiesa locale, il tipo di ragazzo che predica a proposito della fine del mondo. Crede che Dio lo abbia fatto arrivare in quell’appartamento per un motivo (se considerate i trucchetti narrativi una forma di divina provvidenza, allora sì, di sicuro). Presto, la migliore amica di Charlie, un’infermiera di nome Liz (la bravissima Hong Chau) arriva ad aiutarlo. L’uomo che suda e ansima sul divano ha bisogno di un deambulatore per muoversi. Più tardi la figlia di Charlie, un’adolescente ribelle di nome Ellie (la Sadie Sink di Stranger Things), si presenta per dare una strigliata a suo padre. E così fa la sua ex moglie, Mary (Samantha Morton). Ma questi personaggi sono dei semplici satelliti. Sono qui per orbitare attorno alla figura al centro di tutto. O forse, per dirla meglio, alla stella che emette questa forza centrifuga.
Anche se non seguite i pronostici sui prossimi Oscar, avrete probabilmente sentito quanto è incredibile Brendan Fraser nel ruolo di Charlie. L’hype attorno alla sua performance è giustificatissimo. Non è un’esagerazione dire che è una delle migliori (se non la migliore) prove della sua carriera, e anche una di quelle rinascite sullo schermo che ti fanno capire i talenti mai sfruttati di certi attori. Forse saprete anche che ha passato dei momenti difficili negli anni scorsi, dunque l’incredibile reazione emotiva al suo ritorno sullo schermo e sui tappeti rossi è del tutto sincera. Fraser tende a minimizzare, se non snobbare, questo suo ritorno, ma è evidentemente questo ciò che The Whale rappresenta per lui. Ci sono tantissimi momenti in cui guardi l’attore in questo ruolo e vuoi sapere di più del lavoro che ha fatto per portare in vita questo personaggio così pesante (in tutti i sensi), melodrammatico e “sbagliato”.
Con indosso chili di protesi e spesso ostacolato da sviluppi narrativi e dialoghi che sembrano rimasti inceppati nella traduzione dal palcoscenico allo schermo (nonostante l’adattamento sia a firma dello stesso Hunter), Fraser riesce a comunicare l’umanità di questo personaggio anche se il film fa di tutto per minare i suoi sforzi. Ci riesce per il modo in cui usa i suoi occhi e le sue espressioni per rivelare dolore, paura, disprezzo verso sé stesso, autocommiserazione, speranza, disperazione, un finto senso di allegria mondana e un vero senso di gioia si direbbe spirituale. Il modo in cui i suoi occhi si muovono quando non riesce a prendere una chiave caduta per terra. La risatina che fa quando scopre che la sua cinica figlia ha trasformato la sua misantropia in un haiku. Sei sottoposto a tre tipi di sforzi tutti insieme, mentre guardi The Whale: lo sforzo di Charlie di non farsi sopraffare dalle sue condizioni fisiche; lo sforzo di Fraser di farti comprendere l’anima bellissima redi quest’uomo ferito; e lo sforzo che fai tu per reprimere la tua rabbia nei confronti del film per apprezza a pieno l’impegno che ci mette il suo protagonista.
Perché qui c’è un evidente problema di sensibilità, nel modo in cui l’attore e il film guardano rispettivamente a Charlie, finendo per sembrare in totale contraddizione l’uno con l’altro. Non puoi mai accusare Darren Aronofsky di essere un regista senza immaginazione o incapace di prendersi dei rischi: è uno di quegli autori i cui fallimenti sono spesso più interessanti dei successi di certi suoi colleghi. È un artista che non ha paura di gettare il cuore oltre l’ostacolo anche a costo di essere spesso e aspramente criticato (vedi il precedente madre!: c’è voluto del fegato per fare qualcosa di concettualmente tanto audace). Ma fin dagli esordi con Requiem for a Dream (2000) è stato chiaro che, nella sua visione, qualsiasi tipo di sensibilità sarebbe stata facilmente messa da parte in virtù di uno stile che predilige sempre lo sturm und drang; dal desiderio di accecare lo spettatore, o addirittura di sottometterlo alla propria idea di cinema. Per fare ciò, si è sempre servito di performance utili allo scopo.
In questo senso, Fraser è l’attore dei sogni, e al tempo stesso però The Whale non fa che renderlo grottesco ai nostri occhi. C’è qualcosa di mostruoso nel modo in cui viene inquadrato, “feticizzando” ogni suo centimetro di carne o amplificando il rumore che fa quando gli va il pollo di traverso. Quello che sta vivendo quest’uomo – un terribile senso di vergogna che dentro di lui ha generato una metastasi autodistruttiva – non è per nulla positivo. Ma il film sembra compiacersi con fin troppo entusiasmo dello squallore che sta mettendo in scena. La colonna sonora di Rob Simonsen sembra voler enfatizzare ancora di più questo senso di disperazione. Per ogni raggio di umanità che Fraser fa risplendere attraverso la sua anima, il film gli mette contro decine di nuvole minacciose.
Ti viene da pensare che se lo spettatore voglia provare qualcosa – qualsiasi cosa – nei confronti di questa persona al di là della compassione o, ancora peggio, un senso di superiorità, è solo una responsabilità che Fraser si carica addosso al pari delle protesi sulle sue spalle. (A dirla tutta, viene aiutato in questa impresa anche da Hong Chau, che riesce a trasformare il suo ruolo da non protagonista in una performance piena di sfumature, che spesso ruba la scena all’interprete principale.)
Fraser merita qualsiasi premio a disposizione quest’anno, per aver interpretato questo uomo distrutto che finalmente trova il suo momento di redenzione. Ma avrebbe meritato anche un film migliore, per tutto il bellissimo lavoro che ha fatto. The Whale sa di avere un motore fortissimo ad azionarlo, ma non riesce a non essere schiacciato dal suo peso metaforico e sensazionalistico.