Lacrime trattenute, lacrime che sgorgano, lacrime da asciugare, magari con un filo di imbarazzo: commuove l’ultimo Almodóvar, ma a piangere, soprattutto, tradito dall’emozione e forse dall’età, è anche Alain Delon, umano troppo umano nel ritirare quella Palma d’oro alla carriera che fino adesso aveva sempre rifiutato: “La meritano di più i registi che mi hanno diretto”. Sul palco le polemiche della vigilia sembrano svanire in un attimo; il leggendario attore francese (che tanto ha dato anche al cinema italiano), ex militare poco incline agli studi scoperto dalla settima arte per caso, ha subito chiarito: “Devo tutto alle donne, senza di loro non sarei qui”. Ma veniamo ai film.
Dolor y gloria di Pedro Almodóvar
“Il bravo attore non è quello che piange, ma quello che lotta per trattenere le lacrime”. Vale anche per i registi, sicuramente per Pedro Almodóvar che, dopo una lunga depressione dovuta anche a malanni fisici, fa i conti con se stesso dipingendo – attorniato dagli amici di sempre (Banderas, la Cruz…) – un bellissimo autoritratto, un commovente film-bilancio, sincero, emozionante, libero. Un film che di lacrime trattenute (ma qualcuna, inevitabilmente, scappa) ne conta molte, perché Dolor y Gloria è mosso dal sentimento, vive di ricordi, di oggetti e amici che si credevano smarriti, perduti per sempre. La storia di un regista in crisi di ispirazione, fisicamente sofferente, in cui Almodóvar proietta se stesso e le sue fragilità, dà la possibilità al maestro spagnolo di girare, con grande delicatezza, un film sul tempo (che passa e che torna), sulla nascita del desiderio, sull’amore che non basta “a salvare le persone che ami”. Un’autofiction toccante, un percorso terapeutico grazie al quale Almodóvar, incontro dopo incontro, guarda nel fondo del suo cuore. E dei nostri occhi.
A Hidden Life di Terrence Malick
Il modo sinfonico di intendere il cinema, i continui movimenti di macchina in entrata e in uscita, lo stile ellittico, il ruolo preponderante della Natura: credevamo di averlo perso e invece lo abbiamo ritrovato. Rinsavito dalla deriva antinarrativa che sembrava averlo inghiottito per sempre, Terrence Malick, leggendario regista invisibile ai più, rivela e dà dignità alla “Hidden life”, alla storia dimenticata e nascosta di un obiettore di coscienza austriaco che nel ‘43 rifiutò di giurare fedeltà a Hitler. E lo fa con un bellissimo film sul valore della disobbedienza, abbracciando, tra fede e libero arbitrio, il martirio di un uomo incapace di fare quello che pensava fosse sbagliato. Vero, come sostengono i suoi detrattori (che non amano quella sua maniera che ormai è diventata cifra), Malick qua e là è ripetitivo e il film (tre ore piene) è troppo lungo: ma altissima e poetica è la lezione di civiltà del regista americano, una riflessione universale in cui Malick denuncia come la pace della bellezza (assoluta quella di alcune ambientazioni scovate in Alto Adige) sia minacciata, ieri come oggi, da un odio che contagia chi è incapace di essere differente.
Diego Maradona di Asif Kapadia
“Quando sono arrivato a Napoli c’erano 85.000 persone ad aspettarmi: quando me ne sono andato sono partito da solo”. Chiedi chi era Maradona: che non è uno, ma due. Perché da una parte c’è Diego, il ragazzo fenomeno che trascina la sua famiglia fuori dalla miseria, il ribelle che guida un’intera città al riscatto contro il “grande Nord”, il calciatore meraviglioso capace di lanciare – solo contro tutti – la rivincita degli ultimi; dall’altra, c’è Maradona: il divo trattato alla stregua di un semidio, l’uomo che non sa fare a meno delle donne e della cocaina, il padre che non ha il coraggio di riconoscere suo figlio. Sono persone che non c’entrano nulla l’una con l’altra, ma che sfortunatamente devono convivere. È su questo dualismo interiore, su questo cortocircuito, che lavora Asif Kapadia (Oscar per il documentario dedicato ad Amy Winehouse), autore di un film dove attraverso materiale di repertorio (e diversi filmati inediti, alcuni molto significativi) racconta trionfi e cadute del mitico calciatore argentino, condensando in pratica l’intera azione nei suoi anni napoletani. Quelli delle grandi vittorie: e di una città madre e matrigna a cui Diego – e poi nessuno più – fece battere il corazón.