L’allieva ha messo in fila i maestri: seconda donna a vincere la Palma negli ultimi tre anni, appena la terza negli ultimi 77. Perché sì, il vento fa il suo giro e a volte la prospettiva cambia: ma nessuno come Cannes insegue con così grande fermezza e determinazione la politica dei nuovi autori, la consacrazione dell’inedito, la scoperta di un altro punto di vista. È accaduto anche questa volta: con i Wenders, i Kaurismäki, i Trần Anh Hùng, i Ceylan, i Kore’eda, giganti che hanno già il loro posto nella sala dei ritratti, a fare da coro all’ultima (ma fino a un certo punto: è al quarto film e del suo primo, La battaglia di Solferino, ancora si parla) arrivata. Anche Jonathan Glazer con The Zone of Interest, forse pagando l’aura da regista cult, ha ceduto, battuto in volata quando probabilmente pensava di avere già vinto, il passo.
Però sia chiaro: la 44enne Justine Triet non ha rubato niente. Il suo Anatomie d’une chute (in italiano Anatomia di una caduta), bellissimo e scomodo sin dall’inizio, con quella musica a palla destabilizzante, sparata a volume assurdo (la canzone è P.I.M.P. di 50 Cent), troppo alto anche per parlare, forse anche per respirare, figurava nella Top 5 di tutti, la mia compresa. “Impalmando” la regista francese, Cannes sposa un cinema spendibile anche in sala (non una cattiva idea di questi tempi, anzi), che utilizza i generi (il giallo, ma non solo, in questo caso) per riflessioni anche molto alte: sulla coppia e la sua disintegrazione, sui legami interpersonali, sul grande gioco della verità. E su quello a cui vogliamo credere, che accettiamo di credere. E se a un certo punto compare il plastico di una casa che non può non far pensare a Cogne, il mistero è negli occhi di chi guarda: anche quelli spenti del piccolo Daniel, che si carica sulle spalle il senso stesso del film.
Cannes, quindi, ricomincia da Triet. E, nell’edizione in cui tra pioggia e ritardi alcuni film in gara sono passati addirittura a mezzanotte (dove non sempre va la ronda del piacere…), sorride per un prestigio che non si può scalfire, forte quest’anno di un concorso particolarmente competitivo di cui hanno fatto le spese anche i tre, ottimi, film italiani. Per chi non è sembrato al meglio o così a fuoco come altrove (Wes Anderson, Ken Loach, Todd Haynes…) restando pur sempre sopra il livello di guardia, c’è chi si è ritrovato (Wenders), chi si è confermato (Ceylan, Kore’eda, Kaurismäki) e chi ha ancora ha dimostrato (Glazer) che un altro cinema è possibile. Un Festival dove non si è gridato spesso al capolavoro, quello di quest’anno (ma per decodificarlo serve, mai come ora, nel bombardamento di immagini, una visione retroattiva), ma sicuramente livellato, molto più di altre volte, verso l’alto.
Nella difesa di un cinema d’autore che (pensiamo a Bellocchio, ad esempio) non spaventi il pubblico, non sia autoreferenziale, né spocchioso; ma, piuttosto, ponga interrogativi, racconti storie, si confronti con la sala su sentimenti universali. È stato il Festival di Scorsese – e non poteva essere altrimenti – e di Indiana Jones (ma decisamente più del primo, padre nobile della nostra anima guerriera). E di un cinema dove i bambini hanno un’importanza fondamentale (da Anatomie d’une chute a Monster così come ne Les herbes sèches): la famiglia, con i suoi conflitti e nei suoi traumi, resta prepotentemente al centro dell’inquadratura, così come la coppia, distrutta (anche pacificamente come nell’ultimo Moretti) o ricomposta (Fallen Leaves, ad esempio). E in cui il mito dell’eroe ha lasciato ormai il posto a quello dell’antieroe, dell’invisibile, del solitario: che non si può permettere di dire come Édith Piaf “je ne regrette rien“, ma che non per questo è battuto, finito, sconfitto. Un Festival che in tanti (da Anatomie a Rapito, a Le procès Goldman, il bellissimo film di Cédric Kahn che ha aperto la Quinzaine) hanno portato in tribunale: ma sul quale solo la sala, adesso, ha il diritto di emettere la sentenza.