In Rifkin’s Festival di Woody Allen, ora al cinema, il festival del titolo è quello di San Sebastián, il più importante di Spagna, che, come quello di Venezia, si è svolto più meno regolarmente anche nel 2020, con distanziamento, mascherine e niente pubblico. Lo stesso Allen ci ha presentato il film, girato lì un anno prima, collegandosi da lontano. Il sito di San Sebastián/Donostia annuncia che ci sarà anche l’edizione 2021, la 69esima, dal 17 al 25 settembre, così come Cannes sarà dal 6 al 17 luglio e Venezia dal 1° all’11 settembre.
Nel film, Woody descrive il festival dalla prospettiva di Mort Rifkin, che è uno scrittore fallito, molto cinefilo, docente di storia del cinema, uno che nel cinema non ci lavora davvero, quindi ne coltiva un’immagine romantica, alta, quasi mitica. Per tutti gli altri, quelli che di cinema campano (qui rappresentati dal personaggio di Gina Gershon), i festival sono come i congressi per i medici: lavoro ma anche molto altro, dove per altro si intende la socializzazione con i propri simili, a diversi livelli. (Sì, il networking professionale e pure gli incontri amorosi.)
I festival sono un rito, anche un po’ noioso, come tutte le cose che si ripetono, ognuno ha i suoi preferiti e spreferiti, e poi ovviamente tutto dipende da chi sei, con chi ci vai e perché ci vai. Una volta un attore francese reduce dall’impegno come giurato di un grosso festival mi confessò che non lo avrebbe mai più fatto (promessa che ha mantenuto) perché si era stressato come non mai, aveva litigato e basta, e in fondo chissenefrega del prestigio, non si può andare avanti così, alla fine sono solo film e la vita è altrove.
Il fatto è che i festival, almeno per come sono stati fino ad oggi, cancellano la vita, sono la madre di tutte le bolle, una super bolla completa e totalizzante: per quei giorni (di solito 10, ma paiono 30) tutto è festival, tutto è una proiezione (in ogni senso, scusate la battuta), può cascare il mondo ma l’unica cosa che conta è avere il biglietto per entrare a vedere il film delle 19. O vincere un qualche animale in oro. O fare in modo che non lo vinca un altro. O semplicemente esserci per poi dire di esserci stati. I festival sono eccitanti: si gasano all’idea di Cannes persino gli scafatissimi agenti francesi della serie Netflix Chiami il mio agente!, Cannes è il clou della loro vita (e della puntata con Juliette Binoche, nella finzione madrina della cerimonia d’apertura). I festival sono quel luogo così astratto che, se c’è la rivolta di piazza Tienanmen e voi chiedete a un altro festivaliero che ne pensa della Cina, vi risponderà: «Mi dispiace, non l’ho visto, ero a vedere il greco alla Quinzaine».
I festival cinematografici esistono da quasi un secolo, ce ne sono ormai 500 considerati maggiori (al loro interno, la A-List composta da Venezia, Cannes, Berlino e Sundance), ma ce ne sono quasi 5000 piccoli, iperspecializzati, a volte intermittenti, in ogni angolo di mondo. Un vero censimento è impossibile. In qualche caso sono prodotto della vanità di qualche politico locale, in altri faticosi eventi di militanza culturale, in altri ancora atti di puro eroismo, come il Duhok International Film Festival in Iraq, che continuò a proiettare film durante l’assedio della vicina Mosul nel 2016.
L’assedio di cui parlare adesso, però, è un altro: potranno i festival sopravvivere? Il loro modello di business si basa sulle sponsorizzazioni dell’evento, sulla possibilità di accendere un faro di interesse su una località turistica (un esempio per tutti: Park City, Utah, dove si tiene il Sundance, 7500 abitanti e 122mila partecipanti al festival nel 2019) e pochissimo sulle quote di iscrizione dei film. I soldi, insomma, arrivano tutti dall’essere un evento. Più grande è il festival, più soldi arrivano all’organizzazione e, a pioggia, intorno al territorio. Semplice, no? Ma in un’era post Covid, che cosa succederà?
In questo ultimo anno caratterizzato da voli soppressi, eventi cancellati e cinema chiusi (l’obiettivo finale di un film presentato a un festival è sempre stato arrivare in sala), in uno scenario super competitivo dell’audiovisivo in streaming, gli organizzatori di tutto il mondo hanno fatto molta fatica a mantenere viva anche solo l’idea di rilevanza dei festival. Qualcuno si è convertito alla versione totalmente virtuale, altri hanno tentato il sistema misto (un po’ online per gli stranieri e un po’ di proiezioni in presenza, contingentate, per i locali), Venezia e Roma hanno colto l’attimo tra prima e seconda ondata della pandemia, Cannes ha messo una specie di “bollino blu” sui film che aveva scelto e poi li ha mandati qua e là (per esempio, proprio a San Sebastián).
Paradossalmente, un festival virtuale può avere molti più spettatori di uno in presenza e persino mostrare più film. Se pensate che uno dei problemi di Cannes, negli ultimi anni, è stata proprio l’overdose di titoli, in nome di un gigantismo che cominciava a essere dannoso dovendo tenere conto della capienza delle sale, forse un Cannes online potrebbe davvero dare spazio a tutti. Con costi (ma anche ricavi) molto inferiori e naturalmente per la gioia di Greta: meno aerei, meno automobili, meno consumi. Certo, non sarebbe più un festival. Si sgonfierebbe la bolla. Forse sarebbe contento solo il critico cialtrone che si vede in Festival (bellissimo film di Pupi Avati del ’96, tutto ambientato alla Mostra di Venezia), che, a un certo punto, dice: «Ancora pochi giorni e saremo finalmente fuori da questo scemenzaio rutilante, da questo guscio luminescente e vacuo che gli edotti si ostinano a definire festival».