Va beh, dai: chiudiamola qui. Non c’è gara, ha vinto lui: che arriva sul red carpet con dei clamorosi occhiali (gli stessi che Taron Egerton indossa nel film) a forma di cuore, rossi e come se non bastasse tempestati di brillantini su tutta la montatura. Che te lo dico a fare? Tra tutti i sir di sua maestà è forse il più stravagante: ma pochi come Reginald Kenneth Dwight – per il mondo Elton John – porta incisi sulla sua pelle (o almeno sui suoi abiti) i crismi della superstar. Mentre un artista di strada suona sulla Croisette L’italiano di Toto Cutugno e in attesa di Almodóvar/Banderas (l’uno proiezione dell’altro), a Cannes la scena se la prende tutta lui: quel simpatico signore da 400 milioni di dischi venduti celebrato in vita (lo hanno fatto su Freddie, vuoi che si dimenticassero di Elton?) dal biopic Rocketman.
Rocketman di Dexter Fletcher
Inizia come una confessione e prosegue come un musical (numeri di ballo e lustrini compresi), il biopic che esalta l’artista senza nascondere le debolezze (molteplici) dell’uomo Elton John. Distante come concept da Bohemian Rhapsody (che nel bene e nel male era più “film”), ha però l’idea non trascurabile di impostare il racconto di una vita come una lunga seduta di terapia di gruppo (divertente e funzionale il prologo, che gioca a sorprendere lo spettatore) lasciando decantare la solitudine del genio che voleva essere solo amato (dal padre, da un compagno, dal mondo) per permettere al protagonista, un cambio d’abito dopo l’altro, di ritrovare quel se stesso continuamente negato, nascosto dietro occhiali sempre più grandi e costumi assurdamente vistosi. Un film interamente, o quasi, scandito dalle canzoni di Elton (e del suo inseparabile paroliere, Bernie Taupin), successi senza confini che raccontano vette inarrivabili e buchi neri di un genio fragile che ha dovuto imparare a perdonare tutti, se stesso compreso. L’impianto narrativo non è nuovissimo così come lo sguardo, ma il film, sommerso da una quantità indescrivibile di outfit e accessori (che lo rendono molto cool), ha momenti di straordinaria energia che potrebbero trasformare qualunque sala del mondo in una improvvisata pista da ballo. Perché Rocketman ha davvero molto per piacere: a partire dall’interpretazione di Taron Egerton, bravissimo, che oltre a trucco e cerone sullo schermo porta personalità a quintali.
Sorry We Missed You di Ken Loach
“Che fine hanno fatto le 8 ore lavorative?”. La domanda (posta da un’anziana e gentile signora) è lecita, ma inevitabilmente strappa il sorriso: perché nella gabbia dei criceti di Ken il rosso, dove si corre di continuo per non arrivare da nessuna parte, di ore se ne fanno pure 14 e non bastano nemmeno per stare a galla. Loach torna a Cannes – dove ha già vinto due volte – per alzare le barricate contro il precariato fai da te: sorpresa, il lavoro logora anche chi ce l’ha. È il marci o muori del nuovo millennio: niente assicurazione, straordinari, garanzie. Molti rischi e pochissimi diritti. Come Ricky (Kris Hitchen, in zona premio), moglie badante e due figli di cui uno in età complicata: gira ovunque col furgone per consegnare questo o quel pacco. E se non trova il destinatario lascia un biglietto con la frase di rito che dà il titolo al film: Sorry We Missed You. Sguardo fisso sul presente, il regista 82enne firma l’ennesima pellicola necessaria, l’ennesimo spaccato sociale colmo di amara verità: per evidenziare senza sconti gli effetti devastanti del lavoro (e della crisi economica che ti costringe a scegliere un impiego usurante) sulla famiglia. Che è sì la ragione per cui ti metti in moto tutte le mattine, ma anche la prima vittima di un sistema dove le persone e gli affetti finiscono per valere meno dei pacchi che consegni.
Les Misérables di Ladj Ly
Nelle banlieue dei casermoni tutti uguali (ma ora ripresi dal drone…), un giorno e poco più nella vita di tre sbirri, sceriffi seduti sulla polveriera in un Paese capace di ritrovarsi unito solo per i Mondiali di calcio. Parigi brucia (ancora): con lo stile ruvido dell’autodidatta, poche ghinee e la macchina rigorosamente a mano, Ladj Ly gira un poliziesco sociale dove perdono tutti, asciutta e nitida fotografia di uno status quo dove il finale è, inevitabilmente, sospeso. Ras del quartiere, bulletti da strada, fratelli musulmani, nomadi nerboruti, piccoli malavitosi: e una tensione che cresce, là dove chi semina violenza può raccogliere solo guerra e tempesta. Girato negli stessi luoghi dove Victor Hugo ambientò i suoi (dice il poliziotto appena arrivato in squadra), il film, per quanto non completamente inedito, ha facce giuste e momenti forti. E, in sé, un avvertimento: se gli adulti trovano la strada del compromesso, le nuove generazioni, battute e umiliate, hanno davanti solo quella della rivolta. Fino a qui? Tutto bene.