Nel mondo larger-than-life della lucha libre (lotta libera, ndt), ci sono i technicos (i “bravi ragazzi” che combattono per la verità e la giustizia, seguendo le regole) e i rudos (i “cattivi” che mentono, tradiscono e rubano le vittorie). E c’è anche una terza categoria, composta né da eroi né da farabutti: quella degli exoticos. Un’aggiunta pressoché tardiva nel panorama del wrestling messicano, questi luchadors maschi sono spesso vestiti in drag e interpretano caricature ultra-camp di uomini decisamente effeminati. Sono oggetto di scherno da parte delle folle omofobe, ma soprattutto una sorta di sollievo comico rispetto al machismo spesso tossico che caratterizza queste gare. Gli exoticos non sono l’equivalente dei clown da rodeo: questi lottatori sono tranquillamente in grado di sfidare i loro colleghi più machi. Ma, nella gerarchia del “luchaverso”, sono sempre stati trattati come qualcosa a metà tra una trovata divertente e un bersaglio facile. E, nella storia di questa disciplina, non hanno mai vinto.
Saúl Armendáriz (Gael García Bernal) sa che questo gioco funziona così. Aspirante luchador residente a El Paso, Texas, è un wrestler semi-professionista conosciuto nel circuito di Ciudad Juárez. Il suo personaggio è un bad guy mascherato soprannominato El Topo. La sessualità di Saúl è un segreto di Pulcinella tra i suoi colleghi, che lo prendono in giro sopra e fuori dal ring; anche se assume la parte del rudo, sa che riceverà gli stessi insulti riservati agli exoticos. La lucha rimane il suo primo amore, ma Saúl non riesce a trovare una via d’accesso a quel mondo. “Ti scelgono sempre per fare il pesce piccolo?”, gli chiede Lady Anarquía (Roberta Colindrez), una wrestler donna che accetta di allenarsi con lui. “Non vedono nient’altro”, le risponde Saúl.
Ma Saúl ha un’idea. A El Topo viene assegnato un nuovo incontro con Gigántico, il technico che l’aveva battuto la prima volta in cui si erano sfidati. Cosa succederebbe se, invece di presentarsi con il look che tutti già conoscono, salisse sul ring con il nome di Cassandro, un exotico out-and-proud che si pavoneggia di fronte ai suoi rivali? Decide dunque di reinventarsi completamente, e di aderire a ogni stereotipo che l’archetipo richiede, fronteggiando ogni insulto omofobo e accettando di essere chiamato con tutti i nomignoli possibili. Ma questa volta sarà tutto diverso. Cassandro lascerà il ring da campione. Chi se ne importa di quel che pensa il promoter del torneo: a questo giro, a trionfare sarà proprio l’exotico.
Cassandro (disponibile su Prime Video) è il tipo di biopic che racconta tutta la vita del suo protagonista, dai flashback sulla sua infanzia al successo, passando per la lotta contro i suoi stessi demoni. Ma al centro del film c’è il momento in cui Saúl s’incammina verso il ring per quello scontro cruciale; e a salire su quel ring sarà una persona completamente nuova: Cassandro, appunto. Vestito dell’uniforme dell’exotico composta da tight, camicia rossa senza maniche e shorts di jeans, è insicuro come un bambino che muove i primi passi. Ma poi succede qualcosa. Sente i fischi del pubblico mentre in sottofondo passa la versione spagnola di I Will Survive di Gloria Gaynor, e per lui è come se fosse una rinascita. I suoi gesti si fanno più sicuri e decisi, la sua andatura più rilassata. Un tipo decisamente bigotto lo prende in giro, e Cassandro lo colpisce col suo culo prima di salire sul ring. Si presenta come un supereroe, prima di essere sbattuto giù dal ring da Gigántico. Ma alla fine del match tutti staranno gridando il suo nome. Saúl ha perso l’incontro. Ma Cassandro ha vinto la guerra.
È un classico momento da film sportivo, quello in cui l’agonia della sconfitta viene trasformata nel brivido della vittoria solo perché finalmente si è avuta la chance attesa da tempo (vedi, su tutti, Rocky). Ma il modo in cui Gael García Bernal dà corpo a quella metamorfosi iniziale fa passare questa storia da semplice “trionfo dell’underdog” a qualcosa di più profondo. Ci mostra il suo Saúl mentre assorbe l’energia della folla, dopo avercelo fatto vedere mentre cercava di nascondere pubblicamente la sua identità di uomo gay, addirittura di fronte alla madre (Perla De La Rosa) che l’ha sempre accettato. Ora invece abbraccia senza vergogna quella parte di sé, e la usa come arma sul ring. Cassandro arriva perfino a studiare le sue mosse in base al panico dello sfidante di trovarsi di fronte a un uomo omosessuale, così da far diventare “l’eroe” l’oggetto dello scherno altrui. La performance dell’attore è, in sintesi, un equilibratissimo mix di teatralità, speranza, fragilità, fiducia, e colpi che mettono al tappeto tutto e tutti. A volte tutto questo avviene nella stessa scena; altre, addirittura nello stesso sguardo.
Accanto ai soliti temi da biopic tradizionale, dunque, c’è il bellissimo ritratto di una piena autorealizzazione di sé, la storia di un bruco che diventa farfalla in un lungo mantello di paillettes. È probabilmente una delle migliori performance di Gael García Bernal nella sua intera carriera, un misto incredibile di profondità emotiva e fisicità dirompente. L’attore messicano è anche colui che si porta sulle spalle il film dall’inizio alla fine, e il regista Roger Ross Williams lo sa. Già vincitore di un Oscar per il suo corto documentario Music by Prudence (2010), il regista ha letto questa storia sul New Yorker e ha subito immaginato questo “Liberace della lucha libre”, come l’ha definito lui stesso, sullo schermo, in quello che sarebbe diventato il suo primo film di finzione. Non è che il regista e il suo attore non siano interessati all’aspetto relativo al wrestling, ma sanno che è solo uno dei tanti temi di questa storia. Diventare una star della lucha libre ha trasformato Saúl/Cassandro in un’icona LGBTQ+ prima e in un eroe poi. Senza però mai farlo smettere di lottare contro i suoi demoni.
Così, invece di concentrarsi sui montaggi degli incontri, fino a quello in cui Cassandro batte il leggendario Son of Santos (che sullo schermo interpreta sé stesso), al film interessa mostrarci il protagonista e sua madre mentre guardano da lontano il padre di Saúl, che si è fatto un’altra famiglia e che non ha mai accettato l’omosessualità del figlio; o Saúl mentre fa l’amore col suo amante di più vecchia data (Raúl Castillo); o il momento in cui, dopo che un promoter ha sentito il pubblico passare dagli insulti agli incitamenti verso Cassandro, Saúl fa amicizia dietro le quinte con i suoi colleghi, e in qualche caso anche con dei fascinosi gangster (Benito Antonio Martínez Ocasio, più noto come Bad Bunny). Il trionfo è seguito dalla tragedia, come anche il compositore Marcelo Zarvos sottolinea col suo melanconico commento musicale; ma il dramma è seguito a sua volta da vittorie ancora più grandi.
Quello che Cassandro non fa mai è guardare il suo eroe over-the-top come se fosse una macchietta camp, ma nemmeno un santo (cosa che sarebbe puntualmente accaduta, se dietro la macchina da presa ci fosse stato un regista più convenzionale). E se, a differenza di quello che succede nella maggior parte dei film sportivi, nel finale non assistiamo al solito climax, anche questa è una scelta voluta. A Roger Ross Williams e Gael García Bernal non interessa regalarci un’edificante parabola gay-friendly, né realizzare un melodramma su un omosessuale alle prese con l’intolleranza di chi lo circonda. A loro importa consegnarci la storia di un luchador che scopre il vero sé nella maniera più esagerata e sfacciata possibile, e che, lungo la strada, cambia le regole del suo sport. Qui la vera vittoria avviene oltre le corde del ring.